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by fran Tuesday, May. 13, 2003 at 11:25 PM | mail: | |
Da lrunea a porto allegre Articolo di Andrea Geniola, pubblicato sulla rivista "Le Passione di Sinistra", un periodico di dibattito promosso dalla sezione "Palestina Libera" di Molfetta (Bari) di Rifondazione Comunista. Irunea è la capitale storica dei Paesi Baschi e capoluogo della provincia della Nafarroa; si chiama così da prima che i romani la battezzassero Pompaelo e gli spagnoli la chiamassero Pamplona. Alcuni si chiederanno chi sono i baschi, altri, più aggiornati ed attenti alle questioni internazionali, si domanderanno cosa hanno a che fare i Paesi Baschi con Porto Alegre e con il tema della democrazia partecipativa. Entrambe le domande sono motivate e facilmente spiegabili con il trattamento riservato dalla stampa e dalla storiografia ufficiali alla questione basca, ridotta quasi sempre ad un mero confronto militare fra gli stati spagnolo e francese ed una organizzazione armata, l'ETA. In questa manichea divisione fra buoni e cattivi si perde la complessità di una società plurale che racchiude elementi di avanzata novità sul piano dell¹organizzazione sociale e politica all¹interno del contesto europeo ed occidentale, utili a mio avviso alla sinistra antagonista e di base alla prova della lotta contro la globalizzazione neoliberista. 1. Gli indiani d'Europa Presenti su un territorio più vasto di quello odierno, prima dell'arrivo degli indoeuropei, prima dei Celti e dei Romani, sottoposti a numerose invasioni e saccheggi durante la propria storia, i baschi amano appunto definirsi come gli indiani d'Europa. Gli storici Romani, sempre al seguito delle truppe di conquista, ne attestano la presenza e ne documentano la diversità culturale e linguistica, annotando ben cinque differenti popolazioni di lingua basca: gli Aquitani, i Vasconi, i Varduli, i Caristi e gli Autrigoni. Oggi i Paesi Baschi (Euskal Herria) sono un triangolo di territorio a cavallo dei Pirenei, tra il Golfo di Biscaglia (chiamato così dal nome della provincia basca della Bizkaia) ed i fiumi Atturi ed Ebro, diviso da un innaturale ed ormai anacronistico confine tra gli stati spagnolo e francese. In questo territorio vivono i baschi: un popolo di tre milioni di persone con proprie tradizioni, una propria lingua, l'euskara, assai differente dalle altre lingue d'Europa e non imparentata con alcuna di esse, una specifica e ben sviluppata cultura. E' importante sottolineare che Euskal Herria non significa nazione basca bensì paese dove si parla il basco e che sono baschi coloro che parlano il basco, a prescindere da colore, religione e origine; in euskara esiste solo una parola per definire un basco ed è euskaldun, cioè colui che parla in basco. Chi non conosce le feste di San Fermin e Bilbao, la cucina e la boina (il copricapo che noi chiamiamo basco), l'Athletic Bilbao e la pelota, le spiagge da surf e le splendide montagne pirenaiche? Ma tutto sembra fermarsi qui, come se un popolo fosse solo uno svago per turisti annoiati e curiosi, che esiste solo lo spazio di un'estate! I baschi hanno invece una propria storia antica e complessa, parte della storia europea, ma troppo spesso rimossa e negata, perché la storia la fanno i vincitori delle guerre e i conquistatori. Molti hanno studiato la disfatta dell'esercito di Carlo Magno nel 778 presso la località basca di Orreaga (Roncisvalle) ma pochi sanno che la verità storica ne attribuisce la paternità ai baschi che scacciarono l'esercito invasore dei Franchi di ritorno dal saccheggio di Irunea. Tutti ricordano il bombardamento di Gernika del 1937, ma pochi sanno che si trattò di un'azione militare volta a piegare la resistenza basca antifranchista; Gernika era, ed è, il luogo simbolo delle istituzioni basche poiché per secoli vi si erano