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Dai cavalieri ai briganti - passando per la Terra di Mezzo
by nick Friday November 07, 2003 at 10:48 PM mail:  

Intervista a Adolfo Morganti da: area-online sez. Miti Fondanti "finestra sui percorsi formativi delle destre italiane"

L’ospite di questo mese, Adolfo Morganti, è la dimostrazione di cosa e quanto si possa fare in una realtà di provincia… di quanto le profonde radici possano, a volte, conservare intatti i valori comuni.



"La prima fonte di ispirazione? Le profonde radici contadine della mia famiglia. Ho aiutato a lavorare la terra per tutta l’adolescenza, coinvolgendo gli amici in questo ottimo tipo di psicoterapia. Abbiamo continuato a fare il vino fino a che mia nonna ce l’ha fatta, e i miei figli sono riusciti ancora a vedere il vino fatto a mano, buon per loro". A parlare è Adolfo Morganti, animatore della casa editrice Il Cerchio di Rimini (che tra le altre cose pubblica il periodico di studi sull’uomo e il sacro I quaderni di Avallon), e co-fondatore dell’associazione Identità europea, insieme a Franco Cardini. Morganti è, soprattutto, un infaticabile organizzatore culturale, nato nel mondo della militanza, che del soldato politico ha conservato un’esemplare disciplina morale.

Cosa ha significato, per te, provenire da una famiglia "rurale"?

Che nel momento in cui partiva il referendum sul divorzio, io, da dodicenne, sentissi la necessità fisiologica di schierarmi: lo vivevo come un attacco a un’istituzione che rappresentava il cardine del mio mondo, forse il cardine di tutto un mondo. Di lì è cominciata la mia attività sul piano ideologico e politico: è una cosa buffa da raccontare ma è così.

Questo vivere la terra ha contribuito nella tua attività a favore di un pensiero che nella terra affonda le sue radici?

È indubbio. Poi, ovviamente, crescendo ci si dà degli spessori culturali che in gioventù semplicemente si intuiscono. Sono dell’idea che uno pilota la propria esistenza su alcune grandi intuizioni che riceve fin dalla nascita, e passa il resto della vita a chiarirsele. Almeno così è successo con me. Molti lavori che abbiamo fatto… chessò, sulla Vandea, sui briganti, sui grandi movimenti controrivoluzionari dell’800 e del ’900… in fondo rappresentano una difesa di questi ceti popolari, legati alla terra e alla propria spiritualità, nei confronti dello schiacciasassi della modernità.

I primi racconti, da bambino?

La collana della "Scala d’oro", con i miti e le leggende del mondo intero… che ho riletto quando i miei figli erano piccoli, seduto accanto al loro letto, sugli stessi libri che avevano regalato a me quando avevo sei anni. Tutto il mondo delle leggende e dei miti antichi che raccontati, letti e riletti, mi hanno formato; così come la Divina Commedia… ricordo un’edizione, che è ancora in commercio, scritta in gotico e illustrata con tante miniature del tempo… alle scuole elementari e medie passavo interi pomeriggi a sfogliarla, meravigliato dal fulgore di queste miniature antiche, delle nudità dei corpi, della terribile natura delle penitenze, del fulgore degli angeli.

Prime letture impegnate?

A quattordici anni… quindi era il ’73… qualcosa di assolutamente sproporzionato: appena entrato in una sezione del Msi mi misero in mano Rivolta contro il mondo moderno, di Evola, il che, per un ragazzino della mia età, era un suicidio.

E tu?

Obbediente, ne ho letto un capitolo per sera: ci ho messo sei mesi. Alla fine ho capito due cose, una vera e una falsa: la prima è che la storia va a cicli; la seconda è che comunque alla fine avremmo vinto noi. Di lì sono partite tante altre cose. Ma ammetto senza alcuna difficoltà un debito nei confronti della lettura di Evola, perché mi ha dato quelle categorie di giudizio di fondo, attorno alla modernità, che poi ho integrato e sviluppato, sì, ma è stato lui a darmele.

Come eri arrivato in quella sezione del Msi?

Tramite la scuola, come tanti altri (il racconto di quei fatti finì, insieme a quello di altri, in C’eravamo tanto a(r)mati, edizioni Settecolori). Era un’ottima occasione per far parte di una compagnia di ventura di persone singolarissime che si ponevano contro il verso della storia, delle credenze comuni, di tutto ciò che era, con un termine di oggi, politicamente corretto. È stata una scelta istintiva. Secondo me si è conformisti o anticonformisti per indole profonda, e io mi son sempre trovato bene, come dicono Cardini e Veneziani, dalla parte degli sconfitti, tanto che quando si rischia di vincere mi chiedo…

…"cos’abbiamo sbagliato?"

