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L'operaismo: tutti gli articoli del manifesto del 12/11
by indymedia power Sunday, Nov. 26, 2006 at 6:23 PM mail:

gli articoli apparsi per celebrari il ritorno in libreria di "Operai e capitale" di Mario Tronti

INTERVISTA
Fuori norma. Lo «stile» operaista
«Operai e capitale» di Mario Tronti, la Bibbia dell'operaismo italiano, torna in libreria per DeriveApprodi quarant'anni dopo la sua pubblicazione einaudiana del 1966. E' l'occasione per tornare a riflettere sul messaggio e la dirompenza di quel libro e sul percorso di tutto l'operaismo, un'eresia marxiana che non da oggi vive una stagione di riscoperta in Italia e all'estero
Ida Dominijanni

Operai e capitale, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant'anni dopo la sua uscita einaudiana nel '66, è considerato il libro di culto dell'operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?

Veramente, il risultato fu molto al di sopra del tentativo. Si trattava di una posizione isolatissima, che sfondò il muro dell'attenzione. Ilmerito va tutto ai magici anni Sessanta. Ilmessaggio era quello cantatodaBobDylan: i tempistannocambiando. Tradotto: bisogna rivoluzionare il passo della ricerca sociale e della pratica politica. Poi, il linguaggio, come ha detto qualcuno, è l'essere. Questo soprattutto rompeva con la tradizione. Operai e capitale è l'età delmioromanticismopolitico. E i poeti romantici piacciono, sempre.

Il libro uscì, nel '66, quando le due testate dell'operaismo, i Quaderni Rossi di Panzieri e Classe Operaia, avevano già chiuso. In che rapporto sta quel tuo testo con la vicenda collettieramente, collettiva dell'operaismo?

Non ci sarebbe stato il libro senza l'esperienza operaista, depositata nella rivista e nel giornale. Nel libro precipitano saggi e articoli che venivano da lì e che salgono poi a riflessione teorica. E' la solita nottola di Minerva, che spicca il volo al crepuscolo del giorno.

Nei confronti dell'operaismo italiano, nelle sue varie espressioni, c'è oggi in Italia e all'estero, e in condizioni sociali e politiche del tutto diverse, una forte ripresa d'interesse. Guardando indietro, cos'è stato per te l'operaismo?

Tre cose: un romanzo di formazione intellettuale, unepisodio della storia del movimentooperaio, una rivoluzione culturale contro la tradizione marxista ortodossa, italiana e non solo. Ma prima di tutto, l'esperienza di pensiero e di pratica di un gruppo di persone di straordinaria qualità umanae politica, che simuovevano in divergente accordo, cementate da un legame di amicizia indissolubile - quali che siano le strade che ciascuno di noi ha intrapreso in seguito. In una parola, direi che quell'esperienza ci ha lasciato uno «stile» inconfondibile: dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di pensare, fuori dalla norma, in una sorta di «stato d'eccezione intellettuale permanente». Acontattoconla fabbrica e con il modello delle lotte operaie nacque un nuovo tipo di intellettuale, organico non al partito ma alla classe, e un nuovo modo di fare teoria, non di libro in libro ma nel corpo a corpo con la storia, per sovvertire l'ordine delle cose. Una pratica di pensiero politico perturbante, irriducibile a scuole e tradizioni, che tuttavia in seguito hafecondatoanche l'innovazione disciplinare, in filosofia, in sociologia, nella storiografia.

Quali erano i punti di polemica più duri con la tradizione comunista italiana?

