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Bolzaneto «inumana e degradante». Ecco il motivo
by dal manifesto Thursday, Mar. 17, 2005 at 12:44 PM mail:

La corte europea stabilì nel `78 i trattamenti vietati, appena un gradino sotto la tortura: nella caserma genovese, secondo i pm, «ne sono stati inflitti quattro sui cinque previsti». Ma in Italia è solo abuso d'ufficio, rischio prescrizione.

Sappiamo da quattro anni del «taglio delle ciocche di capelli per T.E, M.S. e S.C.», dello «strappo della mano per G.A», del «capo fatto infilare nella turca per E.P.» e dell'«umiliazione di M.S., costretto a mettersi carponi e ad abbaiare come un cane». Ricordiamo «il pestaggio di M.T, persona con un arto artificiale; gli insulti e le profonde offese a M.A. per la sua bassa statura; il malore di S.B in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo per terra nel corridoio della caserma». E «la sofferenza di A.J.K, cui alla Diaz le percosse hanno fratturato le mascelle e rotto i denti e che non è neppure in grado di deglutire - scrivono i magistrati che hanno indagato su Bolzaneto - e perde sangue in cella nell'indifferenza di tutti, eccetto i compagni». Ma anche se in Italia il reato di tortura non è previsto dal codice e il processo rischia la prescrizione, la lunga e meticolosa memoria dei pubblici ministeri genovesi - 526 pagine che si concludono con l'elenco dei fatti più gravi commessi ai danni degli arrestati e dei fermati del G8 del luglio 2001 - restituisce un barlume di fiducia e di speranza, se non nella giustizia, almeno nel faticoso lavoro degli inquirenti e nella possibilità di ristabilire la verità storica. Anche perché mostra il carattere sistematico, organizzato, delle violenze e degli abusi. Bolzaneto era previsto da mesi, non da un giorno, come «luogo di raccolta» degli arrestati: se ne prevedevano circa 350. Per attrezzare le celle con le grate e rifare l'illuminazione avevano finanziato persino lavori di ristrutturazione.


«I capi non potevano non vedere»

Le indagini, iniziate con le denunce apparse sulla stampa (Repubblica su tutti) e verbalizzate da giudici increduli in sede di convalida degli arresti, hanno infatti ricostruito il «comitato di accoglienza» formato dai poliziotti già nel cortile, dove gli arrestati appena giunti venivano ricevuti a suon di botte tra gli insulti fascistoidi o sessisti; le violenze che accompagnavano le varie formalità, compresi i verbali fatti firmare con la forza e le perquisizioni vessatorie; le «due ali di appartenenti ai vari corpi» che «colpivano, insultavano e sgambettavano gli arrestati al passaggio nel corridoio»; l'obbligo generalizzato di «stare in piedi nelle celle faccia al muro» e le atrocità commesse nell'infermeria diretta dal dottor Giacomo Toccafondi in tuta mimetica; o nei bagni, dove le porte restavano aperte, anche le donne dovevano spogliarsi davanti agli agenti maschi e se avevano bisogno di assorbenti igienici dovevano arrangiarsi facendo a brandelli i propri vestiti. Al di là dei fatti specifici, per questo sono finiti sul banco degli imputati i livelli cosiddetti «apicali», i vertici delle varie forze presenti a Bolzaneto. La permanenza nel sito poteva durare in media dieci ore o poco più, per i pochi arrestati del venerdì 20 luglio, ma si è protratta oltre le 30 ore per quelli dei giorni seguenti, specie quelli arrivati dalla scuola Diaz.

Nella penultima pagina dell'atto d'accusa, depositato all'udienza preliminare in corso a Genova contro 47 appartenenti alla polizia, alla polizia penitenziaria e ai carabinieri, i pm Patrizia Petruziello, Vittorio Ranieri Miniati e Francesco Pinto hanno voluto ricordare anche «il disagio di J.H. che alla scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non fu consentito di lavarsi». C'è poi «l'umiliante foggia del cappellino imposto a a T.H.M., un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello, con il quale è costretto a girare nel piazzale senza poterlo toglierlo». C'è ancora «l'etichettatura sulla guancia, a mo' di marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz al momento dell'arrivo a Bolzaneto». E ancora, concludono i pm, «i colpi sui genitali, per molti. Le minacce di violenza sessuale, per molti. Percosse, ingiurie, umiliazioni, per tutti». Alla fine le parole scritte da Andrea Camilleri per l'agenda di Magistratura democratica, una citazione che rimanda ad Abu Grahib e alle torture degli americani in Iraq: «Mentre tintavano d'arridurre i prigionieri a cose, erano loro stessi che si cangiavano in cose, robot, macchine di violenza».