Ecco, lo sai bene anche tu.

Ci sono delle letture che ti segnano a livello profondo… quali sono state le tue?

Negli anni del liceo ci sono stati alcuni autori che hanno fatto risuonare le emozioni dei miti ascoltati da bambino, erano autori di letteratura fantastica, come Paul Anderson, quello de La spada spezzata.

Su cui tu scrivesti un saggio, Paul Anderson tecnocrate e bardo.

Sì, la prima cosa che ho pubblicato. Un’altra grande scoperta è stato Attilio Mordini, un autore poco conosciuto ma per me di grandissima rilevanza.

Con quale libro?

Dal mito al materialismo, un’interpretazione simbolica della fiaba.

In un periodo, tra l’altro, in cui le varie Biancaneve e Cappuccetto rosso venivano rilette in chiave psicanalitica.

Per me la psicanalisi, come dice Evola ma come poi ho potuto verificare io stesso, era parte integrante della visione nichilista della modernità. Quell’ossessionarsi con i simboli sessuali mi convinceva poco allora, e oggi che ho gli strumenti so perché.

Dillo anche a noi.

Semplicemente perché è un riduzionismo, prendere parte di un tutto e spacciarla per l’insieme. Non è che non vi siano riferimenti alla sessualità anche nel mondo delle fiabe, ma non si può dire che ogni cosa si risolve lì e che quella è la digressione che unica domina il mondo della comunicazione folclorica. Ci sono tantissime altre cose.

Parli a ragion veduta, visto che l’indagine psicologica è diventata il tuo lavoro.

E lo studio che mi ha portato ad essere psicoterapeuta ha rappresentato una grande occasione culturale, mi ha fatto scoprire un filone di pensiero convergente, dal punto di vista antropologico e dei valori, con la cultura tradizionale… personaggi come Viktor Frankl, Karl Jaspers o Bimswanger… nomi che ho trovato attenti alla concretezza dell’uomo, della sofferenza, e di come fare a guarire l’uomo contemporaneo dalla patologie della modernità.

Quelle letture che ti hanno permesso di ricucire le emozioni di bambino con le acquisizioni del pensiero adulto, come si trasponevano nell’impegno militante?

La vita di un gruppo di quindici ragazzi che facevano politica a destra in una piccola città di provincia com’era Rimini, era un’esperienza di vita comunitaria, come la Tavola Rotonda… ci si trovava al mattino a scuola, al pomeriggio in piazza e alla sera a casa di qualche amico a parlare esattamente di queste cose. C’era il classico ragazzo un anno più grande di noi che aveva un po’ di letture più di noi, e ci erudiva… e via lunghissime discussioni che duravano sere intere. E queste incursioni su certi autori…

Quali?

Evola, Guenon, Mordini, Degrelle, Codreanu… letti superficialmente o magari mal digeriti, chissà… erano il segno di un’identità che si affermava, e di una comunità che si rinforzava. Tant’è che dopo venticinque anni il nostro gruppo di allora è ancora qui: molti lavorano al Cerchio, e con tutti gli altri che per motivi di lavoro sono andati altrove continuiamo ad avere ottimi rapporti. Il vecchio clan si è conservato: un’altra dimostrazione della bontà del tentativo.

All’università, però, ci saranno state frequentazioni diverse…

Naturalmente. Ero andato a studiare nella Padova di Toni Negri, negli anni dei grandi conflitti di piazza e dei processi ad Autonomia operaia. Una situazione difficile, ma per una serie di motivi non ho mai avuto problemi con loro.

Parliamo di quali anni, per ricordarlo a chi non c’era?

Arrivai a Padova nel ’79. Davanti alla Facoltà c’era sempre un camion militare col pianale ribaltato, un fucile automatico leggero puntato verso la porta e un carabiniere in mimetica seduto di fianco al fucile. In piazza si navigava un giorno sì e l’altro pure in mezzo ai lacrimogeni, ma era una battaglia che non ci sfiorava nemmeno, perché era combattuta tra il Pci, come partito d’ordine, e Autop. E questi autonomi, poverini, non capivano chi noi fossimo. Ricordo che nell’aula magna ho letto tutta la nuova edizione del Nietzsche di Adriano Romualdi: un giorno un autonomo dall’aria furiosa venne a chiedermi se fosse il Romualdi del Msi, e alla mia candida risposta "no, è il figlio" lui, tutto contento, disse "ah" e se ne andò. Ho attraversato anni in cui ho contemplato dei macelli terribili, senza mai nascondere alcunché, ma il conflitto che interessava gli autonomi era già un altro.

