23 gennaio 2000: Luigi Acquaviva, 46 anni, si impicca in cella di isolamento. La sera prima del suicidio avrebbe subito un violento pestaggio. Per protestare contro il mancato trasferimento da Badu ‘e carros si era armato di lametta e aveva preso in ostaggio un assistente capo della polizia penitenziaria: dopo che si era arreso, alcuni agenti lo avrebbero violentemente pestato.
20 dicembre 2001: il Pm Maria Grazia Genoese chiude l’inchiesta sulla sua morte, chiamando in causa otto agenti di polizia penitenziaria. Uno è accusato di omicidio colposo, per non averlo sorvegliato adeguatamente nella notte in cui si è suicidato, e gli altri sette di lesioni, in riferimento al pestaggio che avrebbe subito il 22 gennaio 2000.
23 novembre 2002: il Giudice delle udienze preliminari, Teresa Castagna, dispone il rinvio a giudizio degli otto agenti. Su richiesta della parte civile ammette anche la chiamata in causa del Ministero della Giustizia, quale responsabile civile.
10 dicembre 2002: davanti al giudice monocratico Elena Meloni si svolge la prima udienza dibattimentale del processo, che si sviluppa tutta attorno alla deposizione dell’agente preso in ostaggio, Raimondo Firinu, e a quella dell’allora direttore del carcere, Francesco Gigante.
13 gennaio 2003: seconda udienza dibattimentale del processo, con l’interrogatorio dei due carabinieri che avevano seguito le indagini sulla morte di Acquaviva, del medico del carcere, dell’infermiera che per prima aveva prestato i soccorsi al suicida e delle guardie che erano intervenute nell’immediatezza del fatto. L’udienza successiva è fissata per il 31 marzo.
Rassegna stampa sul caso di Luigi Acquaviva
Nuoro: chiusa dopo due anni l’inchiesta sulla morte di Luigi Acquaviva. Un pestaggio anticipò il suicidio in cella. La Procura chiede il rinvio a giudizio di otto agenti di custodia
L’Unione Sarda, 20 dicembre 2001
Otto richieste di rinvio a giudizio per altrettanti agenti di custodia e udienza preliminare già fissata per il 9 maggio. A queste conclusioni è arrivata la Procura dopo quasi due anni di indagini sulla misteriosa morte del detenuto napoletano Luigi Acquaviva, trovato impiccato nella sua cella di Badu ‘e carros all’alba del 23 gennaio del 2000. Confermata l’ipotesi del suicidio, contro gli otto indagati restano in piedi le altre accuse.
La posizione più delicata è quella di Angelino Calaresu, 39 anni, che dovrà rispondere di omicidio colposo: secondo il PM Maria Grazia Genoese avrebbe potuto impedire il suicidio - se solo avesse vigilato - come era suo dovere - sul detenuto. Gli altri sette agenti finiti nel mirino della magistratura (Antonio Deidda, 42 anni, Vittorio Leoni, 44, Giovanni Dessu, 38, Franco Ignazio Trogu, 38, Guido Nurchi, 34, Mario Crobu, 42, e Antonio Salis, 42) potrebbero invece essere processati per lesioni. I sette agenti, insieme a Calaresu, avrebbero
infatti preso parte alla presunta spedizione punitiva scattata contro Luigi Acquaviva che il giorno prima del suicidio, armato di un punteruolo recuperato chissà dove, aveva preso in ostaggio un agente penitenziario per protestare per il mancato trasferimento da Badu ‘e carros verso un penitenziario più vicino a casa sua. L’ergastolano napoletano si era arreso solo dopo ore di trattative con le forze dell’ordine e la direzione del carcere, ma anche grazie alla provvidenziale mediazione del suo legale, l’avvocato Antonello Spada.
A poche ore da questo episodio, la mattina successiva, il detenuto fu ritrovato cadavere: impiccato alle sbarre della sua cella con un rudimentale cappio attorno al collo. Da subito la versione ufficiale fornita dall’amministrazione penitenziaria - che ha sempre parlato di suicidio - aveva lasciato forti dubbi, soprattutto tra i familiari di Acquaviva. Sospetti che vennero rafforzati dagli esiti dell’autopsia disposta dal pm per fare chiarezza sull’accaduto.
