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Ecco come lavora mr. Amadori
by Fantom Friday, Aug. 16, 2002 at 4:27 PM mail:

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Con una copertina sui vip milanesi che sniffano cocaina. Ecco un caso in cui il falso potrebbe essere l’unico modo per raccontare la verità

Se Panorama fa uno scoop verosimile

L'antecedente più clamoroso viene dall’America e risale al 28 settembre 1980. Quel giorno il prestigioso quotidiano Washington Post pubblicò con grande rilievo il reportage di Janet Cooke. Titolo: Jimmy’s word. Raccontava il calvario di Jimmy, un tossicodipendente che aveva accettato di iniettarsi l’eroina in presenza della giornalista e del fotografo. Testo e immagini erano raccapriccianti perché Jimmy aveva otto anni. L’immagine del braccino bucato dalla siringa, maneggiata cinicamente dall’amante della madre, commosse l’America. L’autrice di Jimmy’s word divenne l’eroina del momento e vinse il premio Pulitzer, il più ambito riconoscimento per un professionista dell’informazione. Ma l’America, si sa, è la patria del mercantilismo esasperato. Perché, si chiese la madre di Jimmy, tutti gli onori debbono andare alla regista della messinscena mentre mio figlio, primattore, deve rimanere nell’ombra, anzi, peggio, emarginato da ogni scuola? Così rivelò quella che, appunto, altro non era che una messinscena: la giornalista e il fotografo avevano pagato la madre di Jimmy perché il figlio facesse da attore sul set allestito in una stamberga, con un comprimario adulto che fingeva di iniettare droga al bimbo.
Come siano andate le cose da questo punto in poi non si sa. Certo è che Janet Cooke confessò il falso scoop, restituì il premio e si dimise dal Washington Post, cambiando mestiere. Jimmy, liberato dal marchio di tossico, tornò a giocare coi compagni e il Washington Post poté dichiarare ai suoi lettori: da noi non c’è posto per gl’imbroglioni.