Ovviamente si parla di Padova, perché la situazione, altrove, era ben diversa.

Non c’è dubbio, infatti Padova è sempre stata un’università singolare, sotto molti punti di vista.

Nel tuo "curriculum" figura anche un’attività di percussionista con la Compagnia dell’Anello, uno dei primi gruppi di musica alternativa.

Li conobbi a Campo Hobbit I… anno domini 1977… Ci andammo in motorino, perché all’epoca nessuno di noi aveva la macchina.

In motorino fino a Benevento? Da Rimini?

Ho ancora le foto! Era un catorcio del ’48: ci andammo in due, io e Sergio Bianchi, che adesso si occupa di formazione professionale. La musica "nostra" fu una scoperta straordinaria… ricordo Renato Colella che arpeggiava Altaforte, la Compagnia, appunto… Ma non c’era solo musica, al Campo Hobbit I: solo il fatto di esser capaci di stare lì, in tanti e da tutta Italia, be’… fu una scoperta bella e importante. Un episodio curioso: il neoeletto segretario nazionale del Fronte della gioventù, Gianfranco Fini, appena arrivato in visita ufficiale al campo, fu rapinato del portafoglio.

E cosa raccontaste agli altri del gruppo di Rimini?

Non ricordo, ma l’anno successivo, a Campo Hobbit II, scendemmo in venti.

Poi, Campo Hobbit III, a Castel Camponeschi… il più importante per le elaborazioni culturali che ne scaturirono.

Sì, ne venne fuori un libro interessante.

Hobbit/Hobbit. In tre anni uno sprovveduto ragazzino di provincia diventava uno dei protagonisti del Campo. Come poteva accadere?

Erano anni veloci. Si era creata una grandissima circolazione di idee, di persone e di iniziative… un’esplosione di attività, di presenza… Ricordo che alla fine di Campo Hobbit III mi fu affidato l’incarico di censire i centri librari attivi nel nostro ambiente: ce n’erano quasi novanta, che dal Friuli alla Sicilia coprivano tutte le provincie italiane. Altri tempi. C’era un’intera generazione in movimento, insieme ai giovani cervelli "di punta" di quei giorni… i vari Solinas, Tarchi, Veneziani. Ognuno, tornato dal Campo, cercava di riprodurre il verbo a casa propria. Questo stimolo ci ha portato a crescere, ad eleborare iniziative.

Un mondo in fermento che rimase schiacciato sotto le macerie della stazione di Bologna: di là i morti per la bomba, di qua l’accusa infamante di un’intera parte politica giudicata colpevole. Come cambiò, nella tua Rimini, la situazione? Dall’autunno ’80 la vostra attività si indirizzò più che altro sul versante culturale.

Il cambiamento era già nell’aria. Io ero segretario locale del Fdg, e venni espulso nell’ondata successiva alla cacciata di Marco Tarchi. Ma quel tentativo del sistema di riproporre una guerra civile sanguinosa passava sopra le nostre teste, quindi cercammo uno strumento nuovo che ci consentisse di uscire da questo gioco al massacro. Una delle cose che sono orgoglioso di aver fatto, appena inaugurata la cooperativa, è stata la sospensione delle ostilità con gli allora capi di Lotta continua a Rimini.

In che maniera?

Ci trovammo, una notte fatta di chiacchiere e bottiglie di vino (per una volta non rotte in testa), e decidemmo di finirla con gli scontri nella nostra città. Tant’è che Panorama bollò la sospensione delle sprangate come un patto nazi-maoista contro lo Stato democratico… conferma in più che gli scontri facevano comodo al potere.

E con quei tipi di Lotta continua?

I rapporti sono rimasti ottimi, il che non è una cattiva cosa.

Noi due ci siamo conosciuti nella primavera ’80: ci fu un’accesa discussione tra neopagani e cattolici. Tu eri con i primi, ma poi sei diventato cattolico. Com’è successo?

