Quelli che non restano a casa sono gli operai delle fabbriche

Bergamo – Le condizioni di lavoro ai tempi del Covid-19 sono diverse dal solito, per molti cittadini e cittadine. L’emergenza, che prima ha riguardato la regione Lombardia e poi si è estesa a tutto il Paese, ha modificato radicalmente la quotidianità e le azioni che prima erano distratta prassi. Edizioni ordinarie e straordinarie dei tg mostrano un contrito Giuseppe Conte parlare a reti unificate degli enormi sacrifici che uomini e donne devono affrontare in questo momento difficile, e riassume il nuovo decreto costituito ad hoc con la frase, divenuta anche hashtag sui social network, “Io resto a casa”. Insomma, per contenere il più possibile il dilagarsi del virus viene proibito di lasciare la propria abitazione se non per comprovati motivi di lavoro, o per poter fare la spesa, previa stampa dell’autocertificazione necessaria per non incorrere in salate sanzioni. Proprio mercoledì, alle 21:40, Conte ribadiva l’importanza di queste misure restrittive, annunciando la chiusura di tutti i servizi non indispensabili: tutti i servizi, dunque, salvo enti pubblici statali, farmacie e negozi di vendita di prodotti alimentari.

 

In molti casi queste misure sono state adottate immediatamente. Ma non proprio in tutti i casi, come se il virus potesse fare una sorta di distinzione tra lavoratori di un settore o di un altro. Ed effettivamente una distinzione è stata fatta, ma non dal Covid-19: la scelta di tenere aperte le fabbriche è, appunto, una scelta, presa dagli imprenditori e da Confindustria che ha avuto la libertà di muoversi come meglio credeva. Una scelta netta tra la tutela della salute, e il mero profitto.

 

Per quanto lo stop della produzione possa sembrare una decisione drastica agli occhi di chi da questa produzione ci guadagna quotidianamente, è quanto meno paradossale vedere un Conte in diretta nazionale ripetere e ripetere dell’importanza fondamentale giocata dal senso di responsabilità di tutti e tutte, e la decisione di tenere aperte le fabbriche, come a voler ignorare il fatto che le tantissime persone che ci lavorano, solo in Lombardia, sono costrette per forza di cose a recarsi quotidianamente negli stabilimenti, nonostante l’alto rischio a cui espongono sé stessi e i propri familiari. Senza considerare, poi, le condizioni di lavoro a cui già normalmente gli operai sottostanno, come i turni massacranti, i rischi elevati per la loro sicurezza, il lavoro fisicamente usurante, lo stress psicologico e fisico e così via.

 

In molte città italiane gli operai hanno scioperato, in questi giorni, spontaneamente, fermandosi per qualche ora o per tutto il giorno: è avvenuto a Mondovì, in provincia di Cuneo, ad Asti, a Vercelli, a Brescia, a Mantova, a Cassinetta, in provincia di Varese, a Taranto, a Terni, e anche in provincia di Bergamo, alla Tenaris di Dalmine. Centinaia di operai e operaie hanno incrociato le braccia, astenendosi dal lavoro, rivendicando il loro diritto alla salute e denunciando le scarse (o assenti) tutele dal punto di vista sanitario sul loro luogo di lavoro.

 

Quello che tutti gli operai e le operaie richiedono è la chiusura delle fabbriche, dal momento che i vertici delle stesse non hanno provveduto per tempo alla sanificazione degli ambienti e alla loro messa in sicurezza per la tutela di chi ci lavora: in alcuni stabilimenti le legittime richieste dei lavoratori e delle lavoratrici sono state volontariamente ignorate, portando di conseguenza allo stato d’agitazione, totalmente spontaneo, data la criticità del momento e dell’emergenza sanitaria.

 

Da una parte, dunque, la smodata attenzione, spesso da parte anche degli stessi imprenditori, a salvaguardare la loro salute, probabilmente indossando mascherine e disinfettandosi le mani con abbondanti dosi di Amuchina; dall’altra, il totale menefreghismo nei confronti di lavoratori e lavoratrici che, in nome della produttività, dell’incremento del profitto, a quanto pare dovrebbero mettere a serio repentaglio la loro salute e la loro vita, oltre che anche quella delle loro famiglie.

 

LA TESTIMONIANZA DA UNA FABBRICA DELLA BERGAMASCA

Si potrebbero fare diversi esempi della critica situazione nel territorio lombardo, dove è alto il numero degli stabilimenti. Da un’azienda tessile della bergamasca riceviamo queste notizie:

 

“La situazione in azienda è uno schifo. Nonostante abbiano pubblicamente dichiarato di aver posto in essere tutte le tutele necessarie ai loro dipendenti, per settimane non ci sono stati forniti i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale), se non andandoli a chiedere direttamente, singolarmente. E, anche una volta ottenuti, non sono a norma, non sono le mascherine idonee. Inoltre, queste mascherine dovrebbero essere mono-uso, da gettare immediatamente dopo l’utilizzo e da cambiare a ogni turno, mentre a noi intimano di conservarle e riutilizzarle”, racconta uno dei dipendenti dell’azienda.

 

“ Dato l’ambiente in cui lavoriamo, molto rumoroso, per parlare tra noi colleghi e farci qualsiasi tipo di comunicazione è necessario avvicinarsi molto gli uni agli altri, senza poter rispettare le norme di distanza di sicurezza. Alla richiesta dei rappresentanti sindacali di chiudere lo stabilimento per l’emergenza è stato risposto dai vertici dell’azienda che “Non se la sentono, perché si rischierebbe la chiusura in toto, perdendo clienti nel periodo di fermo”:non si tiene conto dei ragazzi del magazzino, o dei centralinisti, perennemente a contatto con corrieri e camionisti che provengono da fuori, non si tiene conto del rischio a cui siamo costretti a esporci. Siamo trattati come carne da macello, noi come anche i piccoli artigiani e le partite Iva. E in questo contesto d’emergenza i sindacati non si vedono, non sono pervenuti.”

 

Queste parole, testimonianza diretta di un lavoratore, potrebbero probabilmente essere le stesse di molti altri, in molti altri stabilimenti in tutta Italia: la situazione è l’estrema messa a rischio di ogni lavoratore o lavoratrice che in questi giorni è costretto a recarsi in fabbrica vedendosi negato, di fatto, il fondamentale diritto alla salute. Ma ci sono esempi più confortanti, e che potrebbero essere replicabili, come quello del cotonificio Albini, azienda tessile di Albino che conta circa 800 lavoratori, che ha dichiarato poco fa la chiusura e la cassa integrazione per i dipendenti in questo periodo di emergenza sanitaria. La chiusura degli stabilimenti potrebbe essere paragonata a un dovere collettivo, la coerente conseguenza del “Restate a casa” tanto ripetuto in Tv o sui social, il segno che non debbano esserci dipendenti di serie A o di serie B, o vite che valgono più di altre. Perché, ad ora, quelli che non restano a casa sono solo gli operai delle fabbriche.

 

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