riuniti i responsabili delle comunità locali attorno ad un albero mitico. A cavallo di questi due eventi-simbolo della storia d'Europa, la storia di un popolo, della sua resistenza e della sua lotta per la libertà. Alcuni obiettano che i baschi non hanno mai avuto uno stato proprio e che quindi mancherebbe il precedente storico, ma anche questo, come molti altri, è un falso storico. Qualora studiando la storia d'Europa doveste imbattervi nel Ducato di Vasconia o nel Regno di Navarra sappiate che si tratta di stati baschi, nei quali si parlava euskara e non francese o castigliano. Lo sfaldarsi del primo e la conquista manu militari del secondo da parte della Corona di Castiglia nel 1512 posero fine a queste due esperienze statali, ma i baschi mantennero statuti propri di autogoverno chiamati foruak sui quali vale la pena spendere alcune parole. I foruak, o fueros, sono un insieme di leggi e consuetudini non scritte attraverso le quali i baschi hanno da sempre regolato la propria vita politica, amministrativa, giuridica ed economica. Solo dopo molti secoli ognuna delle sette province che oggi costituiscono i Paesi Baschi mise per iscritto questi statuti: la Nafarroa nel 1234, l¹Araba nel 1332, la Gipuzkoa nel 1457, il Lapurdi nel 1514, la Zuberoa nel 1520, la Bizkaia nel 1527, la Behenafarroa nel 1608. Questi statuti facevano dei territori baschi dei veri e propri piccoli stati, secondo quella che era la concezione del tempo o meglio, gli stati come noi li conosciamo oggi non esistevano e quindi la Bizkaia o la Nafarroa valevano qualsiasi altra entità sovrana. Mentre l'autogoverno basco né si era organizzato in stato unitario né aveva intrapreso alcuna campagna imperiale i due potenti vicini stavano appunto costruendo i loro imperi e la loro macchina statale. Tra la Rivoluzione Francese del 1789 e le Guerre Carliste di successione spagnola del 1833 e 1872 i baschi persero anche le ultime forme di autogoverno e videro formalizzato il confine che ancora oggi li separa. Il rivoluzionario basco Garat chiese almeno l'istituzione di un dipartimento basco per il versante francese, ma la proposta fu rifiutata; il Re di Spagna giurò di rispettare i foruak, ma si guardò bene dal farlo. I baschi si difesero, combatterono una guerra impari, in migliaia furono perseguitati e giustiziati, in decine di migliaia fuggirono verso le Americhe, dove ancora oggi vi sono numerose comunità basche che conservano un profondo legame con la propria terra e si considerano tutt'ora in esilio e diaspora. Da allora il conflitto tra Paesi Baschi e gli stati spagnolo e francese non ha avuto più fine, non c'è stata generazione di baschi che abbia vissuto in pace, famiglia che non abbia avuto morti, esuli o torturati delle forze armate dei due stati. In questo contesto nasce a fine'800 il nazionalismo basco moderno con l'obiettivo di creare uno stato proprio e riconquistare la sovranità perduta. I baschi non hanno mai mosso guerra ai propri vicini, non hanno avuto un impero o dei domini coloniali, imperatori o grandi statisti, ma solo pescatori, allevatori, contadini, qualche pirata e generazioni di operai, ma questo non ha loro impedito di conservare la propria lingua e la propria cultura, di condividere un medesimo progetto di società, di essere, in altre parole, niente di più e niente di meno di un popolo. Se ne accorse anche Victor Hugo, che annotò sul proprio taccuino di viaggio: Un basco non è né spagnolo né francese, è un basco. 