Lo storicismo della linea De Sanctis-Labriola- Croce-Gramsci, cemento del gruppo dirigente togliattiano del Pci nel dopoguerra e negli anni Cinquanta. Il nazional-popolare, che Alberto Asor Rosa smontò nel '64 - aveva trent'anni - in Scrittori e popolo. L'analisi del neocapitalismo e del nesso fabbrica-società-politica: mentre l'operaio massa, il taylorismo, il fordismo irrompevano sulla scena, il Pci restava fermo alla diagnosi dell'arretratezza del capitalismo italiano. E ancora, la retorica lavorista, che mandammo all'aria con lo slogan del «rifiuto del lavoro», e la visione salvifica della classe operaia, che nel lessico del Pci doveva sempre farsi «classe generale », agire nell'interesse di tutti, emancipare se stessa per emancipare l'umanità, salvare il paese, la pace, il Terzo Mondo...

Invece «la rude razza pagana», secondo la tua celebre definizione, doveva salvare solo se stessa... Cos'era, la rude razza pagana? E non avete rischiato anche voi di farne unmito salvifico, di riproporre una filosofia della storia con il Soggetto operaio al posto dello Spirito hegeliano?

La rude razza pagana era quella che davanti ai cancelli delle fabbriche ci prendeva dimanoi volantini e ridendo diceva: «Che sono, soldi?». Salario contro profitto, ecco cos'era la classe. Non l'interesse generale, ma un interesse di parte, che smascherava l'universalismo borghese e metteva in crisi il rapporto generale di capitale. «Il salario come variabile indipendente» non era uno slogan economico, era uno slogan politico, come avrebbe dimostrato il '69. Ma ben prima dell'autunno caldo, fin dalle lotte del '62 a Torino si era dispiegata l'inventiva operaia di pratiche antagoniste nella «guerra di posizione» quotidiana contro il padrone: le lotte a gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla linea di montaggio, l'uso insubordinato dei tempi di produzione taylorismi. Imparavamo da lì: al capitale che voleva estendere il modello della fabbrica alla società, noi rispondevamo estendendo ilmodello dell'insubordinazione operaia alla politica.

Stai parlando dei primi anni Sessanta, che da tutta la memorialistica comunista, anche di posizioni diverse dalla tua - penso ai recenti libri di Ingrao e di Rossanda - risultano quelli a cruciali della storia repubblicana. Quegli anni però sono racchiusi fra due date: alle spalle c'è il '56, davanti il '68. Comecollo chi l'esperienza operaista fra quelle due date?

Il '56 fuunadata strategica: la statuadi Stalin rotolò sulle nostre teste, e nelle nostre teste nulla fu più come prima. Le magnifiche sorti e progressive erano finite, il comunismo non ci attendeva piùdal futuro,domandava autocritica del presente. Ma mentre i più, di fronte ai fatti di Budapest, riscoprivano il valore delle libertà borghesi, per noi si schiudeva casomai l'orizzonte della libertà comunista. Trovo intellettualmente e politca mente inutili molte autocritiche a posterioridi oggi: il nodo, duro, da sciogliere era come ricostruire le condizioni della rivoluzione nell'occidente neocapitalistico, spostando in avanti il terreno sia del conflitto operaio, sia dell'organizzazione politica, senza separarli l'uno dall'altra. Personalmente - ma qui parlo perme, perché questo era il punto del contenzioso interno all'operaismo - non ho mai pensato che potessimo organizzare noi gli operai per scagliarli, duri e puri, contro il capitale. In mezzo c'era un passaggio politico chenonsi poteva saltare - anche se essere operaisti ha sempre significato, allora e dopo, saltarlo.

Qual era questo passaggio?

La formazione, dentro l'esperienza di classe, di ungruppodirigente alternativoaquello togliattiano, che sapesse giocare dentro il «disordine» che stava per venire, e che sarebbe esploso nel '68-'69.Lacrisi delPci post-togliattiano,chesarebbeesplosa nell'XI congresso del '66, avrebbe forse potuto incoraggiare la «lunga marcia dentro l'organizzazione » che mi pareva necessaria: il Principe restava la classe, il primato restava alle lotte, ma per tentare di dare loro un esito vincente era necessario lo strumento del partito. Ma questa ipotesi del «dentro e contro» non passò, prevalse quella del «odentro ofuori», cioè fuori: unalogica per il movimento, un'altra per il partito. Con gli esiti perdenti degli anni Settanta, e oltre.

