di Rafael Di Maio
L’indipendenza, tra sovranità politica, emergenza sociale e stato di eccezione.
La vita politica in Italia scorre nella crisi di sistema, insieme globale e locale, economica e culturale. Si moltiplicano e si addensano le contraddizioni sociali mentre le disuguaglianze e le nuove precarietà si riproducono in seno alle vite di milioni di persone, tra vecchi e giovani senza futuro, in una latente e dormiente guerra civile non dichiarata. In questo complesso tornante della storia, in questa fase di permanente eccezionalità, le decisioni e le scelte politiche che si producono non possono e non devono essere dettate esclusivamente dal freddo calcolo della tattica, distorcendo a proprio comodo il tempo e lo spazio.
Lo scenario politico che attraversiamo si ricombina su tutti i piani, quello economico, sociale e culturale. La crisi verticale del sistema finanziario, pubblico e privato, rappresenta la cornice di trasformazione epocale e strutturale e il nuovo paradigma di costituzione – narrazione – del potere. Una crisi che travolge il modello neoliberista che decade inesorabilmente verso il baratro, insieme ai suoi principi di sviluppo e di progresso. Siamo di fronte all’ultima crisi del fordismo e dell’industrialismo e alla prima grande crisi dell’economia della conoscenza. E’ una crisi di transizione – come nel 600’ agli albori della modernità dove la transizione si dava dal feudalesimo dei locali ed arbitrari centri di potere, alla statuale e moderna forma del potere governamentale, alla reductio ad unum della forma moderna dello Stato.
Oggi viviamo nella nuova transizione, quella dall’immagine del mondo moderno ed industriale alla forma contemporanea dell’economia immateriale e della conoscenza. Viviamo come il resto del pianeta in questa lunga fase di declino e crisi sistemica dell’opzione neoliberista, ma politicamente in una condizione particolare, specifica, locale. Quello italiano rappresenta il quadro politico d’insieme più inquietante nel territorio europeo: prevalentemente dominato dalle destre populiste, dal crollo delle sinistre istituzionali e da un governo conservatore e autoritario. Del resto è una consuetudine di alcuni paesi europei quella di istituire in risposta alla crisi economica un’opzione politica e di governo prevalentemente conservatrice e reazionaria, così fu in Italia, Spagna e Germania, negli anni trenta durante la grande depressione. Sovrano fu, chi decise sullo stato di eccezione. Ieri come oggi, eccezione e sovranità determinano lo spazio politico, irrigimentano con la paura lo spazio comune, la città e la sua vita sociale. Ieri come oggi, eccezione e sovranità costituiscono lo spazio urbano e metropolitano, ne compenetrano la sintesi istituzionale. Non a caso la poleis deriva dalla stessa radice etimologica dei due termini, politica e polizia, qui leggi, sovranità ed eccezione. La politica si afferma come polizia della città, nel controllo dei corpi e delle relazioni produttive che nella polis nascono e si riproducono. Il governo sull’eccezione è la forma pura del potere politico e nel contempo è l’esaltazione della beffa alla democrazia, maschera scomposta del sovrano e dei suoi sudditi. Sarebbe legittimo ora domandarsi, cosa ci sorprende ancora nella politica? Se il problema fosse solo il governo Berlusconi, saremmo dei pazzi a non aver ancora tentato di buttarlo giù in ogni modo! Ma appunto, per sostituirlo con chi? Con quali rapporti di forza e dentro quali assetti costituzionali? Se questa è una crisi di sistema, perché lo è? E’ una crisi che nasce solo da qualche speculazione finanziaria? O è forse l’intero sistema capitalistico ad essere ormai insostenibile e sempre più parassitario, intossicato, nocivo?
Nelle più “prestigiose” università, dove in passato si è studiato e ricercato molto per sostenere e poi esportare l’ideologia “mercatista” e neoliberista, oggi addirittura sono attivi corsi, dottorandi e lectures in nome del post-capitalismo. Cioè lo stesso sistema capitalistico occidentale si assume ormai come frontiera degli assetti di potere, decadenti, da ripensare, da reinventare. uello italiano infaqueE’ finita la mediazione politica insieme al modello sociale europeo e il suo processo welfaristico. Il patto, quello che era il “new deal” è diventata una vecchia mutanda. E’ terminata l’intima relazione tra conflitto sociale, relazioni sindacali e sintesi politica, insieme, alla rete di protezione sociale dello Stato moderno. E’ finita la stagione dove la stessa produzione industriale necessitava della politica come contrattazione: degli alti salari, della piena occupazione e della rete di welfare. Finisce anche l’idea stessa della mediazione e del dialogo sociale. Semplicemente, la coesione non è più necessaria. E ce ne stiamo accorgendo risalendo la mappa della crisi o meglio delle crisi industriali, delle vertenze e delle sofferenze del mondo del lavoro, l’unica vera controparte sono i reparti celere. L’unico nuovo welfare previsto dalla governance è la polizia. Lungi dall’essere stata una fase pre-rivoluzionaria, in ogni modo, la stagione del welfare state viene archiviata dai guardiani della globalizzazione in nome della stessa crisi di cui ci stiamo preoccupando.
