Una riforma radicale degli Ammortizzatori sociali non solo rimane oggi un punto dirimente per affrontare una qualsivoglia politica sociale e di welfare minimamente attestata sui livelli di protezione sociale richiesti dalla comunità europea, quanto ormai per il nostro paese, rappresenta una vera e propria emergenza sociale ineludibile e non più rinviabile. Il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è sotto molteplici aspetti iniquo, asimmetrico e carente praticamente in tutte le sue funzioni. Oltre ad affermarlo una infinità di ricerche accademiche di diverse sfumature teoriche e tendenze politiche, lo testimoniano le tante storie di vite precarie che in continui percorsi lavorativi instabili ed intermittenti non conoscono alcuna tutela e rete di protezione sociale, attraversando il mercato del lavoro come veri e propri schiavi o come li definisce l’accademia delle politiche del lavoro, come i neo – working poors. Una riforma radicale del welfare-state e degli ammortizzatori sociali rappresenta oggi l’unica misura in grado di contrastare nell’immediato la ricaduta sociale della crisi finanziaria globale che nel breve periodo trasformerà le condizioni di vita di milioni di persone e provocherà l’accelerazione di un crescente e progressivo processo di precarizzazione ed impoverimento di quei settori sociali che hanno fin’ora costituito quella parte garantita e tutelata della popolazione attiva. Una crisi che viene da lontano e che rappresenta la più alta manifestazione del crollo verticale dell’intero modello neoliberista che oggi si trova decisamente sul crinale del baratro e della recessione economica. Facciamo riferimento alla crisi economica e finanziaria così come la stiamo progressivamente conoscendo nelle sue ricadute sull’economia reale, nel rallentamento e nel declino degli indicatori di crescita, produttività, sviluppo economico e cosa ancor più grave nel potere di acquisto dei cittadini e delle famiglie. Gli ultimi dati che emergono dalle ricerche statistiche e dalle previsioni economiche realizzate da alcuni centri studi come Banca d’Italia o Confindustria rappresentano già di per sé una base sostanziale di analisi e di riflessione sulle ricadute della crisi finanziaria sulla così detta “economia reale”. Il Centro Studi della Confindustria per esempio segnala che la produzione industriale su base nazionale è in continua e progressiva caduta. Rispetto al gennaio del 2008 per la produzione industriale si registra (nel gennaio 2009) un’inflessione dell’11,8%. Ma il dato ancor più preoccupante rispetto alla crisi profonda che sta attraversando il settore industriale lo rappresenta l’andamento degli ordini il cui calo per le aziende che lavorano su commessa e’ stato nell’ultimo anno (gennaio 2008-gennaio 2009) del -7.9%1. E quindi già da questi dati dietro la crisi del settore industriale (che comunque se vogliamo è anche interna ai processi di ristrutturazione economica degli ultimi trentacinque anni) traspare e s’intravede una crisi conclamata anche nei settori in espansione come il terziario e terziario avanzato. Secondo il Centro Studi di Banca d’Italia l’attività produttiva complessiva del sistema delle imprese si sta riducendo in tutti i comparti2 e tra il secondo e terzo trimestre del 2008 il nostro paese ha perso complessivamente quasi un punto del prodotto interno lordo (-0.4 nel II° trimestre ed un ulteriore -0.5 nel III° trimestre del 2008 di PIL) confermando insieme a tutti gli indicatori disponibili, un marcato deterioramento del nostro sistema produttivo all’interno della difficile congiuntura internazionale aggravata dalla crisi finanziaria: “La fiducia delle imprese si è deteriorata scendendo ai minimi storici e riflettendosi in piani di riduzione degli investimenti anche per l’anno in corso”3 . Complessivamente stante tale contrazione economica peggiora la redditività delle imprese mentre aumenta il loro fabbisogno finanziario, ma soprattutto e logicamente ristagnano i consumi delle famiglie. Sempre secondo la Banca d’Italia “è sempre più diffusa l’incertezza sulla durata e sulla profondità della fase recessiva e le crescenti preoccupazioni sull’evoluzione del mercato del lavoro hanno indotto le famiglie a rinviare le spese consistenti con un forte calo anche degli acquisti di beni durevoli”4. Viene da sé che se questa è la condizione in cui versa il sistema delle imprese, la conseguente e drammatica accelerazione di crisi nel mercato del lavoro appare ovvia e sotto gli occhi di tutti. Ma vediamo un po’ in un quadro panoramico di sistema, come sta evolvendo il mondo del lavoro. In realtà dal 1995 l’occupazione in Italia è cresciuta con 3 ML di nuovi posto di lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso dall’11 al 5.5% circa, tutto questo mentre i tassi