2. Nodi irrisolti I Paesi Baschi sono oggi una nazione come le altre, gli euskaldun (i baschi) un popolo come gli altri, l'euskara (la lingua basca) la lingua più antica d'Europa e patrimonio dell'intera umanità; i Paesi Baschi non sono però riconosciuti come tali dagli stati che se ne dividono il territorio e di riflesso dalla comunità internazionale. Le province di Behenafarroa, Lapurdi e Zuberoa si trovano sul versante francese di questo confine, non godono di alcun diritto culturale, la loro lingua non è riconosciuta; non hanno un proprio dipartimento e così sono una zona ad altissimo tasso di disoccupazione, povertà ed emigrazione, dove la speculazione edilizia delle aziende turistiche francesi ha messo in vendita un intero paese. Nessuno si permette di mettere in dubbio la democraticità della Francia e la sua tradizione in fatto di diritti civili e sociali, eppure i baschi per Parigi non esistono come tali, esistono solo come cittadini francesi; la Francia ha addirittura rifiutato di sottoscrivere il protocollo europeo per i diritti delle lingue minorizzate. La Francia ha in realtà una politica coloniale nei confronti dei baschi che è rimasta praticamente la stessa dalla nascita della Repubblica, ed il fatto che questi siano in pochi (nemmeno 300.000) in un territorio non molto esteso fa passare qualsiasi rivendicazione sotto silenzio. Le province di Araba, Bizkaia, Gipuzkoa e Nafarroa si trovano dalla parte spagnola del confine ed hanno vissuto differenti status formali. La nascita della Repubblica spagnola del 1931 rese possibile la nascita di un'entità autonoma basca che però ebbe breve vita a causa del sopraggiungere della Guerra Civile nel 1936 e della vittoria dei militari falangisti del Generale Franco nel 1939. Alla caduta di Bilbao il Generale Franco dichiarò pubblicamente: finalmente è caduto quell'incubo bolscevico chiamato Paesi Baschi. Il franchismo portò avanti nei confronti dei baschi un genocidio politico-culturale con tutti i mezzi a disposizione. Dopo la vittoria le province basche vennero battute palmo a palmo in cerca dei gudari (i combattenti baschi), che vennero sterminati a migliaia, raramente incarcerati, i più fortunati riuscirono a fuggire ancora oltre oceano ospiti della diaspora basca, i più combattivi proseguirono a combattere il nazi-fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale dando un enorme contributo in vite umane alla Resistenza francese. La lingua basca fu vietata, likurrina (bandiera basca) vietata, i cognomi ed i toponimi spagnolizzati, città e villaggi pesantemente occupati militarmente. Ma i Paesi Baschi erano nel frattempo anche diventati un paese ad altissima densità industriale, con una forte classe operaia e nonostante tutto continuarono ad essere una zona ribelle, rimasero l'avamposto della lotta al franchismo fino alla sua caduta. Nel contesto delle lotte operaie, della resistenza antifascista e della rivendicazione della identità basca nasce e si sviluppa un movimento di liberazione nazionale e sociale unico nel suo genere in Europa, mentre l'estrema crudezza della situazione portò nel 1958 alla nascita del movimento armato guerrigliero ETA (Euskadi Ta Askatasuna). Quando la fine del franchismo sembrò vicina molti pensarono che sarebbe arrivato anche il momento della libertà per i baschi, ma così non fu e il periodo della dittatura franchista si rivelò ben presto solo una forma differente del genocidio culturale (e spesso non solo) portato avanti dalla monarchia spagnola. Quella che venne chiamata transizione democratica, ed in base alla quale la Spagna è oggi considerata dai più un paese democratico e civile, altro non è infatti che un grande imbroglio in stile latinoamericano, in cui la riforma viene concessa e scritta dagli stessi militari, torturatori ed assassini, della cui fede democratica è più che lecito dubitare. Quel periodo che va dal 1975 al 1978 viene chiaramente definito dal magistrato democratico spagnolo Joaquin Navarro in questi termini nel suo ultimo libro Fulgor de libertad pubblicato dalla editrice Kale Gorria Liburuak. Certamente non si era fatta un'analisi rigorosa di quello che stava accadendo. Perchè si regalò legittimità democratica