Dobbiamo necessariamente ridefinire lo spazio politico, saper andare oltre, gettare lo sguardo verso un orizzonte comune. Bisogna lavorare con l’immaginazione. Un po’ come si fa con la musica e la letteratura, con il freestyle nell’hip hop o con il montaggio nel cinema. Per costruire l’alternativa politica e perseguire un cambio materiale, economico e sociale, non è sufficiente volare alto. Dobbiamo intervenire sulla sfera pre-politica o se si preferisce post-politica della trasformazione culturale, incidere lì dove sappiamo che si gioca la vera libertà, incidere sulla frontiera della conoscenza. Sul punto alto della contraddizione, dove si determina l’emancipazione e la libertà. Come sempre la fabbrica del consenso è prima di tutto fabbrica di ignoranza, a maggior ragione in una società dove sul piano culturale si sfiorano ormai livelli indecenti di istruzione – teniamo presente che un terzo degli italiani è pressoche analfabeta, a cui si somma un altro terzo, considerato analfabeta di ritorno. E non a caso sul crinale della libera condivisione del sapere, oggi, si nega l’espressione artistica e creativa dell’attività umana, troppo spesso compressa dalla precarietà, dai brevetti della proprietà intellettuale, dall’organizzazione gerarchica del lavoro, in una società dove la precarizzazione del lavoro e le filiere del consumo rappresentano le maglie dispiegate del controllo sociale. Nella complessità del ragionamento e nella sfiducia dilagante nei confronti della politica e dei partiti, dobbiamo avere dalla nostra parte quella lungimiranza visionaria del potere costituente, della politica come trasformazione della realtà.
Dentro la stessa oscura realtà che attraversiamo è necessario ricostruire quei legami sociali spezzati. Nella costituzione materiale delle donne e degli uomini che la rendono attiva e propulsiva è possibile cambiare la politica. Difficilmente la si potrà trasformare nella svuotata rappresentanza formale o nella messianica speranza di un salvatore. Dobbiamo ri-significare la realtà, avendo consapevolezza dei centri di potere che siamo chiamati ad affrontare dentro l’attuale modello di società complessa, terziarizzata, separata ed individualizzata, finora prevalentemente sedotta dalla corruzione e dall’autoritarismo, ipnotizzata dal consumo. Ma nella strada obbligata di dover difendere con i denti il diritto di resistenza, dobbiamo poter coltivare una politica visionaria e costituente, a partire dai nostri territori dove è progressivamente cresciuto negli ultimi anni l’elemento della ribellione in nome della sovranità e della decisionalità dal basso. Un elenco sarebbe qui sminuente. Basti fare mente locale alle tante battaglie di resistenza in difesa dei beni comuni, contro le grandi opere e le speculazioni immobiliari, contro i grandi eventi e le speculazioni finanziarie, che dal nord al sud della penisola negli ultimi tempi si sono moltiplicate e rafforzate.
La potenza di fermare una decisione stabilita dai grandi tavoli e consessi del potere locale e transnazionale, è una delle forme del potere costituente di cui parliamo. Un potere che determina non solo nuova partecipazione popolare ma che irradia, con una logica rovesciata e sovversiva della sovranità, la decisione nello spazio politico. Chi decide su cosa? E’ un quesito che rappresenta la prima forma d’indipendenza delle comunità locali dalle nuove oligarchie e dai nuovi centri del potere. E’ la forma di vita che costruisce potere costituente. E’ l’alterità che sul territorio sedimenta indipendenza, che si fa potenza, nuova res-pubblica.
