fonte: Le Monde Diplomatique, marzo 2003
L'Iraq al centro della crisi mondiale
Paura a Ramallah, inquietudine a Tel Aviv
Quali ripercussioni avrà la guerra in Iraq sul conflitto israelo-palestinese? Da Yasser Arafat al nuovo leader laburista Amram Mitzna, dai membri dell'Autorità palestinese a quelli del governo israeliano, l'inquietudine domina. Da una parte, si teme un trasferimento coatto di popolazione, malgrado le assicurazioni fornite da Washington. Dall'altra, si guarda con preoccupazione a un nuovo aggravamento della crisi dell'economia israeliana.
Eric Rouleau
Un lungo tavolo rettangolare occupa quasi tutto lo spazio che serve da soggiorno, sala per le visite ufficiali, sala da pranzo e ufficio del presidente dell'Autorità palestinese. Ad una delle estremità, Yasser Arafat - il viso pallido, tirato, gli occhiali sulla punta del naso - è chino su una scrivania sopraelevata su cui si ammucchiano pratiche e documenti; con un pennarello rosso sottolinea la traduzione di articoli pubblicati dalla stampa israeliana. Dietro la porta, soldati armati e ufficiali in uniforme vigilano sulla sua incolumità, ma nessun militare è di guardia attorno alla Muqataa, la sede dell'Autorità palestinese. Quel che resta dell'edificio, preso a cannonate dagli israeliani, è circondato da macerie. Arafat, 74 anni, a volte si avventura fra le rovine, dice, per «scaldare al sole le vecchie ossa». La ridotta in cui riceve, non a caso, non ha finestre, per paura che un obice spari nella sua direzione, «per sbaglio, oppure no». La guerra in Iraq, e le sue conseguenze, lo preoccupano. Fa un elenco delle minacce incombenti: la rioccupazione di Gaza, gli omicidi mirati, i bombardamenti devastanti, il «trasferimento» (1) - un eufemismo per designare le epurazioni etniche - ma evita ogni minimo accenno al suo destino. Nabil Chaath, il suo ministro per la cooperazione internazionale, si mostra rassicurante. Avrebbe ottenuto «assicurazioni formali», a Washington, che non ci saranno espulsioni di massa né la deportazione del presidente dell'Autorità palestinese. Tuttavia, il leader palestinese fa notare che un attentato particolarmente sanguinoso in Israele fornirebbe ad Ariel Sharon il pretesto per «distruggere le vestigia dell'Autorità palestinese, il suo obiettivo finale». Ma non importa, aggiunge, l'Olp sopravviverà: perché l'Olp, ci assicura, è «indistruttibile». Il racconto di Arafat Circondato da molti dei suoi ministri e consiglieri, Arafat risponde alle tesi di coloro che l'hanno demonizzato. Rende un commosso omaggio a Itzhak Rabin, «l'unico che credeva veramente a una pace giusta». Poi si mette a spiegare il carattere «assurdo» delle tre condizioni poste dal governo Sharon per riprendere i negoziati - la sua sostituzione alla testa dell'Autorità palestinese, la «democratizzazione» di quest'ultima, la sospensione di ogni forma di violenza. Tanto per cominciare, enumera le iniziative di pace - pubbliche o segrete - che ha avviato negli ultimi trent'anni e più, a prezzo di discussioni burrascose, tensioni e scissioni in serie all'interno dell'Olp. Comincia dagli scambi epistolari, del 1969-1970 con il generale Moshe Dayan, ministro della difesa dell'epoca; sottolinea «la svolta storica» che ha imposto al movimento palestinese nel giugno 1974, facendogli accettare che uno stato palestinese poteva essere costruito soltanto su una parte della Palestina storica .... È stato così, per lunghi decenni, l'ideatore e il paladino accanito di una soluzione fondata sull'esistenza di due stati, sulla loro convivenza pacifica, fianco a fianco. Cita tutti i contatti segreti che ha avviato, un anno dopo l'altro, con i responsabili politici israeliani, di destra come di sinistra. Ricorda che è stato in seguito alla sua iniziativa che il Congresso nazionale palestinese, riunito ad Algeri nel 1988, aveva aderito alle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza, pur proclamando che la pace era ormai «l'obiettivo strategico» dell'Olp. Dopo la conclusione dell'accordo di Oslo farà eliminare dalla Carta palestinese, nella primavera 1996, gli articoli che ponevano in discussione l'esistenza di Israele. Ma non si è screditato, col suo comportamento al «vertice» di Camp David nel luglio 2000? La sua risposta è categorica: «Gli israeliani non mi hanno fatto una "offerta generosa", come si è voluto far credere. È semplicemente un'enorme menzogna. Per dimostrarlo, mi basterebbe rivolgermi alla testimonianza inattaccabile