ai neo-franchisti? Perché e per chi si accettò senza condizioni la riforma monca che offrirono gli eredi del Generale? Perchè si votò quella Costituzione nella quale non esisteva né separazione dei poteri né autentico controllo del potere? Perchè non si cercò seriamente di risolvere con dignità i problemi che storicamente pesavano sulla realtà politica spagnola? Si accettò, senza alcun dibattito né referendum, la forma monarchica dello Stato. Si cedette di fronte alle misure costituzionali che pretesero le Forze Armate e la Chiesa Cattolica. Non si andò a fondo nel riconoscimento pieno e conseguente dei diritti politici dei Paesi Baschi, della Catalogna e della Galizia, la cui autodeterminazione era stata proclamata e difesa precedentemente, nell'ambito dell'opposizione democratica, dalla maggioranza dei partiti e dei gruppi politici che la componevano. Si introdusse il termine di nazionalità, lasciandolo privo di contenuti politici concreti. Si proclamò l'economia neoliberale di mercato come dogma mentre si emettevano retorici proclami circa la superiorità dei valori di libertà ed uguaglianza. Si costruì un parlamento appendice dell'esecutivo e campo di manovra delle oligarchie. E si sostituì lo Stato dittatoriale con uno Stato in cui quelle oligarchie si spartivano poteri e bottini inimagginabili. Gli spagnoli, e quindi anche i baschi, non furono mai chiamati a votare per decidere fra una repubblica, una monarchia costituzionale, una repubblica federale o uno stato unitario, gli fu presentata una carta costituzionale nel 1978, inoltre non vi fu alcuna rottura, come ad esempio accadde nel nostro paese, fra il precedente regime dittatoriale e le nuove istituzioni democratiche, bensì un chiaro indirizzo di continuità ben rappresentato simbolicamente dall¹investitura diretta a re di Spagna da parte del Generalissimo Franco del Principe Juan Carlos di Borbone. La Costituzione del '78 fu approvata dalla maggioranza degli spagnoli, ma nettamente rifiutata dai baschi con solo il 34% di sì; stesso scenario nel referendum per l¹ingresso nella NATO, con solo il 21% di sì nei Paesi Baschi. Così all'inizio degli anni '80 i cittadini baschi capirono che non avrebbero ottenuto alcun diritto all'autodeterminazione; la questione era lontana dall'essere risolta, mentre l'ETA decise di continuare sulla strada della lotta armata. Al momento della decisione di concedere una qualche autonomia alle nazionalità non spagnole entrarono in gioco pesanti interessi economico-militari che esplosero con il golpe militare di Tejero nel 1981. La maggior parte degli spagnoli credette alla messa in scena del Re che, in alta uniforme dagli schermi della televisione pubblica, richiamava le Forze Armate all'ordine. Il golpe rientrò, ma a caro prezzo; l'esercito e le oligarchie che promossero la sollevazione ottennero dal Re e dal governo la riduzione delle già limitate autonomie che si stavano concedendo a baschi, catalani e galiziani ed una quota decisamente più alta e maggiormente discrezionale di potere per le Forze Armate del Regno di Spagna. Una delle leggi votate di corsa per accontentare i militari fu proprio quella che sancì l¹ulteriore divisione in due delle quattro province basche in mano spagnola, la LOAPA. In base ad essa, e senza alcuna consultazione popolare in merito, Araba, Bizkaia e Gipuzkoa fanno parte della CAV (Comunità autonoma basca), mentre la Nafarroa costituisce la CFN (Comunità forale navarra), inoltre è stata costituita una enclave castigliana nel territorio comunale di Trebino, al centro della provincia di Araba; paradossalmente, ma significativamente, Madrid riconosce queste province come un'entità unica solo nel Piano ZEN (Zona Especial Norte) del 1983: un piano repressivo di governo e forze armate tutt'oggi in vigore che prevede la sospensione delle libertà politiche