Dubitiamo che qualcosa di analogo possa accadere alla Mondadori di Silvio Berlusconi, editrice di Panorama, che il 15 marzo scorso dedicò la copertina a un’«inchiesta shock: le VERE foto di un tranquillo weekend di DROGA degli italiani perbene». Benché aggettivate con caratteri tutti maiuscoli, né le foto né la droga possono essere vere: dobbiamo supporlo per introdurre la riflessione che ci sta a cuore, dimostrando l’assunto a contrario.
All’indomani della pubblicazione del servizio, la polizia milanese (del commissariato di Porta Romana, per esempio, il più vicino alla sede dell’editrice) avrebbe aperto un’indagine sui reati che il giornalista Giacomo Amadori e il fotografo Massimo Sestini (collaboratore del settimanale) proclamavano di aver commesso: acquisto e cessione di cocaina. Dalle foto pubblicate, scattate nella camera d’albergo che, a dire dei due, avrebbe ospitato il coca-party, i poliziotti avrebbero identificato l’albergo. Di buon livello, come l’Executive, per esempio, un quattro stelle della catena Ata Hotels situato di fianco alla stazione Garibaldi, a Milano. Poi, dai registri dell’Executive, i poliziotti avrebbero verificato che Amadori il tal giorno aveva affittato una stanza, nella quale, in effetti, si è radunato un gruppo di persone, tutte regolarmente registrate alla reception. A questo punto un commissario avrebbe cominciato col convocare Amadori, chiedendogli perché mai avesse organizzato un festino a base di coca. E Amadori avrebbe recitato la scena cui ogni giornalista, al posto suo, si abbandonerebbe: «Ma quale coca-party! Non era altro che bicarbonato! Ma quali drogati! Non erano che amici che si sono prestati alla messinscena!». Il commissario avrebbe verificato la versione di Amadori con il responsabile della sicurezza dell’Executive, il quale avrebbe confermato: «Sì, sono venuti un pomeriggio, con tutte le attrezzature fotografiche, per girare alcune scene, ho personalmente constatato che, quello disseminato sui tavolini della stanza, era bicarbonato...». (In caso contrario, Amadori e C. sarebbero stati denunciati alla magistratura.)
Il commissario avrebbe comunque insistito con Amadori, facendo notare che, come documentato da Panorama, una dose di coca fu in effetti acquistata (dose che Amadori buttò nel cesso, dinanzi a testimoni, dopo averla fatta analizzare da Francesco Zoppi, direttore chimico del laboratorio del Niguarda di Milano) e che ciò costituisce reato. Avrebbe aggiunto che anche il servizio giornalistico configura la simulazione di reato, perseguito dalla legge giacché costringe la polizia a intervenire per nulla. Al che Amadori avrebbe continuato la scena, non disdegnando - e, di nuovo: chi non lo farebbe, al posto suo? - la disperazione alle lacrime: «Per favore mettete tutto a tacere sennò l’Ordine mi caccia dall’Albo e sono professionalmente rovinato!». Sarebbe intervenuto anche il direttore Carlo Rossella, confermando la buona fede di Amadori e certamente argomentando - ecco la riflessione che c’interessa - la liceità di un minimo di deformazione spettacolare delle notizie, quando è l’unico modo per divulgare fatti della cui veridicità il giornalista è certo. Insomma, uno scoop non necessariamente deve essere vero: basta che sia verosimile. Che cioè sia la proiezione, per quanto artificiosa, di fenomeni autentici.
Ora, è innegabile, perché documentato da decine di inchieste poliziesche suffragate da esiti giudiziari, che anche a Milano ci sono adulti che sniffano coca; è innegabile che tra questi adulti ci sono benestanti e liberi e professionisti; è innegabile che tra costoro alcuni, per ricchezza o per posizione sociale, possono essere inclusi in una lista di vip; non si può escludere che le sniffate avvengano nel corso di festicciole organizzate in un albergo a quattro stelle (anche se, ai fini della verisimiglianza, sarebbe stato più credibile organizzare la messinscena in una casa privata, al riparo della scontata curiosità del servizio di sicurezza di un albergo, certamente allarmato dal viavai diurno di un gruppo di persone in una stanza sola: avrebbe quantomeno sospettato un convegno orgiastico, quantomai deleterio per la reputazione di un albergo). Aggiungete che, per Amadori e Sestini, sarebbe stato assai problematico documentare (soprattutto con foto) un festino autentico e poi raccontarlo sul primo magazine italiano. I drogati, quelli veri, avrebbero avuto qualcosa da obiettare, anche perché la polizia non li avrebbe poi lasciati tranquilli.
Tirate la somma di queste considerazioni, n’esce un’assoluzione, con formula dubitativa quantomeno, di Rossella, Amadori e Sestini: sempre nell’ipotesi, beninteso, che di falso si tratti.
Dinanzi alla eventuale, constatata impossibilità di documentare sul serio un coca-party, Panorama non avrebbe avuto che un’alternativa: rinunciare a dar conto di un fenomeno sociale la cui conoscenza è indispensabile per comprenderne molti altri, oppure raccontarlo con una finzione. Scegliendo questa seconda strada avrebbe del resto marciato in folta compagnia: se è vero che tra i compiti primari del giornalismo c’è anche quello di riferire fenomeni che possono essere colti soltanto in via indiziaria, lo strumento narrativo, spesso, deve essere virtuale, sia esso l’allusione o il sottinteso o la metafora o la similitudine o, appunto, la ricostruzione. È una strada rischiosa, perché espone il giornalista a querele e a smentite.
Ma il non percorrerla significa dimezzare l’impegno professionale, privando il giornalismo dei suoi connotati investigativi, intuitivi e anticipatori per ridurlo a una funzione di mero rendiconto di quanto poliziotti e magistrati codificano in verbali e sentenze. Se i giornali scrivessero soltanto il dimostrabile e il formalmente raccontabile tanto varrebbe sostituirli con la Gazzetta ufficiale, col mattinale delle questure e con i bollettini delle sentenze regolarmente pubblicate. In tale prospettiva - è un esempio che abbiamo già utilizzato su queste pagine - gli italiani avrebbero appreso del golpe De Lorenzo con vent’anni di ritardo. Ma percorrere il crinale della verisimiglianza, evitando, di qua, il baratro della querela, e, di là, il precipizio della falsità, richiede prudenza, perizia ed equilibrio.
Tornando al servizio di Panorama - e rimanendo nell’ipotesi che esso sia verosimile ma non autentico - che bisogno c’era di calcare la mano? Di sparare sin dalla copertina «foto VERE» (maiuscolo nell’originale), di rimarcare che si trattava di «immagini “rubate” da Massimo Sestini» (virgolettato nel testo), di mettere, nelle pagine interne, didascalie del tipo «Tutto avviene sotto l’occhio nascosto di una macchina fotografica»? Perché esasperare il reportage di Amadori scrivendo che «Panorama si è infiltrato tra consumatori insospettabili e pusher dalla doppia vita. Ecco il resoconto... Panorama ha agganciato uno dei pusher più conosciuti di Milano. E con lui ha vissuto quattro notti consecutive. Eccole, raccontate fotogramma per fotogramma»?
Ribadiamo: il servizio di Panorama è soltanto un ottimo pretesto per sostenere la tesi della liceità della verisimiglianza. Del resto, quando ne abbiamo revocato in dubbio la veridicità con il vicedirettore Luciano Santilli (che, il 16 luglio scorso, sostituiva il direttore Rossella, in ferie) abbiamo registrato una smentita senza equivoci: «Se il dubbio è lecito, la verità è sempre la stessa: nulla di men che veritiero finisce sulla copertina e all’interno di Panorama. È una petizione di principio alla quale 700 mila acquirenti aderiscono volontari e volentieri».
A scanso di malintesi sull’Executive, che taluni ipotizza come “teatro di posa” della vicenda, riportiamo la smentita di Carola Nyman, room division manager: «Non ho visto il servizio di Panorama e ufficialmente non mi sento di escludere nulla. Mi limito a rilevare che non abbiamo mai avuto problemi di droga e che un ipotetico festino a base di cocaina non sarebbe sfuggito al nostro responsabile della sicurezza».
http://www.bresciablob.com/Archivio/lrovetta/Ordine/Panorama.htm

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