di Robert Malley, consigliere del presidente Clinton, che l'aveva incaricato di redigere un resoconto particolareggiato dell'evolversi della conferenza, ora per ora». In compenso, il nostro interlocutore è molto lieto dei risultati ottenuti ai negoziati di Taba, nel gennaio 2001, fondati sui «parametri Clinton», molto più realistici delle proposte iniziali di Ehud Barak. «Soprattutto per quanto riguarda i problemi di Gerusalemme e dei rifugiati, siamo arrivati a pochi centimetri da un accordo definitivo che noi avremmo firmato, se pochi giorni più tardi Ariel Sharon non fosse stato eletto a capo del governo». La sua strategia di pace? «Tre documenti fondamentali - dichiara - dovrebbero servire come base di una soluzione definitiva: gli accordi di Oslo, i parametri di Clinton e, infine, l'impegno assunto da tutti gli stati membri della Lega araba di procedere alla completa normalizzazione delle loro relazioni con Israele, una volta costituito uno stato palestinese». Nell'attesa, Arafat si dichiara ben disposto, «nell'interesse stesso del popolo palestinese», a riformare l'Autorità palestinese. Accetta la nomina di un primo ministro, «a patto che il suo ruolo personale non sia ridotto a quello di distribuire mazzi di crisantemi», ci mormora un suo consigliere, dietro le quinte. Ma riconosce la sua impotenza di fronte al terrorismo: le organizzazioni islamiste che si dedicano agli attentati suicidi, da lui ripetutamente condannati, sono telecomandate e finanziate da «potenze regionali». Si limita a fare il nome dell'Iran e di un intermediario: Munir Makdah, un palestinese residente in Libano, che avrebbe un rapporto privilegiato con l'ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema della repubblica islamica. Le ha provate tutte per convincere Hamas e la jihad islamica a rinunciare alla violenza: le maniere forti, che hanno provocato morti e feriti; le trattative, che sono tutte fallite tranne una, nel dicembre 2001, prima che Sharon ponesse fine unilateralmente al cessate il fuoco che era stato rispettato per sei settimane da tutte le organizzazioni palestinesi. Ma come poteva mai imporre l'ordine, quando l'esercito israeliano aveva distrutto i servizi di sicurezza dell'Autorità palestinese, smantellato e disarmato le sue forze di polizia, ridotto in cenere tutte le carceri palestinesi - tranne una a Gerico, che era stata messa sotto controllo degli ispettori anglo-americani? Per quanto riguarda la democratizzazione dell'Autorità palestinese, richiesta dai suoi compatrioti, è Sharon stesso ad impedirla. Le elezioni legislative e presidenziali, la chiave di volta di qualsiasi riforma, non hanno potuto svolgersi come previsto, il 20 gennaio 2003, proprio perché continuava il blocco dell'esercito israeliano. Il primo ministro israeliano ha paralizzato le istituzioni esistenti, vietando gli spostamenti dei responsabili palestinesi. È impossibile programmare le riunioni - assolutamente sporadiche - del consiglio dei ministri e del consiglio legislativo, gli unici organi competenti a introdurre le riforme. Arafat conta numerosi oppositori all'interno del Consiglio legislativo, nell'intellighenzia e nelle alte sfere dell'Olp, che criticano, spesso anche in pubblico, i suoi metodi autoritari, i suoi tentennamenti, i suoi errori politici, la corruzione che regna nel suo entourage. Ma, nelle circostanze attuali, la maggioranza è decisa a sostenerlo. Per spiegare questo paradosso, uno di loro mi confida: «Non si mette da parte il capitano di una nave che affonda, ma verrà il momento in cui Arafat dovrà rendere conto della sua gestione della crisi». Sharon non vuole elezioni e riforme che rimetterebbero in sella Arafat. Senza ombra di dubbio, Arafat vincerebbe a man basse, anche senza ripetere il plebiscito del 1996, in cui riscosse l'88% dei suffragi. Spostandosi da Ramallah a Tel Aviv, a una sessantina di chilometri di distanza, l'osservatore ha l'impressione di passare dall'inferno al paradiso. Ma è mera apparenza. La grande maggioranza degli israeliani è disperata rispetto al futuro che li attende. Sharon e prima di lui Barak sono riusciti a convincerli che un accordo con i palestinesi è impossibile in un futuro prevedibile. «Alle ultime elezioni, gli israeliani non hanno scelto tra la guerra e la pace; il loro è stato un voto a favore della sicurezza», spiega Dan Meridor, ministro della pianificazione strategica del governo Sharon, responsabile in particolare del coordinamento