e civili ed una massiccia opera di intossicazione informativa a livello internazionale per combattere l'indipendentismo. La prima di queste comunità gode del pieno riconoscimento formale della lingua basca e dell'autonomia amministrativa, mentre nella seconda l'euskara è riconosciuta solo nella zona nord. E' importante sottolineare il fatto che si tratta di riconoscimenti formali la cui pratica reale è continuamente negata ed osteggiata. Di fatto il basco è quasi un ornamento facoltativo dal punto di vista giuridico, mentre spagnolo e francese sono obbligatori e dominanti. Nella CAV opera anche una polizia locale, l'Ertzaintza, che si è dimostrata essere in tutti questi anni non certo una conquista bensì un corpo repressivo in più, così come fu per la RUC nordirlandese. Quando comuni e parlamenti locali prendono democraticamente decisioni non gradite a Madrid scatta la scomunica, se i parlamenti locali non seguono le direttive spagnole vengono riportati subito all'ordine. Oramai da diversi anni si assiste al mancato compimento di questi statuti di autonomia, a continui attacchi alla lingua basca, a veri e propri scontri istituzionali su temi centrali come l'istruzione, lo stato sociale, il salario sociale, le 35 ore, l'immigrazione, la sanità, l'autodeterminazione, la negoziazione politica, all¹imposizione di libri di testo che contemplano la versione spagnola della storia e che non tengono conto della storia basca. La questione più scottante che mette di fronte i Paesi Baschi da una parte e gli stati spagnolo e francese dall¹altra è senza dubbio quella della sovranità. Di fatto oggi l'autodeterminazione, riconosciuta a qualsiasi popolo della terra e garantita almeno formalmente dall'ONU attraverso un'articolata serie di Carte, Patti e Dichiarazioni, viene ai baschi, così come ad altri, negata. La mancanza di sovranità impedisce ai baschi di decidere in merito alle politiche economiche, sociali e linguistiche che li riguardano. Così i baschi hanno subito la chiusura e lo smantellamento di importanti settori del proprio tessuto produttivo ed economico, che lo stato spagnolo non ha esitato a svendere per rientrare nei parametri di Maastricht, con il risultato di una delle percentuali più alte di disoccupazione d'Europa: il 20% in media, il 24% fra le donne e addirittura il 45% fra i giovani. O ancora, i cittadini baschi devono subire le politiche scioviniste ed aggressive di Madrid e Parigi nei confronti della loro lingua e cultura, che rischiano di scomparire e che si autosostengono solo grazie alla continua mobilitazione popolare in loro favore. Il nodo della sovranità, della possibilità di decidere del proprio presente e del proprio futuro come collettività è all¹origine della resistenza basca di oggi. Una resistenza che assume mille forme, armate e pacifiche, istituzionali e di movimento. Quando si parla di Paesi Baschi non si può parlare solo dell'ETA, senza conoscere e prendere in considerazione le radici politiche di un conflitto ormai secolare e senza sapere che le strade basche sono popolate settimanalmente da pacifiche mobilitazioni popolari di massa: cortei, blocchi stradali, scioperi della fame, iniziative simboliche, raccolte di firme, ecc. Non scorderò mai la mia prima manifestazione basca a Bilbao nel'97. Il corteo era stato convocato dal partito della sinistra indipendentista Herri Batasuna (Unità popolare, sostituito oggi da Batasuna) per protestare contro l'incarcerazione della propria direzione nazionale, colpevole di aver diffuso pubblicamente una proposta di pace lanciata dall'ETA. A metà corteo capii che la manifestazione era davvero enorme, una fiumana di almeno 100.000 persone riempiva le strade di Bilbao, la più popolosa città basca che non ne conta nemmeno 400.000. Ma la cosa che mi sorprese decisamente fu il carattere popolare del