Bergamo – E’ terminata con una partita di calcio la visita del presidente della Bolivia Evo Morales a Bergamo. Ad accoglierlo centinaia di boliviani, la comunità straniera più numerosa sul territorio. Per anni la nostra città è stata una delle mete migratorie preferite per i boliviani. Bisogna oggi registrare un’inversione di tendenza: sono sempre di più i boliviani che tornano nel proprio paese di origine, da un lato per sfuggire alla crisi italiana, dall’altro per tentare di cogliere le nuove occasioni che in Bolivia si stanno aprendo.
Il connubio tra crisi e legge Bossi-Fini è un incentivo ad andarsene per chi rischia di rimanere invischiato nella farraginosa burocrazia italiana. I migranti, anche quelli che sono da molti anni in Italia, perdendo il lavoro temono di diventare clandestini. Per questo le trasformazioni politiche in patria sono seguite con grande interesse dai boliviani “bergamaschi”.
Bolivia e non solo. L’america latina negli ultimi anni.
Dopo l’elezione di Evo Morales nel 2006 alla presidenza della Repubblica Boliviana, la futura “Presidenta” argentina Cristina Kirchner poteva affermare che finalmente la Bolivia aveva un presidente capace di parlare spagnolo. Uno dei vantaggi della lingua di Cervantes è quello di viaggiare dal Texas alla Terra del Fuoco utilizzando un solo idioma, seppur dalle differenti sfumature.
Ciò non valeva per Gonzalo Sanchez de Lozada, padre padrone della politica boliviana dal 1993, anno della sua prima elezione, al 2003, anno dell’esilio dorato statunitense, il quale si esprimeva in uno spagnolo assai incerto, preferendo invece l’inglese, imparato durante gli anni della sua formazione neoliberale nelle prestigiose università statunitensi.
Dopo le proteste popolari contro la concessione, da parte del governo Lozada, dei giacimenti di gas naturale boliviano alle compagnie statunitensi, e il conseguente bagno di sangue costato la vita a centinaia di persone, l’allontanamento forzato di Lozada segnava la fine definitiva di un modello economico che aveva ridotto l’America Meridionale ad un cumulo di macerie. Le crisi economiche che dalla metà degli anni ’80 avevano colpito prima il Messico, poi il Brasile per sfociare infine nella bancarotta argentina del 2001 – solo per citare i casi più eclatanti – erano la naturale conseguenza di un capitalismo ormai senza limite alcuno, la cui gestazione avveniva attraverso le ferree regole del cosiddetto “Washington Consensus” – ossia tutte quelle misure di privatizzazione delle industrie e dei servizi, deregolamentazione finanziaria e liberalizzazione degli investimenti stranieri – che avevano accompagnato il ritorno alla democrazia di tutti i paesi Latino-Americani dopo anni di cruente dittature militari.
L’elezione di Evo Morales nel 2006 e l’anno dopo di Rafael Correa in Ecuador misero definitivamente fine all’associazione democrazia-economia liberale. Per anni infatti il paradigma narrativo delle destre liberali occidentali, e anche di certa “sinistra”, vedeva nello sviluppo dell’economia di mercato il puntello necessario al mantenimento della regola democratica e viceversa.
Se si paragona l’America meridionale degli anni ’80 e ’90 a quella attuale si può invece notare una radicale inversione di rotta nelle preferenze politiche degli elettori, senza per questo un deterioramento della regola democratica. All’alba del nuovo millennio la maggior parte dei Paesi dell’America del Sud erano guidati da forze di sinistra o non di destra. I Kirchner in Argentina, Lula in Brasile, Chavez in Venezuela, Bachelet in Cile, Morales e Correa rispettivamente in Bolivia e Ecuador rappresentavano la nuova classe dirigente del Cono Sud formatasi nelle lotte sindacali proprio degli anni ’80 e ’90. Seppur diversi, sia per ambizioni personali sia per formazione politica, condividevano un approccio tuttavia univoco, ossia la consapevolezza che lo sviluppo economico dei rispettivi Paesi potesse essere gestito in proprio, senza dover agire come i portavoce ben pagati della triade formata da Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Dipartimento del Tesoro di Washington.
Attribuire tutti i meriti di questo cambiamento politico esclusivamente a fattori interni Sud-Americani non è tuttavia corretto. In tutta la storia contemporanea del continente Latino-Americano non si può non far riferimento alla politica statunitense come decisiva, in ultima istanza, per le sorti dei Paesi della regione.
Tra le molteplici critiche all’operato dell’amministrazione di Bush Junior quelle provenienti da destra erano focalizzate proprio sulla gestione degli affari latino-americani. G.W. Bush è, infatti, il primo presidente statunitense ad aver “perso” l’America Latina.
Troppo impegnati nello scenario mediorientale, gli USA si trovarono ben presto a fronteggiare forze politiche non più disposte a rinunciare alla propria sovranità in nome di un modello di sviluppo che aveva distrutto non solo l’economia ma anche la coesione sociale di Paesi in cui le differenze di classe erano le più marcate a livello mondiale.
In questo scenario deve essere analizzata l’ascesa e la continuità di personaggi come Evo Morales, il primo indio a guidare un paese a maggioranza indigena. Fallimento delle politiche del “Washington Consensus”, fattori internazionali e inasprimento delle differenze di classe sono alla base dell’ascesa della sinistra nel continente Sud Americano.
La vera sfida, adesso, è però quella di superare, o almeno declinare in termini collaborativi e non antagonistici, le distorsioni storiche della politica del Cono Sud, ossia la personalizzazione del potere rappresentata dalla forma di governo presidenzialista – carattere permanente e peculiare della storia contemporanea dell’America Latina.
Le affinità ideologiche e la possibilità di comunicare senza interpreti sono alla base di una politica che finora è riuscita a risollevare i destini dell’America Latina attenuando il protagonismo “presidenzialista”.
L’istituzione della Allianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America (ALBA) e la collaborazione con altre entità regionali come il Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Venezuela) può essere il primo passo verso una istituzionalizzazione di una pratica politica che vada oltre la mera iniziativa personale di un singolo capo di Stato, come dimostra la successione a Chavez, che sembra non aver intaccato minimamente le prospettive per una alternativa socialista al modello di integrazione regionale del mondo occidentale, il cui fallimento è invece reso evidente dall’attuale situazione europea.
Evo Morales, che piaccia o meno, è certamente un protagonista di assoluto rilievo di questo periodo storico.
Non ce ne voglia il presidente boliviano, ma il suo maggior successo sarebbe quello di non essere rimpianto in un futuro prossimo. Significherebbe che avrebbe svolto un ottimo lavoro.
– Foto di Emanuele Masellis –