«Non fu violenza improvvisa»

«Pagine brutte sono state scritte in quei giorni alla caserma Nino Bixio nei rapporti tra le forze dell'ordine e i cittadini, italiani e stranieri, pagine brutte e comportamenti gravi che, se anche dovessero incontrare la prescizione, difficilmente potranno essere dimenticati. Non è compito di noi pm dare una lettura sociologica del perché certi fatti sono accaduti. Certo non crediamo ad esplosioni improvvise di violenze. I capi ed i vertici di quella caserma hanno permesso e consentito che in quei tristi giorni si verificasse una grave compromissione dei diritti delle persone, perché è questo ciò che le indagini hanno provato essere accaduto. Ancora più grave, perché erano persone detenute, già private della loro libertà personale. Non c'è emergenza che possa giustificare quello che e' accaduto - ammoniscono i magistrati - In quei giorni a Bolzaneto per i detenuti è stata gravemente offesa la dignità di uomini, la loro libertà fisica e morale».

Abuso d'autorità, lesioni, percosse

Abuso d'autorità sugli arrestati, abuso d'ufficio, violenza privata, minacce, percosse, lesioni, questi i reati contestati a vario titolo. «La più grave delle violazioni di legge posta in essere dai soggetti del livello apicale è senza dubbio quella che riguarda l'articolo 3 della Convenzione per i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali», la norma che punisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, che però in Italia equivale a un semplice abuso d'ufficio, magari aggravato.

I magistrati citano la sentenza del 18 gennaio `78, emessa dalla corte europea per i diritti dell'uomo in una causa Irlanda contro Regno Unito, la pronuncia che ha «enucleato le cosiddette cinque tecniche vessatorie» e dunque definito cos'è «inumano e degradante». Le pratiche censurate allora erano «lo stare in piedi contro il muro, l'incappucciamento, la sottoposizione a rumore, la privazione del sonno e la privazione di cibo e bevande», tecniche definite «di disorientamento o di deprtivazione sensoriale», chiosano i magistrati. «Dei cinque trattamenti esaminati dalla corte e ritenuti inumani, ben quattro furono sicuramente inflitti a Bolzaneto (non sono infatti riferiti casi di incappucciamento)», annotano. «Inumano - spiegano - è il trattamento che infligge alla persona una intensa sofferenza fisica e mentale. Degradante è quello che suscita nella vittima sentimento di angoscia, di paura, di inferiorità fisica e morale». La corte di Strasburgo, ricordano i pm di Genova, distingue la tortura solo in base alla «diversa intensità della sofferenza inflitta. Non si tratta, secondo la corte, di una differenza ontologica ma esclusivamente quantitativa nel senso che la tortura costituisce un'aggravata e deliberata forma di trattamento crudele, inumano e degradante».

Il vicequestore e il generale

Per la polizia, su quindici imputati, il più alto in grado è il vicequestore Alessandro Perugini, responsabile della caserma trasformata in avamposto carcerario, già tristemente noto per il calcione a un minorenne in piazza. Per la penitenziaria sono in sedici tra cui il generale Oronzo Doria, due capitani e il violento ispettore Biagio Antonio Gugliotta che era il responsabile diretto della sicurezza e risponde anche di aver «fatto sbattere la testa contro il muro» a un arrestato e di averne costretti altri «a marciare nel corridoio della caserma e ad alzare il braccio destro in segnop di saluto fascista». Ci sono, infine, undici carabinieri guidati da un sottotenente e cinque medici penitenziari, tra cui tre donne, accusati tra l'altro dai due degli infermieri che lavoravano con loro, Marco Poggi e Ivano Pratissoli.

Nel penitenziaria c'è stata l'unica frattura rilevante all'interno delle forze di polizia impegnate al G8, con accuse reciproche emerse anche grazie a Giacomo Amadori di Panorama che hanno consentito il supplemento di indagine che ha inguaiato il generale Doria, allora colonnello. Nulla di tutto questo, un muro soverchiante di omertà poliziesca, nell'altro processo, quello che coinvolge alti vertici del Viminale per l'assalto e le prove false alla Diaz.

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