Non certo leggendo libri. Uno si converte se incontra qualcosa di "vitale". Battezzato come tutti, di famiglia contadina, quindi geneticamente reazionaria, venni portato su altri lidi dalla lettura di Evola e, soprattutto, dallo spettacolo disgustoso di quel che aveva combinato il mondo cattolico all’epoca. Basterà ricordare lo spettacolo indegno di tanti cattolici che rimpolpavano i cortei unitari della sinistra, compresi i miei amici di Comunione e liberazione. Allora uno faceva l’equivalenza cattolico=decadente e corrotto. Facevo mia l’analisi di Evola su Gli uomini e le rovine, quando dice "che bello i cattolicesimo medievale ma adesso non è più così". Poi ho avuto la fortuna di incontrare persone che m’han fatto capire che nel vecchio tronco scorreva ben altra linfa.

I nomi?

Il primo è stato Mario Polia, antropologo e non solo… archeologo, storico delle religioni e soprattutto un amico… e poi alcuni monaci che ho avuto modo d’incontrare: il monachesimo è sempre stato il cuore vivente del cristianesimo e sempre lo rimarrà. Ma non è che ho dovuto cambiare molto… nel senso che tutte le letture precedenti in merito al Medioevo, ai grandi valori della civiltà romana, semplicemente hanno assunto una sintesi che prima in effetti non c’era. Prima noi difendevamo dei valori per il gusto di agitarli in un mondo perduto. Successivamente si è capito come, in fondo, la vecchia frase Ianua Inferi non prevalebunt, avesse un senso persino politico, giorno per giorno.

Senso di religiosità, valori che si perpetuano a prescindere dall’appartenenza pagana o cristiana… ci portano ad un autore che tu hai amato molto.

E che amo ancora! Il Signore degli Anelli, di Tolkien, l’ho letto in tre giorni, a vent’anni. Dormivo tre ore per notte e leggevo il libro… praticamente non facevo altro. È stata la scoperta di un mondo di cui non avevo difficoltà ad accettarne i valori: in effetti si trattava di una società contadina che si ribellava contro un’industrializzazione oscura e demoniaca… esprimeva bene quello che avevo sempre sentito, e cercai di fare il possibile perché fosse letto dai più.

Con qualche risultato: anche grazie a te è poi nata la Società tolkieniana italiana.

Non a caso il primo libro del Cerchio fu Omaggio a Tolkien, fantasia e tradizione, di Mario Polia. Uscì nel 1980, e nel giro di un mese vendette una marea di copie, impresa oggi improba, pur avendo un’enormità di strumenti in più.

Besana, qualche numero fa, mi diceva di non amare Tolkien perché non letterariamente all’altezza…

Be’, non c’è dubbio che Tolkien non fosse un "letterato", lui era un filologo, per cui si preoccupava molto poco dell’aspetto meramente letterario, tant’è che tutta la parte iniziale del SdA è lenta, piuttosto farraginosa… Io l’ho sempre interpretata come una sorta di filtro: quando uno riesce a superare quelle prime ottanta pagine, può partire anche lui per la cerca. Ma in realtà, credo che l’appunto di Besana sia indicativo della varietà sempre presente nel mondo della cultura di destra… Come l’incomunicabilità fra Marinetti ed Evola.

Film fondamentali?

L’Excalibur di John Boorman: per un appassionato del simbolismo graalico, quel film è stata una rivelazione. Lo vedemmo, con Mario Polia, in un cinema all’aperto della Rimini estiva con al di là del muro il frastuono di una discoteca. Ma alla scena finale, quando Artù ferito parte verso Avallon, ricordo ancora che piangevamo come dei vitelli, e non solo a causa della musica di fuori. Poi i film in costume di Akira Kurosawa, che ho sempre venerato per la sua capacità di cogliere i nodi sottili dell’onore e della necessità, tra ciò che è giusto fare e il sacrificio personale portato alle estreme conseguenze. In tempi più recenti Braveheart, che è riuscito di nuovo a far provare quel sano brivido che ti fa dire: forse ha valore scagliare la propria vita al di là di ogni ostacolo, e forse è possibile persino per un re vile diventare qualcosa di meglio. E poi l’immortale L’armata Brancaleone, che è la miglior rappresentazione di un Medioevo epico italiano… è un film falsamente ironico, come il Don Chisciotte di Cervantes. C’è un’enorme carica d’amore nei confronti di uomini che erano quelli che erano però a Gerusalemme ci sono arrivati, il Sepolcro lo hanno preso e hanno cambiato la storia dell’Europa.

L’approdo attuale.

Adesso ho di fronte a me un lungo e duro lavoro. C’è da costruire un’Europa cristiana, basata sui valori sociali della sua tradizione e sulla preservazione di tutte le sue identità culturali e spirituali. Questa credo che sia la grande battaglia per cui vale la pena spendere tutta la vita.

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