In primo luogo indipendenza dal sovrano. E immediatamente dopo dal sistema capitalistico. Partendo da qui possiamo ripensare l’indipendenza anche sotto un profilo culturale, facendo crescere la prospettiva ideale e la praticabilità politica, necessariamente dentro e insieme, se lo si desidera ancora, a quella radicale visione alternativa della realtà sociale ed economica che vogliamo poter autogestire, immaginare, praticare. A partire dai grandi e piccoli NO che saremo in grado di far crescere, potremo immaginare le forme dei SI e delle alternative possibili. Anche a costo di rievocare fuori dalle mode, l’esercito di quei sognatori, di zapatista memoria, che hanno a metà degli anni 90’ umilmente riaperto alla nostra generazione la possibilità dell’autogoverno, il simbolo del conflitto e della degna alterità, per il cambiamento di un’opzione politica ancora possibile. Tutto sommato, a distanza di dieci anni, anche se “giocato” malissimo sul piano della politica, il movimento (quello giornalisticamente definito no-global) aveva ragione, ce lo riconoscono un po’ tutti! Oggi più che mai, quello che sostenevamo sulle barricate di Seattle, di Praga o di Genova nel biennio anticapitalista della transizione (1999/2001) si sta materializzando in un’imbarazzante crisi sistemica per il potere globale, insieme economica e politica. Quello che noi abbiamo continuato a dire anche negli anni recenti, purtroppo sempre più divisi, tribalizzati e in taluni casi anche banalmente regalati al politicismo nella “saga no-global alla italiana”, era corretto. Era ed è tutto vero. Il capitalismo neoliberista sta depredando il pianeta e la sua umanità, in un’ossessiva e compulsiva ideologia del profitto, fino a rendere il mare nero, fino a far dire a alla BCE e al FMI che la crisi appunto è sistemica e che il modello attuale, per l’appunto, non è più sostenibile. Alla crisi economica corrisponde il tracollo della politica e della sua rappresentanza formale.
Questo è un passaggio importante sul quale vale la pena di ragionare politicamente sotto il profilo dei movimenti indipendenti anche a partire da cosa, dentro, intorno e a sinistra, sta nascendo con le “Fabbriche di Nichi”. Sorvolando la prima critica, quasi scontata, che riguarda quello che si sente spesso da più parti, ovvero il tema dell’accentramento personalistico e del lìderismo – che indubbiamente rappresenta un limite del processo in corso, che ha un po’ il sapore amaro dei tempi odierni – la scelta messianica della figura religiosa del salvatore – fa emergere in realtà con grande semplicità i limiti evidenti per affrontare la difficile sfida in corso. Se a Niki malauguratamente gli casca un vaso in testa, che fa tutta la nuova sinistra mobilitata, aspetta che cresca da qualche parte un altro carismatico poeta? Invero per la sinistra radicale istituzionale così come per quella per l’autorganizzazione sociale, il temi reali rimangono sempre gli stessi: come si sostengono le lotte, come ci si radica sul territorio, come si condividono i saperi, come si coniuga alterità, immaginario e presenza reale, come si accumula credibilità politica all’interno delle alleanze sociali che si costruiscono nelle città, come si fa vivere il controllo democratico dal basso sul territorio contro le speculazioni, come si anima e si organizza la resistenza alle scorribande neofasciste. In sostanza come si accumula potenza per il cambiamento al di là di questa o quell’opportunità politica?
Osservando da vicino la fase post-ideologica dentro quello svuotamento dei corpi intermedi, rappresentati dai partiti di massa o dalle organizzazioni sindacali, c’è un punto dirimente, che vuole essere un invito alla riflessione intorno all’opzione che prende piede con l’imminente candidatura di Vendola al governo del Paese. Un’osservazione che non può sfuggire alla consapevolezza di chi da anni anima i movimenti sociali, radicali, indipendenti e alternativi che dir si voglia e di chi – suo malgrado – ha imparato a conoscere il sistema politico italiano, il Paese del Gattopardo, dove realmente tutto cambia, affinché nulla muti.
Con la crisi della rappresentanza politica nella crisi sistemica del capitalismo globale, si evidenzia un aspetto centrale del processo in corso che rafforza il seguente ragionamento. Vi è una macrofisica che potremmo sintetizzare con la fine della partecipazione di massa alla politica, la fine della fiducia nelle istituzioni corrotte, la fine della governabilità dall’alto, dell’azione governamentale top down. Ma scopriremo poi un successivo livello che è quello relativo al sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica, ovvero di quella crisi nella crisi: la fine del bipolarismo, il riemergere, contro le false credenze del partito liquido, della soggettività organizzata ed identitaria – la Lega Nord sta lì a dimostrarlo – una legge elettore antidemocratica definita “porcata” da chi l’ha redatta, dove in realtà considerando le astensioni prende la formale maggioranza in Parlamento, quella che è una reale minoranza nel Paese.