di crescita rimanevano progressivamente sempre più bassi. Ovvero in questi anni il lavoro è cresciuto più dell’economia reale e “i posti di lavoro si sono moltiplicati senza creare nuova ricchezza” ne complessiva e ne individuale, infatti il reddito medio pro capite è in Italia di 25.500€ contro i 27.500€ della media europea (sotto di noi ci sono solo la Grecia e il Portogallo)5. Tra dipendenti a termine, cocopro, consulenti, part-time e apprendisti si raggiungono nel 2007 circa il 20% degli occupati complessivamente attivi e contemporaneamente solo 1/3 delle assunzioni con meno di 40 anni riguarda i tempi indeterminati. Coesistono ormai quindi da anni due velocità all’interno del MDL quello del posto fisso e quello del lavoro temporaneo. Da un lato quello delle garanzie durante il rapporto di lavoro e dopo il licenziamento, e dall’altro quello della flessibilità che spesso si traduce in precarietà senza garanzie sia durante che dopo il rapporto di lavoro. La crescita del MDL in Italia è stata quindi costruita su questa base di forte squilibrio sociale attraverso una sostanziale asimmetria nel mondo del lavoro e negli ammortizzatori sociali. Una primavera del MDL come la definisce qualcuno, basata sulla precarietà o meglio sulla declinazione e trasposizione della flessibilità lavorativa nella precarietà sociale e del lavoro. Una primavera costruita come sappiamo attraverso i processi delle riforme legislative che negli ultimi dieci anni hanno ridisegnato i rapporti di lavoro e le forme di impiego, attraverso sia la riforma dei contratti di lavoro che dei Servizi per l’impiego. Una crescita che per giunta oltre ad essere stata debole e falsata si volge ora al termine, cominciando ad invertire la dinamica di segno “positivo” degli ultimi dieci anni e subendo le prime ripercussioni della crisi. Nello specifico delle immediate ricadute sul mondo del lavoro l’elemento qualitativo fornito dai dati disaggregati vede negli ultimi mesi crescere da un lato l’occupazione straniera, femminile e alle dipendenze, mentre vede invece calare decisamente l’occupazione maschile e complessivamente quindi il generale tasso di occupazione. Il dato ovviamente ci conferma la contrazione economica e i suoi riflessi sullo sviluppo del MDL e manifesta il progressivo deterioramento di una crescita dell’occupazione come abbiamo detto sostanzialmente “debole e falsata”, componendosi prevalentemente, la dimensione reale della crescita del tasso di occupazione, quasi esclusivamente con nuove forme di lavoro flessibile e temporaneo. Ora dopo anni di sostanziale crescita dell’occupazione, l’indicatore del tasso di disoccupazione è questa volta aumentato dello 0.5 nell’ultimo trimestre del 2008 attestandosi al momentaneo 6.1%. A questo si aggiunge che i dati di previsione forniti dall’OCSE nel breve periodo sulla disoccupazione per il 2009, sono più che preoccupanti ed indicano con l’acuirsi della recessione economica un aumento di 3 nuovi ML di disoccupati solo sul territorio della comunità europea, di cui in Italia almeno 1/5. In Italia quindi da un lato la crescita dell’occupazione si è basata su una debole leva di sviluppo che è quella della precarizzazione dei rapporti di lavoro e quindi sull’abbassamento complessivo del costo del lavoro (anche a partire dallo storico accordo del Luglio ’93 che ha slegato definitivamente i salari dall’inflazione reale) perseguito da aziende che hanno fin’ora basato il loro profitto non sull’innovazione di processo e di prodotto ma sul costo delle contrattualizzazioni e anche sullo sfruttamento del lavoro nero. Dall’altro la crescita dell’occupazione non essendo il risultato della crescita generale del tessuto produttivo non si è tradotta come confermano tutti i dati disponibili in una vera crescita produttiva, quanto in una continua e ripetuta espropriazione generalizzata non solo della forza lavoro ma anche delle risorse pubbliche ottenute con incentivi, sgravi fiscali, finanziamenti a pioggia che congiuntamente all’evasione fiscale hanno fatto la fortuna degli imprenditori e dei banchieri di questo paese, senza però far crescere ed innovare realmente il tessuto produttivo e la condizione nel mercato del lavoro. Per affrontare quindi il tema degli ammortizzatori sociali e della più complessiva riforma del welfare state è necessario oggi ripensare da capo il “modello”, non solo a partire dal ruolo e dal riconoscimento delle reti della cooperazione sociale che sottende qualsiasi politica integrata di welfare e di servizi alla persona, al territorio e alla comunità, ma occorre anche ripensare e riconfigurare la relazione e l’integrazione tra le possibili forme di un nuovo welfare, il tessuto produttivo nelle sue continue evoluzioni e le trasformazioni della forma dello Stato a partire dalla