I periti Vindice Mingioni e Roberto Demontis infatti rilevarono sul corpo del recluso i segni di quello che aveva tutta l’aria essere stato un pestaggio in piena regola: una serie di traumatismi contusivi ad esito anche escoriativo - scrissero i due consulenti - che hanno interessato il capo, il tronco e gli arti. La Procura arriva addirittura ad ipotizzare che fossero state proprio quelle lesioni a provocare la morte di Acquaviva, un quadro a tinte fosche all’interno del quale l’impiccagione sarebbe stata solo una macabra messa in scena.
L’incidente probatorio sul cappio disposto in novembre dal Gip Silvia Mugnini ed eseguito dal professor Gian Aristide Norelli, dell’Università di Firenze, finì però per avvalorare la tesi del suicidio sgonfiando - almeno parzialmente - il caso. Tenuto conto delle caratteristiche dei nodi - scrisse il perito - presenti nel laccio e del cappio (due calzini in spugna uniti tra loro, n.d.r.) si può ritenere il cappio compatibile con i caratteri delle lesioni presenti sul collo del soggetto, descritte come solco da impiccamento.
Mentre rispetto ai segni del presunto pestaggio il perito spiegò: sono presenti lesioni diverse da quelle provocate dal cappio ed in particolare ecchimosi ed escoriazioni diffuse sulla superficie corporea la cui guarigione poteva prevedersi entro venti giorni, non risultando interessati organi interni o componenti scheletriche, senza postumi determinanti indebolimento a carattere permanente di organi o di sensi. Ferite lievi insomma e comunque non in grado di provocare la morte del detenuto. La parola adesso passa al giudice dell’udienza preliminare, che il 9 maggio deciderà se accogliere le richieste del sostituto procuratore Maria Grazia Genoese o di prosciogliere gli otto agenti della polizia penitenziaria.
Morte di Acquaviva, otto agenti a giudizio. Sono accusati di omicidio colposo per non avere vigilato sul prigioniero, Procura e familiari del giovane napoletano non credono al suicidio. Il Gup ha fissato per il 27 novembre il processo per la vicenda del detenuto trovato senza vita il 23 novembre 2002
La Nuova Sardegna, 16 luglio 2002
Otto poliziotti penitenziari saranno processati il 27 novembre per la morte di Luigi Acquaviva, il detenuto di San Giuseppe Vesuviano che il 23 gennaio di due anni fa morì nella sua cella, nel carcere di Badu ‘e carros. Suicidato, secondo la versione ufficiale, messa in discussione dai familiari del recluso e dalla stessa procura della Repubblica che ieri, dal Giudice delle udienze preliminari del tribunale di Nuoro Teresa Castagna, ha ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti.
Il Gup (su richiesta della parte civile) ha ammesso la chiamata in causa del ministero della Giustizia quale responsabile civile. Le accuse per gli otto poliziotti (tra ispettori e agenti) vanno dall’omicidio colposo alle lesioni. Tutti gli agenti avrebbero partecipato a un violento pestaggio su Acquaviva, che il giorno prima di morire, armato di un punteruolo artigianale, aveva sequestrato nella sua cella l’agente Emilio Firinu.
Acquaviva stava scontando l’ergastolo per un delitto di camorra. A Badu’e Carros era stato trasferito dopo che, il 7 marzo del 1999, aveva accoltellato un suo compagno di cella a Sulmona, un fatto per il quale era in attesa di giudizio. Ma non voleva saperne di stare a Nuoro, tante volte aveva chiesto di essere trasferito in un penitenziario campano. Per riavvicinarsi alla famiglia, alla moglie (originaria di Alghero) e ai loro tre figli. Una richiesta rimasta inascoltata.
Il giorno prima del decesso, Luigi Acquaviva si era reso protagonista di un gesto clamoroso. Lui, che era detenuto in Alta sicurezza, era riuscito ad attirare nella sua cella un agente, Raimondo Firinu, e poi lo aveva sequestrato. Perché voleva parlare con il direttore del carcere, Francesco Gigante, e sollecitare ancora una volta il trasferimento. Nella sua cella, con l’agente Firinu, Acquaviva era rimasto alcune ore.