corteo, composto da giovani ed anziani, famiglie con bambini e nonni, che non aveva davvero alcun tratto minaccioso e scorreva silenzioso per le vie di una città tranquilla e serena. Mi chiesi allora: dov'è il clima di terrore di cui parlava la TV? Chiunque vada nei Paesi Baschi capisce immediatamente che il problema non è l'ETA, che la questione basca non è riducibile alla lotta armata e che essa è solo una delle espressioni più note, solo perché la più propagandata, di un conflitto politico. Ad esempio da alcuni anni si sono affacciate sulla scena sociale basca nuove forme di lotta basate unicamente sulla disobbedienza civile attiva; le Zuzen Ekintza Taldea denunciano i problemi dell'autodeterminazione, dell'ambiente, della militarizzazione, della tortura, della disoccupazione, dei diritti civili, ecc., attraverso azioni dimostrative e nonviolente. Esiste poi la kale borroka, l'Intifada dei giovani baschi, una forma di guerriglia urbana che provoca danni materiali e sabotaggi ad istituzioni governative e repressive e a banche e multinazionali, senza provocare alcuna vittima. Bisogna sapere che i diversi governi che si sono succeduti a Madrid, tanto quelli dei socialisti del PSOE quanto quelli dei neo-franchisti del PP, hanno conservato in Euskal Herria tutto l'apparato di controllo poliziesco e militare che vi aveva dispiegato la dittatura franchista; Guardia Civil e Ministero degli Interni negli ultimi venti anni hanno trafficato in armi e droga, promosso e finanziato gruppi terroristici paramilitari (GAL, BVE, ecc.), commissionato attentati, omicidi e sequestri di persona, con il denaro pubblico e l'appoggio di Parigi, ma soprattutto con una impunità degna delle più solide dittature latinoamericane. Infatti, nonostante alcune sentenze e verità processuali, i mandanti e i responsabili di questa sporca guerra contro i baschi sono tutt'ora seduti ai propri posti, spesso vengono decorati per il servizio reso alla partia, mentre continuano le torture e le "morti misteriose" nei commissariati e nelle carceri, dove sono rinchiusi 600 prigionieri politici baschi, senza contare i 49 deportati e i 2000 rifugiati ed esuli politici (fra i quali anche il popolarissimo scrittore basco Joseba Sarrionandia). Ultimi in ordine di tempo e taciuti dagli organi di stampa, la scomparsa ed assassinio del militante di ETA Joselu Geresta Mujika e le torture con elettrodi subite dalla giovane indipendentista Iratxe Sorzabal sono fatti frutto delle leggi antiterrorismo messe a punto in realtà per combattere e terrorizzare tutto l¹indipendentismo basco. I dati sui casi di tortura e maltrattamenti degli ultimi anni parlano da soli: 131 nel '92, 83 nel '93, 112 nel '94, 98 nel '95, 123 nel '96, 121 nel '97, 97 nel '98, 48 nel '99, 77 nel 2000 e 69 a metà del 2001. L'ETA dichiarò nel settembre 1998 una tregua unilaterale ed indefinita, ripetutamente ignorata e boicottata dall'esecutivo spagnolo che vide in essa più un pericolo che un'occasione di pace. Sarà la storia a dirlo, ma mai come in quei 14 mesi i baschi furono uniti e vicini alla conquista dei propri diritti e mai le oligarchie spagnole così terrorizzate da uno scenario di pace reale. Infatti con la firma dell'Accordo di Lizarra del settembre 1998 per la prima volta la maggioranza dei partiti baschi, pari al 65% dei voti (PP e PSOE in Spagna e PS, PCF e UDF/RPR in Francia, si autoeslusero), la maggioranza sindacale e numerosi organismi popolari, culturali, pacifisti, religiosi, si impegnarono a sostenere un processo di pace dichiarando che è necessario che una negoziazione risolutiva non comporti imposizioni specifiche, rispetti la pluralità della società basca, dia a tutte le istanze pari opportunità, sviluppi la democrazia permettendo a tutti i cittadini dei Paesi Baschi di poter avere l'ultima parola nella decisione del proprio