riforma del Titolo V della costituzione. Sono tre ambiti che si dispongono come canali e spazi fin’ora formalmente separati ma realmente poi connessi solo dalle logiche del profitto, peraltro le stesse che hanno determinato la crisi epocale che stiamo attraversando e che fungono per la governance politica quasi ed esclusivamente come moltiplicatore dei centri di costo per il pubblico a favore della speculazione del privato. Quindi da un lato per ripensare il ruolo del welfare c’è da definire la complessità e nel contempo l’opportunità che porta con se il passaggio dal ruolo centrale dello Stato come grande “protettore” della comunità (che gestiva in forma centralizzata e accentratrice le risorse e i canali di distribuzione ed erogazione dei servizi) alla nuova governance regionale che ha assunto la forma dello Stato nel nostro paese a partire dalla già citata riforma costituzionale del Titolo V. Dall’altro lato c’è da ridefinire radicalmente il rapporto tra le imprese, il loro profitto e la comunità che risiede nello stesso territorio che viene quotidianamente attraversato dalla valorizzazione e dalla continua espropriazione di valore e di ricchezza socialmente prodotta. Quindi è necessario ridefinire con un’analisi coerente la lettura in contro luce delle trasformazioni produttive, nel processo lavorativo come nel processo di valorizzazione e quindi mettere nella giusta relazione le evoluzioni e le trasformazioni del tessuto produttivo con il tema del welfare state e della riforma degli ammortizzatori sociali. Proprio perché oggi le trasformazioni in seno al processo produttivo nel superamento del vecchio sistema industriale fordista hanno spostato il baricentro della valorizzazione verso l’innovazione, la comunicazione e la cooperazione sociale sul territorio, lo stesso legame diventa inscindibile. Dalla grande industria la vecchia fabbrica fordista si è estesa al territorio, si è aperta all’economia della conoscenza, abbattendo le sue frontiere formali ed ha assunto il modello dell’esternalizzazione come fattore endemico, producendo però simmetricamente sul territorio il suo esatto contrario, ovvero immettendo nel territorio, l’internalizzazione del processo di valore: producendo i tanti indotti ormai sempre più articolati ben oltre i vecchi distretti industriali. La produzione immateriale dell’economia della conoscenza si fonda quindi sulla valorizzazione del territorio e delle reti relazionali. Di quelle stesse reti cooperative e altamente produttive che in una diffusa produzione di skills formali ed informali costituiscono il nervo centrale dell’odierno processo di valore, interno e consustanziale all’economia della conoscenza. Lo sviluppo scientifico e tecnologico che va di pari passo con la valorizzazione del capitale sociale, pone il territorio al centro dell’odierno regime di accumulazione capitalistico che sviluppa nell’economia della conoscenza anche nuove filiere produttive (come ad esempio il marketing territoriale). Ne consegue che un necessario coinvolgimento del tessuto produttivo nel finanziamento dei sistemi di welfare e protezione sociale della cittadinanza dovrebbe essere non solo un prerequisito etico sociale indiscutibile, ma anche il giusto riconoscimento del processo di valorizzazione che il sistema delle imprese dispiega intensivamente sul territorio e sulle reti sociali che lo animano. Per dirla con altre parole qui in Italia a differenza di come avviene in altri virtuosi contesti nord-europei, il sistema delle imprese attinge costantemente dalla finanza pubblica un considerevole sostegno economico che passa attraverso molteplici canali e linee di finanziamento e nello stesso tempo non re-distribuisce nulla, o quasi, dei profitti e dei dividendi che va accumulando, soprattutto in alcuni settori strategici dell’economia immateriale della conoscenza. E’ un punto dirimente quello del profitto legato al welfare e nello specifico alla riforma degli ammortizzatori sociali. Lo è ancor di più poiché spesso nel dibattito politico si lega strumentalmente il tema del finanziamento delle risorse per il nuovo welfare al tema specifico della riforma previdenziale – cioè al vecchio welfare – aggirando e mistificando la realtà fattuale a favore di un tema caro alle destre e sinistre liberali, ovvero quello di fare le riforme sociali a costo zero rispettando supinamente i parametri stabiliti in sede comunitaria come quello sul tetto al 3% del rapporto tra deficit e PIL non mettendo mai in discussione il rapporto cruciale che vi è invece tra i profitti e la re-distribuzione della ricchezza e del reddito. Quindi è ovvio poi aggiungere che anche quando si parla del regime attuale degli ammortizzatori sociali che abbiamo definito senza troppi compromessi di sorta, iniquo ed asimmetrico, si