Aveva lasciato andare l’ostaggio soltanto dopo l’intervento del suo avvocato di fiducia, l’avvocato Antonello Spada, che ora è il legale di parte civile per conto dei familiari del detenuto. Il giorno dopo questa vicenda, Luigi Acquaviva era morto. Suicida, secondo la ricostruzione ufficiale, impiccato alle sbarre della cella (dove non c’era nemmeno una finestra ma le nude sbarre) con un cappio costituito da una serie di calzini annodati.
Ma i familiari non avevano creduto a questa versione, e avevano subito sollevato pesanti sospetti sulla vicenda. Fatti propri dalla Procura, e in qualche modo avvalorati dalla perizie necroscopica dei consulenti del pubblico ministero, Vindice Mingioni e Roberto Demontis. Che certificarono un fatto inequivocabile: alcune ore prima della morte (il referto parla delle sei del 23 gennaio) Acquaviva subì un violentissimo pestaggio. Aveva ecchimosi su tutto il corpo, violenti traumi agli arti, alla testa. In qualche parte mancavano lembi di pelle. Un uomo fortemente debilitato quindi, che, stando alla ricostruzione ufficiale, avrebbe trovato la forza di impiccarsi. E che, per di più, avrebbe dovuto essere sorvegliato a vista. Ora si attende il processo, per conoscere la verità. Almeno quella processuale.
Caso Acquaviva. L’ex direttore Gigante depone sul caso del detenuto che si è ucciso a Badu ‘e carros. Il Pm: "Pestato prima del suicidio" Inizia il processo a 8 agenti penitenziari accusati di lesioni
L’Unione Sarda, 10 dicembre 2002
In isolamento, sorvegliato a vista dalla telecamera, dentro una stanzetta quattro per quattro priva di qualunque suppellettile e da cui erano state tolte anche le finestre. Luigi Acquaviva, l’ergastolano napoletano ritrovato impiccato alle sbarre della sua cella di Badu ‘e carros all’alba del 23 gennaio di due anni fa, passò le ultime ore della sua vita praticamente all’addiaccio: unico "lusso" una coperta militare con cui ripararsi dal freddo di una "notte polare".
L’udienza di ieri, la prima dibattimentale, si è sviluppata tutta attorno alla deposizione dell’agente preso in ostaggio, Raimondo Firinu, e a quella dell’allora direttore del carcere Francesco Gigante. Ed è stato proprio quest’ultimo a riferire il particolare della cella - la numero 10 della sezione osservanza - in cui venne eliminata la finestra, anche se durante l’interrogatorio l’ex direttore ha precisato: "Io non avevo dato alcuna autorizzazione ad eliminare gli infissi. Anzi, dopo la resa di Acquaviva e la liberazione dell’agente mi ero preoccupato di far trasferire il detenuto da una cella dove non c’era riscaldamento a una più confortevole dotata anche di telecamera in modo che lo si potesse tenere sotto stretta sorveglianza.
Il giorno dopo gli agenti mi spiegarono che avevano preso quella misura nel timore che il detenuto potesse estrarre la finestra dai cardini e usarla come corpo contundente contro di loro o contro se stesso". Sempre vago e incerto ad ogni domanda del pm Genoese, l’ex direttore ha anche ammesso come già prima del clamoroso gesto di protesta il detenuto napoletano si era più volte rivolto ai vertici della struttura penitenziaria per ottenere il trasferimento da Badu ‘e carros. "È vero, scriveva di continuo - ha detto -, voleva andare via dall’isola e in alcune istanze sostenne anche di temere per la sua incolumità, ma senza precisare esattamente i motivi".
Spesso in difficoltà (tanto da sentirsi in dovere di sottolineare ad un certo punto come "io dall’indagine interna ne sono uscito pulito") Gigante è apparso ancora più nel pallone quando la parola è passata ai legali del collegio difensivo (gli avvocati Giuseppe Luigi Cucca, Antonio Busia, Gianfranco Siuni, Lorenzo Soro e Pasquale Ramazzotti) che durante il controesame hanno insistito molto su una circostanza: l’ordine di servizio in cui si stabiliva la sorveglianza a vista del detenuto che fu controfirmata dal direttore solo il giorno successivo all’episodio del sequestro, cioè a morte ormai avvenuta.