dei servizi di sicurezza e della questione israelo-palestinese. Ammette: «Gli israeliani vedono in Sharon, giustamente, il falco più deciso di tutto Israele». L'ex ministro laburista Yossi Beilin, da parte sua, parla soprattutto del «disorientamento» dei suoi compatrioti, che hanno boicottato in massa la consultazione elettorale: il 32% di astensioni, la percentuale più elevata da che è stato creato lo stato d'Israele - a cui si dovrebbe aggiungere, secondo numerosi osservatori, il 12% dei voti ottenuti dal partito Shinui (Cambiamento) che, ignorando il conflitto, chiedeva un voto per la laicità. E allora, quasi un israeliano su due, calcola Beilin, avrebbe manifestato il suo disamore nei confronti del processo democratico. L'ex deputato pacifista Uri Avnery paragona il comportamento dello Shinui all'orchestra a bordo del Titanic che suonava, imperturbabile, i valzer viennesi mentre la nave affondava nel panico generale. Che la destra e i partiti religiosi si siano assicurati i due terzi dei seggi alla Knesset - una maggioranza senza precedenti nella storia di Israele - è soltanto una illusione ottica. In realtà, i sondaggi indicano che gli israeliani sono in maggioranza favorevoli alla strategia di pace della sinistra: il ritiro dalla quasi totalità delle colonie della Cisgiordania e della striscia di Gaza, territori su cui dovrebbe nascere uno stato palestinese. Considerano irrealista il progetto di Sharon di restituire ai palestinesi circa il 40% dei territori occupati per stabilirvi una decina di «bantustan» controllati da Israele. «La destra immagina di poter imporre un accordo che farebbe dei palestinesi la bestia da soma del cavaliere israeliano», commenta Amram Mitzna, il leader del partito laburista, che assicura che tale strategia è destinata a fallire. Certamente, gli israeliani sono preoccupati del terrorismo. Ma ancora di più l'angosciano altre due prospettive drammatiche. Una è di carattere esistenziale: tenendo conto della crescita demografica (2) delle due comunità, tra una decina d'anni i palestinesi costituiranno la maggioranza della popolazione del «grande Israele» tanto caro a Sharon. A quel punto, il progetto di occupazione e di colonizzazione dei territori conquistati nel 1967 diventerebbe un incubo terrificante. L'altra preoccupazione riguarda la crisi dell'economia israeliana, la più grave da cinquant'anni a questa parte. La depressione risale all'inizio della seconda Intifada nel settembre 2000, seguita da tutta una serie di contraccolpi - la sensibile riduzione degli investimenti esteri, la perdita dei mercati arabi, il crollo del turismo e delle industrie ad alta tecnologia, l'enorme deficit di bilancio per l'aumento delle spese per l'esercito e i coloni. Centinaia di imprese e di attività commerciali hanno dovuto chiudere. Il numero dei disoccupati aumenta continuamente, mentre il governo prevede di licenziare 30.000 dipendenti del settore pubblico e di ridurre dell'8% le retribuzioni degli altri funzionari. Le tensioni sociali sono quanto mai acute. Almeno 1,5 milioni di israeliani, fra cui 500.000 bambini, pari a circa un quarto della popolazione, vivono al di sotto della soglia di povertà, mentre gli «happy few» si arricchiscono grazie alla corruzione e ala speculazione. Il paradiso israeliano dell'età dell'oro di Oslo e di Rabin non esiste più. È questa la lucida analisi del ministro Meridor: «Non abbiamo un rimedio miracoloso alla crisi, tranne che se riusciremo a porre fine all'Intifada». Conclusione realista di Mitzna, leader del partito laburista: «Sharon farebbe meglio a occuparsi dei suoi compatrioti, invece di occupare il territorio dei palestinesi». Nell'un caso e nell'altro, Arafat e l'Autorità palestinese non hanno altra soluzione se non quella di convincere l'opinione pubblica israeliana, che non ha senso demonizzarli. Se riusciranno nell'intento, i falchi di Gerusalemme e di Washington, che ostacolano l'avvio di nuove trattative di pace, dovranno fare i conti anche con loro.
note:
* Giornalista, ex ambasciatore francese.
(1) Si legga Amira Hass, «Quegli israeliani che sognano il «trasferimento»», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2003.
(2) Si legga Youssef Courbage, «La sfida demografica», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 1999, e Populations & Sociétés, Parigi, n. 362, novembre 2000. (Traduzione di R. I.) aa qq Guerra perpetua Ignacio Ramonet
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