«Io dico no all'occupazione» Domani davanti alla Corte marziale di Jaffa il processo contro i refusenik «Il peggiore dei crimini» Sia per i palestinesi che lo subiscono sia per gli israeliani che lo praticano. Le testimonianze del pacifista Yoni Ben-Artzi e degli altri cinque ragazzi che rifiutano di servire nell'esercito occupante SVEVA HAERTTER*
Domani riprenderà davanti alla corte marziale di Jaffa il processo a 5 giovani israeliani che rifiutano la leva, portati in tribunale per il rifiuto di partecipare all'occupazione. Ecco, a mo' di testimonianza e prese dalle relazioni di Gush Shalom, come si sono svolte le ultime udienze dei due processi, quello a Yoni Ben-Artzi ed il cosiddetto «processo dei cinque».
Nell'udienza del giudizio contro Yoni Ben-Artzi, la prima testimonianza è stata quella di Ruti, sua sorella maggiore, che ha raccontato le fasi del percorso pacifista di Yoni. Durante il controinterrogatorio il Pm ha, come sempre, tentato di mettere in evidenza presunte contraddizioni tra varie interviste e testimonianze dei famigliari («Non è forse vero che tuo padre tre anni fa in un intervista ha detto cose diverse? E come mai tuo nonno pensa che la tua forse è solo paura?»), approfittando del fatto che l'eterogenea famiglia Ben-Artzi (lo zio di Yoni è l'ex premier e attuale ministro dell'economia Benjamin Netanyahu, di estrema destra) è spesso sotto i riflettori.
Alla prima udienza del «processo dei cinque» l'avvocato Dov Henin ha esordito esponendo le lineee di fondo di una difesa centrata su un punto costituzionale di fondo: «La coscienza è la parte più importante della dignità umana, la parte della personalità che ne definisce i valori essenziali, se questa parte viene spezzata, la persona stessa si spezza». La libertà di coscienza in realtà è già parte della legislazione israeliana da una decina di anni, anche se le autorità militari finora non sembrano essersene accorte.
Il primo dei cinque imputati a parlare è stato Haggai Matar. Per due ore ripercorre le varie tappe della propria militanza, le iniziative di Gush Shalom e di Ta'ayush, storie di repressione e di amicizie con ragazzi palestinesi (uno in carcere da 6 anni senza processo) e conclude affermando che «dopo queste esperienze non ho alcun dubbio: non voglio e non posso essere parte dell'esercito israeliano che non ha più alcun diritto di autodefinirsi un esercito di difesa».
Non meno emotivo l'intervento di Matan Kaminer. «Per me il valore più importante è la libertà degli esseri umani, i diritti umani. Io credo che tutti gli esseri umani abbiano diritti inalienabili come il diritto alla vita, all'eguaglianza, al benessere, allo studio, alla libertà di associazione, alla democrazia. Tutti questi diritti sono violati dall'occupazione - principalmente per i palestinesi, ma anche per gli israeliani. Il diritto dei palestinesi alla vita è violato dalla politica degli assassinii mirati e dalle attività militari in aree densamente popolate che causano morte e ferimento di civili. Il diritto all'eguaglianza è violato dalla politica degli insediamenti che toglie terra, risorse e la dignità ai palestinesi e comporta un'iniqua distribuzione delle risorse nazionali tra gli stessi israeliani. Il diritto dei palestinesi al benessere ed allo studio è violato dalle continue chiusure, dal coprifuoco. La più importante, anche se non necessariamente la più dolorosa delle violazioni riguarda il diritto a vivere in un sistema democratico. Lo stesso dominio di un popolo su un altro popolo è una flagrante violazione di questo diritto (...) il disprezzo per la democrazia si sta gradualmente espandendo in Israele dove ormai si accetta come un fatto normale la presenza di partiti razzisti di estrema destra nei governi. La privazione dei palestinesi del diritto alla democrazia, è la radice di tutti i crimini che accompagnano l'occupazione - sia i crimini degli occupanti che ho in parte descritto, sia i crimini degli occupati, spinti a forme di lotta inumane ed immorali. Nessuno di questi crimini è giustificabile e tutti derivano direttamente dall'occupazione e possono cessare solo con la fine dell'occupazione stessa. Da tutto questo consegue logicamente che il servizio nell'esercito, che è strumento principale dell'occupazione, è totalmente contrario alla mia coscienza. L'occupazione è un crimine terribile, un crimine immorale e maligno contro un'altra società che si estende verso la nostra, strangolandola ed avvelenandola. Per questo è evidente che non posso far parte dell'esercito e chiedo che venga riconosciuta la mia coscienza e che mi venga data l'opportunità di svolgere un servizio civile a beneficio della società israeliana della quale faccio e mi sento parte». Poi Shimri Tzameret, la cui testimonianza ha chiuso l'udienza. «So da anni che non farò parte dell'esercito, con la stessa certezza con la quale posso affermare che non prenderò mai a calci un barbone sul marciapiede, che non violenterò mai una donna, e che quando avrò un figlio non lo abbandonerò. Non ritengo necessario esporre le conseguenze dell'occupazione per i palestinesi: quelle su noi stessi sono una ragione sufficiente. Inizio dagli attentati suicidi. In un modo o nell'altro in molti siamo colpiti direttamente. Poco più di un anno fa, proprio nel giorno in cui decisi di dire ai miei compagni di scuola che avrei rifiutato la leva, ci fu un attentato suicida nel quale morì la madre e una sorella di una delle mie compagne di scuola. Capii che la vita di una ragazza che conoscevo, non sarebbe mai più stata la stessa. Molti dei miei compagni di scuola erano in collera e chiedevano come potevo rifiutare di fare il soldato in un simile momento. "Rifiuto precisamente per questo motivo", risposi. Tenere l'esercito nei territori non è un modo per fermare gli attacchi terroristici. Proprio perché ho affermato che intendo fare il possibile per impedire queste cose, penso che come individuo la cosa più importante da fare sia di rifiutare di servire nell'esercito. Nessuno sa quando avrà termine questa situazione. Negli ultimi secoli la ribellione delle popolazioni occupate ha sempre portato alla loro liberazione. È solo una questione di tempo, di quante altre saranno le vittime. Cerco di contribuire a ridurre entrambe le cose. Poi c'è quello che l'occupazione sta facendo alla nostra società. Ho conosciuto Rami in carcere e l'ho ascoltato per ore. Incredibile a quante cose terribili ha dovuto assistere in soli tre mesi di servizio nei territori occupati. Mi ha detto di un ragazzo che aveva lanciato una pietra contro la jeep di un colonnello senza colpirla. Il colonnello lo ha inseguito lo stesso per poi picchiarlo brutalmente con il calcio del fucile. Ha visto un agente dello Shabak orinare addosso ad un bambino dopo averlo legato. Mi ha raccontato di soldati che scassinavano un negozio portando via tutto ciò che riuscivano a trasportare. Mi ha detto di come non riusciva più a sopportare tutto questo, di come ha passato molte notti chiuso nel bagno con la pistola puntata alla tempia, il dito sul grilletto. Alla fine è scappato ed è così che è finito in prigione. Le persone insensibili, quelle che si abituano a queste regole da far west, poi le trasportano nella stessa società israeliana. Stiamo corrompendo noi stessi. Non sono disposto ad essere parte di questo strumento di corruzione». Domani toccherà alle testimonianze di Noam Bahat e di Adam Maor.
* della Rete Ebrei contro l'occupazione
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