A raccontare l’antefatto - cioè le fasi del sequestro - ci ha pensato invece il diretto e involontario protagonista. "Ricordo - ha spiegato l’agente Firinu al giudice Elena Meloni -, che stavo riaccompagnando Acquaviva dai passeggi in cella. Erano le 13. Ad un certo punto ho sentito una botta in testa e mi sono ritrovato nella sua cella legato mani e piedi alle sbarre. Lui era armato di una lametta e inveiva. Mi ferì in vari punti al collo premendo con la lama".
Da lì a qualche minuto davanti alla cella arrivarono un po’ tutti, dal comandante delle guardie, agli altri agenti in servizio, al direttore stesso. Momenti drammatici e ad altissima tensione ("ricordo che Acquaviva ci sommergeva di parolacce e invettive" ha detto Gigante) che si risolsero solo grazie all’intervento dell’avvocato del detenuto, Antonello Spada (che al processo tutela i familiari di Acquaviva insieme all’avvocato Antonello Cao). Cosa sia accaduto dopo la resa, resta invece un mistero che forse sarà chiarito alla ripresa del processo, già fissata per il 13 gennaio. Per quella data verranno interrogati alcuni agenti penitenziari e i medici del carcere.
Processo per il suicidio nel carcere di Nuoro. La strana morte del detenuto, imputati otto agenti
La Nuova Sardegna, 14 gennaio 2003
Luigi Acquaviva era morto suicida o era stato suicidato nella cella di Badu ‘e Carros dove stava scontando una condanna all’ergastolo e dove doveva essere controllato continuativamente dopo aver dato chiari segni di nervosismo poche ore prima? Un quesito al quale si sta cercando di dare una risposta in tribunale dove otto agenti di polizia penitenziaria sono sotto processo per omicidio colposo e mancata vigilanza. L’udienza di ieri è stata dedicata ai testimoni. I numerosi agenti di polizia penitenziaria incalzati dal fuoco di fila di domande del pubblico ministero Maria Grazia Genoese, hanno raccontato di aver trovato Luigi Acquaviva incastrato tra la branda della cella e il muro. In maniera tale che, per tirarlo fuori e adagiarlo sul lettino, era stato necessario l’intervento di ben tre guardie. Un intervento che, secondo tutti i testimoni, era stato abbastanza immediato. Ma inutile. Luigi Acquaviva era morto.
Il detenuto napoletano (in aula erano presenti la moglie e alcuni parenti) si era impiccato in cella con un paio di calze sportive, quelle che avrebbe dovuto avere ai piedi. Un particolare emerso nell’udienza di ieri, che si era aperta con l’interrogatorio dei due carabinieri che avevano seguito le indagini sulla morte di Luigi Acquaviva. Poi, è stato il turno del medico del carcere, dell’infermiera che per prima aveva prestato i soccorsi al suicida e delle guardie che erano intervenute nell’immediatezza del fatto.
Il medico ha fornito una spiegazione tecnica della vicenda. Che però è entrata in pieno contrasto con quanto dichiarato poco dopo dall’infermiera professionale che ha ricordato di aver ravvisato qualche timido segnale di vita quando aveva controllato le pulsazioni a livello della carotide. Un particolare sul quale si è soffermata a lungo il pm, ma anche l’avvocato che tutela gli interessi dell’amministrazione penitenziaria e i due patroni di parte civile, gli avvocati Antonello Spada e Antonello Cao.
Poi, è venuto il turno degli agenti penitenziari. Molti i non ricordo, molte le discrepanze fra le versioni del fatto ricordate in aula e quelle riportate sui vari rapporti che puntualmente il PM ha ravvisato e sottolineato con forza. E anche il giudice Elena Meloni ha spesso voluto approfondire alcuni punti poco chiari. Molto lungo e ricco di contrasti e precisazioni l’interrogatorio del sovrintendente responsabile della sezione in cui era morto Luigi Acquaviva.
Il sottufficiale ha ricordato alcuni particolari che hanno destato non poche perplessità, anche se già riportati sui verbali. Soprattutto quello relativo al modo in cui il detenuto si era impiccato: con le sue calze sportive, che dovevano essere particolarmente lunghe. Particolari che gli avvocati di parte civile non hanno mancato di sottolineare per cercare di smontare la tesi del suicidio e sui quali invece i difensori degli imputati hanno preferito ascoltare senza approfondire. La prossima udienza si svolgerà il 31 marzo.
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