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Un'inutile striscia di sangue
by da misna.org Thursday, May. 20, 2004 at 2:42 PM mail:

La “guerra senza nome” in Iraq e l’altra che si chiama “intifada” tra israeliani e palestinesi non vanno mischiate, anzi non andrebbero neanche chiamate guerre: è una regola non scritta di molto “giornalismo per bene”.



Lo confermano quasi sempre soprattutto alcuni telegiornali che devono essere sempre più "light", per fare 'audience' e non impaurire la pubblicità, si dice sottovoce dietro le telecamere; e anche, si può aggiungere, per essere comunque schierati dalla 'parte giusta', che poi vai a vedere quale è e quanto giusta. Ma spesso i fatti se ne infischiano delle regole, sembrano poco disposti a tener conto delle consuetudini artificiose e cercano anzi di negarle. Perfino le più ferree.

La giornata di ieri ne è una prova, dai campi di battaglia al Palazzo di Vetro. Sui mezzi d’informazione di tutto il mondo - a partire da un'incontestabile registrazione video dell’agenzia americana Associated Press (Ap) - si diffondeva la notizia di un attacco aereo statunitense che, per errore, aveva provocato la morte di 40-45 persone - inclusi 15 bambini e 10 donne - ospiti, nonostante le smentite ufficiali del Pentagono, di una festa di matrimonio nel deserto, a Husaybah, nella provincia di Ramadi, a 25 chilometri dal confine siriano. Quasi in simultanea, nella Striscia di Gaza, uno dei due territori palestinesi, quello confinante con l’Egitto, carri armati ed elicotteri israeliani, sempre per errore, provocavano non meno di 10 vittime (e secondo alcune fonti molte di più), soprattutto giovani.

Al Palazzo di Vetro, a New York, l’agenda del Consiglio di Sicurezza, aperta con la questione irachena, proseguiva con il voto sulla risoluzione 1544 che “condannava l’uccisione di civili palestinesi a Rafah” e chiedeva a Israele di rispettare “ i suoi obblighi di diritto umanitario internazionale” e “insisteva in particolare sull’obbligo di non procedere alla demolizione di case contraria a quel diritto”. A sorpresa, gli Stati Uniti, invece di far ricorso al veto - come quasi sempre sull’argomento - si sono astenuti e la 1544 è stata approvata con 14 voti favorevoli. Dalla sede Onu di Ginevra, John Dugard, “special rapporteur” della Commissione per i diritti umani, inviava al Palazzo di Vetro una sua dichiarazione in cui definiva le azioni israeliane a Gaza negli ultimi tre giorni, puri e semplici “crimini di guerra”, in base all’articolo 147 della Convenzione di Ginevra relativo alla protezione dei civili in tempo di guerra.
(Quello del non rispetto della Convenzione di Ginevra è un argomento riemerso più volte anche in Iraq, l’ultima in relazione alle inqualificabili torture nel carcere di Abu Ghraib istruite dallo stesso ‘esperto’ che il ministro della Difesa Donald Rumsfeld aveva l’anno scorso trasferito in Iraq dal campo americano di concentramento per presunti terroristi di Guantanamo a Cuba.)

Dugard, nel suo documento di 22 righe, si definiva “orripilato” dalle operazioni israeliane e chiedeva anche al Consiglio di Sicurezza di prendere in considerazione la possibilità di imporre a Israele un embargo sugli armamenti simile a quello che era stato deciso nel 1977 per il Sudafrica dell’apartheid. “Non vedo ragioni per cui questa non possa essere ritenuta una misura appropriata” aggiungeva anzi Dugard.

Parole e toni che il “giornalismo per bene” non deve aver colto visto che non se ne trova facilmente traccia né sulle pagine giornalistiche di carta né su quelle virtuali in internet.

Meno sottosilenzio è passato invece un accostamento: nel luglio 2002, anche in Afghanistan, gli americani spararono dal cielo su un matrimonio a Uruzgan facendo 48 morti e almeno 170 feriti, inclusi molte donne e bambini. Anche allora smentirono e dissero di aver risposto al fuoco nemico. E in tutti e due i casi, il 'fuoco nemico' era quello di una rumorosa ma innocua tradizione: far festa agli sposi con un po' di botti, di solito colpi di fucile in aria. Come hanno fatto questa volta, nonostante l’evidenza televisiva fornita dall’Ap in cui passano testimonianze sulla festa di matrimonio e si vedono tra l’altro - i particolari sono raccapriccianti ma non possono essere sottaciuti vista la natura delle smentite - cadaveri di bambini uno sull’altro, incluso uno senza testa e quello martoriato di una bambina dell’apparente età di cinque anni.

Husaybah e Uruzgan sono nomi che pochi ricorderanno e ancor meno sapranno collocare sulla vasta porzione di mappa sempre più insanguinata nel mondo. Forse qualcuno di più ricorderà Rafah e avrà in mente dove si trova, senza però sapere che i fiori che acquisterà oggi, domani o un altro giorno, vengono forse proprio da Rafah. “Siamo stati costretti a mettere i corpi nelle celle frigorifere usate per i fiori che esportiamo in Europa” ha detto il medico Manar Thair dell’ospedale di Rafah a Giorgio Raccah dell’Agenzia nazionale di stampa associata (Ansa).

Sono alcune decine - il conto preciso è forse impossibile - i palestinesi, per lo più civili, uccisi nei primi tre giorni di questa operazione che anche dall’Unione Europea è stata definita “assolutamente sproporzionata”. Di tono simile le dichiarazioni ufficiali di Madrid, Mosca e Londra. Nonostante tutto, la notte che si è appena conclusa ha visto a Gaza altre vittime palestinesi, almeno cinque, per un totale di almeno una ventina in 24 ore; e, in barba alla risoluzione 1544, altre 15 case sono state distrutte aumentando ancora il totale dei 1600 senzatetto della Striscia.
David Bassiouni, rappresentante speciale dell’Unicef, l’ente dell’Onu per l’infanzia, ha ricordato che in questi giorni a Rafah sono morti non meno di 10 minori, tra cui una ragazza di 16 anni e un bambino di 13 colpiti nella loro abitazione; innumerevoli i minori fisicamente feriti o in condizioni psicologiche angosciose. Dall’inizio del conflitto, ha ricordato Bassiouni, sono più di 660 i minori di 18 anni “caduti”, 104 dei quali israeliani.

Se mai convivranno in pace Israele e un futuro stato palestinese - situazione verso la quale doveva portare il “tracciato di pace” ( la cosiddetta road map) - quanti saranno, nell’uno e nell’altro Paese, i giovani sopravvissuti e senza cicatrici fisiche e morali incancellabili? E in Iraq, dove il conto dei civili morti e sofferenti in pratica non esiste, quante saranno le vittime di quell’unico “veleno” mediorientale di cui ha parlato in aprile l’inviato speciale dell’Onu Lakhdar Brahimi? Per ora, speriamo almeno che a Rafah possano ancora conservare fiori invece che essere costretti a trasformare in obitori le celle frigorifere. E speriamo che il “giornalismo per bene e leggero" faccia a meno delle sue regole non scritte e si decida a vedere e descrivere i nessi scoperti e quelli occulti di una situazione internazionale che riesce a “globalizzare” il pianeta quasi esclusivamente in chiave di angoscia e squassamento.

(di Pietro Mariano Benni)

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