La “Minga” è una parola di origine peruviana , il cui significato è traducibile come “lavoro collettivo”.
Tale forma di lavoro, nata ai tempi dell’impero Inca ed ancora praticata dalle comunità latinoamericane, si caratterizza per i suoi fini di utilità sociale quali la costruzione di infrastrutture ed edifici pubblici.
La Minga che prevede una progettazione partecipata “dal basso” per la realizzazione del manufatto trova riscontro oggi con le modalità per molti versi simili dell’autorecupero.
L’autorecupero consiste nella conversione del patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato (come scuole, caserme, uffici etc.) che, con il passare del tempo è stato abbandonato e lasciato all’inevitabile degrado, in nuovi spazi ad uso abitativo.
Come nella Minga andina quindi, anche nell’autorecupero diventa centrale la modalità collettiva dell’intervento. Il prefisso “auto”, infatti, sta a significare proprio questo carattere aperto e partecipato dell’intervento che prevede una divisione delle spese tra l’amministrazione pubblica e i cittadini, principalmente organizzati in cooperative.
Nel Lazio l’autorecupero ha trovato un riconoscimento istituzionale con la legge regionale n°55 del 1998, vera e propria conquista dei Movimenti di Lotta per la Casa che per anni hanno portato avanti la vertenza di recuperare lo spazio occupato.
Oltre a rappresentare una possibile soluzione all’emergenza abitativa, l’autorecupero è anche una alternativa alla costruzione di aree p.e.e.p. (piano per
l’ edilizia economica popolare) in zone molto distanti dal centro, sconnesse dal tessuto cittadino e prive dei pur minimi servizi.
Nel caso di Roma un valido esempio di questa situazione è quello del quartiere Ostiense e più in generale di tutto il municipio XI.
Questa zona per tutto il Novecento fu destinata alle attività produttive e industriali, restano ancora oggi sul territorio i segni di questo passato che non c’è più.
Numerosi edifici vuoti e inutilizzati come il Gazometro o i Mercati Generali, o come quelli occupati oggi dall’ Università di Roma 3. Luoghi lasciati all’abbandono da decenni per colpa di giunte comunali miopi ed affari milionari mai conclusi. In questo scenario incontrollato una parte di cittadinanza attiva ha deciso di recuperare due di questi fabbricati: una ex caserma ed un ex macello. Due esperienze per certi versi molto diverse ma che allo stesso tempo hanno in comune il desiderio di autodeterminare le loro vite, liberando spazi per la collettività e aprirli al territorio. Una di queste, il Porto Fluviale, un ex magazzino della Marina Militare, è un occupazione del Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa. Ad oggi abitato da un centinaio di famiglie in emergenza abitativa che dopo sette anni di occupazione hanno deciso di intraprendere la via dell’autorecupero.
L’altra è invece l’esperienza di Multivercity che ha portato il collettivo degli studenti della facoltà di Architettura di roma tre a recuperare un fabbricato abbandonato all’interno dell’ex-mattatoio di Testaccio trasformandolo in uno spazio sociale dove si svolgono iniziative di interesse culturale aperte a tutti gli abitanti del territorio.
Un lavoro collettivo per l’appunto che vede negli spazi dimenticati della metropoli quella possibilità di recupero e trasformazione che sappia ridisegnare la geografia emotiva dei territori secondo le vere necessità dei suoi abitanti e non invece per qualche piano urbanistico imposto dall’alto.