deve svelare il banale e contradditorio legame tra l’inconsistenza delle risorse fin’ora stanziate, l’inadeguatezza di copertura per tutti coloro che vivono una realtà lavorativa all’interno di un’azienda piccola o individuale (che va poi ben oltre le misure previste per le grandi dimensioni aziendali ed industriali come la cassa e la mobilità) e nel contempo la profonda ed inadeguata strutturazione dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro. Bisogna svelare la dimensione contraddittoria della tanto auspicata conciliazione tra le politiche attive e passive del lavoro, laddove in Italia la storpiatura e la disfunzione di entrambi gli istituti porta ormai da anni a fare male entrambe, così come bisogna svelare la prima contraddizione insita nel mercato del lavoro che è rappresentata dalla dualità e dal divario tra quella fascia di forza lavoro stabilmente contrattualizzata e regolata anche nell’eventualità di perdita e fuoriuscita dal mercato del lavoro e quella più precaria e precarizzata che invece come abbiamo detto, vive percorsi lavorativi intermittenti e precari e che rimane poi considerevolmente esclusa dai diritti sia durante che dopo il lavoro. Politiche attive che il più delle volte divengono un finanziamento a pioggia verso il sistema delle imprese piuttosto che un serio investimento sui diritti di cittadinanza delle persone che perdono il lavoro. Del resto quale lavoro? dovrebbe essere il tema legato a quale reddito e quali diritti? E su questo bisognerebbe interrogarsi nel presente politico e nel futuro prossimo. Anche perchè concentrandoci per un momento sugli squilibri del welfare e delle reti di protezione sociale esistenti e facendo una rapida panoramica di confronto con altri paesi europei su alcuni indicatori specifici del welfare e di welfare to work emerge per l’Italia secondo i dati forniti da Eurostat un quadro inequivocabilmente squilibrato. Sul sostegno alla famiglia e all’abitazione l’Italia spende sul complessivo della spesa sociale il 4.4% a fronte del 15.3% dell’Irlanda, del 15.0% della Danimarca, del 13.0% della Germania, dell’11.5% del Regno Unito e del 6.3% della Spagna. Sulla disoccupazione invece l’Italia spende 1.9% a fronte del 7.1% dell’Irlanda, del 7.0% della Danimarca, del 6.1% della Germania, del 2.4% del Regno Unito e del 12.2% della Spagna. Ne consegue che l’arretramento del nostro paese sulle politiche sociali e di welfare e il divario che si crea con altri contesti europei indica necessariamente l’urgenza di invertire radicalmente la dinamica in atto e costruire da subito il quadro di sistema per una riforma radicale dei nuovi ammortizzatori sociali. Materia che non può essere più delegata al dibattito tra seminari , panel, interi PHD, libri bianchi, verdi e di tutti i colori dell’arcobaleno, quanto al contrario deve essere in capo all’immediata azione di governo. Così come del resto lo è da anni nell’agenda e nelle azioni dei movimenti sociali e sindacali di base che oggi più che mai hanno una legittimazione politica forte nel perseguire e continuare ad insistere nella battaglia per una nuovo ed innovativo welfare a partire dal reddito garantito e dai servizi e diritti di cittadinanza fino alle giuste rivendicazioni che le comunità attive producono già in tema di welfare locale. Un imprinting che devono assumere tali cambiamenti a partire dall’attivazione e dalla valorizzazione delle reti sociali e cooperative che producono sui territori quelle importanti azioni di welfare e di protezione sociale a base comunitaria che già esistono attivamente in molti ambiti metropolitani o a forte concentrazione urbana e che tracciano da tempo il nuovo corso per la strategia del benessere sociale e comune, come l’attitudine a ri-partire da se stessi e dalle proprie reti sociali, per invertire la dinamica assistenziale che si cela dietro le forme di protezione e di welfare calate solo dall’alto, senza nessuna connessione con il tessuto e il contesto sociale. Un tessuto connettivo di reti sociali che per bisogno e virtù già da tempo è orientato alla cooperazione proattiva e solidale. Dalle esperienze indipendenti dei movimenti di lotta per la casa e per il diritto all’abitare, agli spazi sociali, dalle associazioni e comitati di quartiere, alle cooperative di carattere autogestito e ai gruppi di acquisto solidali, che rappresentano il fulcro auto-organizzato per ripensare le forme di welfare locale e che andrebbero sempre più sostenute ed incentivate nella loro attitudine contro-assistenziale. Attitudine che muove le vere leve della sussidiarietà e della cooperazione solidaristica e che già traccia l’orizzonte per un innovativo concetto di benessere e protezione sociale dentro un processo costituente faticosamente costruito dal basso, dentro ed oltre la crisi.