futuro e che questa decisione sia rispettata dagli stati interessati. Ma apparì subito chiara la mancanza di volontà da parte di Madrid e Parigi di portare avanti un processo di pace che contamplava il riconoscimento dell'autodeterminazione. Così, mentre il governo britannico approfittava della tregua dell'IRA per negoziare una soluzione definitiva della questione nord-irlandese e come atti di reciprocità dichiarava lo status di prigionieri politici per i combattenti repubblicani, ne iniziava la scarcerazione e parlava chiaramente di autodeterminazione, Madrid bruciava la mediazione del vescovo di Donostia e faceva arrestare i negoziatori dell'ETA, mentre la Guardia Civil continuava a torturare ed uccidere cercando di far saltare la tregua. Quando nel novembre 1999 l'ETA dichiarò la fine della tregua, probabilmente i più soddisfatti furono proprio le oligarchie spagnole, la Guardia Civil, le forze armate e l'esecutivo del PP. Personalmente penso che il ritiro della tregua da parte di ETA sia stato un enorme regalo al nazionalismo spagnolista e che una maggiore dose di pazienza avrebbe dato alla comunità internazionale la possibilità di vedere con altri occhi la questione basca. In quanto all'ETA in particolare credo che, pur non condividendone i mezzi, bisogna prendere atto del fatto che essa è appoggiata o vista con simpatia da ampi settori della popolazione, che nonostante tutto la vedono ancora come l¹unica garanzia ed autodifesa di fronte alle politiche nazionaliste di Madrid e Parigi. Se l¹attitudine ed il comportamento del governo spagnolo nei confronti della questione basca non è mai cambiato (lo stesso premio Nobel per la pace Perez Esquivel ha dichiarato che Aznar non ha mostrato e non mostra alcuna intenzione di negoziare), dopo l'11 settembre il governo di Madrid ha approfittato del clima internazionale e della presidenza di turno dell'Unione Europea per far passare come atto di terrorismo la semplice dichiarazione di nazionalità basca o la sola richiesta di esercizio del diritto all'autodeterminazione, considerati come atti di sovversione dell¹ordine costituito ed attentati alla sacra ed indivisibile unità del Regno di Spagna. Gli eventi repressivi degli ultimi mesi ci danno la misura di quanto in realtà siano gli organismi di base, i sindacati, i partiti, le scuole popolari in euskara, i gruppi giovanili, le organizzazioni per la difesa degli arrestati ed il sostegno ai prigionieri, ad essere nel mirino dell¹autorità francesi e spagnole e delle loro operazioni antiterrorismo. In questa strategia si inseriscono gli arresti arbitrari di centinaia di persone negli ultimi due anni; parlamentari, consiglieri comunali e provinciali, giornalisti, attivisti per i diritti umani, semplici militanti di base, che dopo gli arresti, i maltrattamenti, l'isolamento e periodi detentivi senza processo da sei mesi ad un anno e mezzo, sono stati scarcerati senza alcuna prova a carico. Sono cadute sotto i colpi dell¹Audiencia Nacional (un vero e proprio tribunale speciale), illegalizzate perché accusate di essere parte di ETA diversi gruppi della sinistra indipendentista tra cui le associazioni per la difesa degli arrestati Gestoras Pro-Amnistia e Askatasuna, le organizzazioni giovanili Haika e Segi,i movimenti di disobbedienza civile Bai Euskal Herriari e Autodeterminazioaren Biltzarrak, nonché i giornali Egin e Ardi Beltza e la radio Egin Irratia. E' stata perseguita, bloccandone i conti ed arrestandone i professori, addirittura la AEK, un coordinamento che si occupa dell'insegnamento dell'euskara agli adulti e che gestisce numerose scuole popolari. Questa strategia ha come prossimi passi l'illegalizzazione del LAB (il più grande sindacato di base d'Europa ed il secondo tra i lavoratori baschi) e del partito della sinistra indipendentista Batasuna (il terzo partito