E ancora, la forma bloccata della democrazia incompiuta degli ultimi quindici anni dove ogni spazio riformatore, ogni iniziativa di avanzamento e modernizzazione dei diritti ha dovuto fare i conti con i veti incrociati, i ricatti, i giochi di potere, le continue mediazioni al ribasso. Tutto ciò non accade per caso. Vi è una radicata e profonda strumentalità dietro questo schema. In Italia (e non solo!) vi sono gruppi di potere, lobby trasversali, corporazioni nel mercato e nello Stato che non hanno nessun interesse affinché muti la struttura sociale consolidata o l’iniqua divisione della ricchezza socialmente prodotta. Le oligarchie economiche al potere non hanno nessuna intenzione di mediare con i precari che crescono esponenzialmente, con i pensionati al minimo, con i cassaintegrati senza futuro, con i disoccupati di lunga durata. Non solo, le caste al potere sguazzano nella crisi, si rigenerano, mentre si appellano alle politiche dimagranti della Unione Europea, della BCE e dell’FMI. E non hanno nessun interesse a cedere le porzioni di privilegio accumulato, non hanno nessuna intenzione di pagare le tasse e di investire sulla conoscenza o sull’avanzamento culturale.
In definitiva alcuni gruppi di potere in Italia governano sempre, a prescindere dalle sfumature, determinando pesantemente qualsiasi esecutivo e azione di governo. Fino a quando non muteranno radicalmente i rapporti di forza economici e sociali nella costituzione materiale, taluni assetti di potere, incideranno più di qualsiasi scommessa ideale e finiranno per condizionare anche una “radicale sorpresa” come quella rappresentata per esempio dalle Fabbriche di Nichi. La governance locale e globale da un lato e le tecnostrutture dall’altro, occupate ad interim dalle figure apparentemente solo tecniche, bastano di per sé a rendere anche una maggioranza elettoralmente qualificata, incapace ed impossibilitata a dare seguito all’azione di governo preannunciata nella campagna elettorale. Basta un direttore generale non allineato a bloccare o ritardare le attività di un assessorato o di un ministero, con la burocrazia pilotata, i veti incrociati, i ricorsi e i piccoli cabotaggi. Anche laddove si è Presidente di Regione (e Vendola ne sa qualcosa) basta un ministro economico, come l’attuale, per essere imbavagliati e commissariati. E anche se il nuovo leader divenisse Premier, laddove volesse attuare una radicale riforma sociale dovrebbe stare dentro il patto di stabilità, all’interno dei parametri di Maastricht (o i nuovi vincoli che verranno), dentro la soglia del 3% sul rapporto deficit/pil, dovrebbe attenersi al rigoroso contenimento della spesa pubblica, alle direttive della Commissione europea e via discorrendo.
In definitiva la governance politica della globalizzazione economica ha determinato una stratificazione così articolata della complessità, che ai cittadini sfugge non solo il controllo della macchina, ma anche la conoscenza di come si accende il motore o si cambiano le marce. Per quello diciamo da anni che la rivolta o è globale o non è. Che il cambiamento o sarà radicale, o semplicemente non potrà essere. Ovviamente una spinta riformatrice coraggiosa, un ascolto disinteressato delle istanze sociali o una sensibilità istituzionale diversa dagli ultimi governi, non potrà che essere un passo di avanzamento complessivo, anche per i movimenti. Sotto questo aspetto non si possono avere dubbi. All’aumentare del peso della sinistra istituzionale, per esempio negli anni ’60/’70 – in cui il conflitto sociale rappresentava il motore della democrazia – aumentava anche il peso e il protagonismo politico dei movimenti rivoluzionari ed extraparlamentari – si pensi anche ad esperienze di governo molto avanzate in altre parti del mondo, come nel Cile di Allende. Tra l’altro anche lì c’era un poeta che fu candidato alle primarie del 1969, dal partito comunista cileno, si chiamava Pablo Neruda. Ma in Italia di quell’esperienza si fece una “confusione” tanto grande addirittura da chiamarla “sindrome cilena”. La questione rimane per come è stata fin qui descritta. Dal solo piano alto del governo, la trasformazione mediata, graduale e dall’interno del sistema-Italia, rappresenta una meta irraggiungibile, “un’utopia irrealizzabile”. Al contrario, ciò che sembra irrompere dai piani bassi, ciò che sembra uscire dal cassetto dei sogni, dal desiderio dell’assalto al cielo, apre la strada per “un’utopia concreta”, necessaria. Disvela un cammino di riscatto e di emancipazione, una via per la libertà e l’indipendenza da intraprendere umilmente, fino alla vittoria!
Bibliografia sragionata:
G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003
F. Borkenau, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Il mulino, Bologna 1984
C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè editore, Milano 1998
A. Negri, Il potere costituente, Sugarco edizioni, Varese 1992
C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2003
I libri vanno letti per essere dimenticati” M. Montaigne, Essais
*articolo uscito sul X° numero di Loop (settembre/ottobre 2010)