nei Paesi Baschi con centinaia di consiglieri comunali e provinciali, sindaci, parlamentari regionali ed un parlamentare europeo), e come obiettivo finale la chiusura di qualsiasi spazio democratico all'interno del quale poter esercitare tanto le rivendicazioni politiche quanto quelle sociali e culturali, portando la questione basca sul semplice terreno dell'ordine pubblico e mettendo così fuorilegge la rivendicazione nazionale in quanto tale, riuscendo laddove aveva fallito il franchismo con 40 anni di dittatura. Una strategia promossa direttamente dal governo spagnolo guidato dal Partido Popular e portata avanti disciplinatamente dal magistrato Garzon, resosi famoso per i procedimenti contro Berlusconi e Pinochet e quindi inattaccabile di fronte all'opinione pubblica internazionale. Una logica questa molto pericolosa che rischia solo di allargare a macchia d'olio le forme armate e violente del conflitto. Di questo non ci dobbiamo meravigliare perché, come ci fa notare Guido Caldiron in La destra plurale edito da Manifestolibri, osannato a livello internazionale come esempio da seguire di destra democratica, plurale e soprattutto vincente, invece il Partido Popular di Aznar rappresenta una curiosa miscela di culture di destra anche radicali, dove ai tecnocrati ultraliberali che hanno preso a modello la Tatcher e Reagan si affiancano i vecchi personaggi del passato franchista, dalle cui ceneri il partito ha avuto origine. Tra i popolari spagnoli la figura più nota della vecchia destra è quel Manuel Fraga, da oltre dieci anni Governatore della Galizia, già Ministro dell'Informazione della dittatura di Francisco Franco. Fraga è una specie di istituzione della destra spagnola, un testimone vivente del passaggio di testimone avvenuto tra parte della vecchia nomenclatura franchista, legata alla Chiesa e all'Opus Dei, e la nuova destra al potere oggi a Madrid, riunita intorno a Aznar. Ma a questa componente, che si è più volte espressa in campagne revisioniste per riabilitare il regime franchista, vanno aggiunti, nel partito di Aznar, anche gli adepti della nouvelle droite culturale che si esprimono su riviste come Hesperides e che hanno rappresentato una sorta di ponte verso gli ambienti dell'estrema destra neofascista tornata d'attualità in Spagna negli ultimi anni. La situazione è aggravata dall'avallo della comunità internazionale, che entra nella questione solo per appoggiare le scelte franco-spagnole e sostenere le frange più agguerrite dell'estremismo antibasco. Uno dei casi più eclatanti è quello del conferimento del Premio Sacharov alla piattaforma Basta Ya! (qualcosa di simile agli orangisti-unionisti dell'Ulster), che rappresenta il fronte antindipendentista promosso dalle sezioni basche di PP e PSOE e si cura di condannare solo gli atti di violenza politica provenienti dal versante indipendentista, giustificando la violenza ed il terrorismo di stato. La questione basca andrebbe vista nel suo complesso, così come è stato fatto per quella palestinese, anche se quest'ultima si presenta in un contesto sociale, differente dal quello dell'Europa Ocidentale, in cui le contraddizioni sociali sono decisamente più stridenti. In Palestina vi è un grado di violenza decisamente maggiore, ma è chiaro a tutti che l'origine dello scontro, delle autobombe, degli scontri a fuoco, degli uomini bomba, sta nella negazione del diritto all'autodeterminazione per il popolo palestinese, nella mancanza di sovranità. Tutti sono consapevoli del fatto che rimosse le cause politiche e sociali il conflitto cesserà. Lo stesso accadrebbe nei Paesi Baschi e parole e proposte concrete di dialogo e pace non mancano; proprio a Porto Alegre è stato allestito un tavolo sul tema Un piano di pace per i Paesi Baschi nel quale diversi gruppi, |
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