Ma in mezzo c'è stato il Sessantotto, che cambia non poche cose, rispetto al rapporto con il partito e con l'organizzazione...In che rapporto sta l'operaismo con il Sessantotto?

Ti rispondo per me, in un modo che molti dei compagni di allora contesterebbero vibratamente, e tu con loro. L'operaismo è stato una premessa del '68, e al tempo stesso una sua critica anticipata. In Italia il '68 ha ricevuto dal '69 operaio una caratterizzazione diversa e più duratura che altrove, anticapitalistica e nonsolo antiautoritaria. Operai e capitale si trovarono materialmente uno di fronte all'altro: a quel punto bisognava spostare potere,non solo contestare autorità. E' una regolarità storica: se nel terremoto provocato dalle lotte non si apre un processo rivoluzionario guidato e organizzato, che sposta il rapporto di forze, lo sviluppo capitalistico finisce con l'utilizzare le lotte operaie ai propri fini, e l'intero apparato di dominio si ristabilizza democratizzandosi. Esattamente quello che è avvenuto dopo il '68. Alle lotte per la liberazione del secondo '900 èmancata la forza delmovimento operaio organizzato che agì in quelle per l'emancipazione del primo.Grandissima parte della soggettività antagonista degli anni Sessanta si era formata fuori ed era cresciuta contro i partiti e i sindacati, e operava per accelerarne la crisi. Finché nel '77 se ne separa definitivamente.

Perché quella forma di organizzazione non si adattava più a quella spinta di libertà...Ma torniamo a guardare le cose congli occhidi allora. Insomma il punto di contenzioso nell'operaismo era l'organizzazione, il partito, il ruolo del politico.Prendiamo due formule emblematiche, l'editoriale Classe operaia senza alleati di Toni Negri su Classe Operaia del '64 e il tuosaggio Sull'autonomia del politico (Feltrinelli) del '77.

Toni Negri ha contato molto nell'esperienza di Classe operaia. L'analisi e poi la critica dell'operaio fordista-taylorista, maturata nel laboratorio strategico di Porto Marghera, è alla base di tutto il suo percorso di ricerca successivo. E nella teoria del passaggio dall'operaio massa all'operaio sociale, a metàanni 70, c'è tutta la sua intelligenza. Ma «operai senza alleati» era un errore. Il sistemadi alleanze predicato dal Pci - lavoratori dipendenti- ceti medi-Emilia rossa - andava smontato e contestato,mabisognava costruirneunaltro, con le figure professionali nuove che emergevanonel capitalismo sviluppato, con la produzione e ilconsumodimassa, le trasformazioni civili e il salto culturale in atto nel paese; e ridislocare più avanti tutto il terreno della politica, dal conflitto alla rappresentanza. L'operaismo dei primi anni 60 intuì un pezzo essenziale di questa realtà. A rivederla oggi, Classe Operaia risulta più vicina a Quaderni Rossi e più lontana da Potere operaio e da tutto quello che ne derivò fino a Autonomia operaia: le prime due esperienze si sentivano criticamente dentro il movimento operaio, le seconde gli si mettevano contro. Quanto all'autonomia del politico, che molti dei compagni di allora tutt'ora mi rimproverano come una inattesa svolta, io ribadisco che la sua scoperta teorica avvenne per me dentro l'esperienza pratica dell'operaismo, anche se la sua elaborazione fu successiva. E si precisò quando, di fronte al profilarsi della sconfitta, il ruolo e la necessità del politico mi apparvero più chiari. Se quel «salto» nel politico non ci fu, tuttavia, non fu tanto o solo per i limiti di quel nostro esperimento, ma per i limiti dell'epoca: con gli anni Sessanta il tempo della grande politica non si apre, si chiude.

E' una tua tesi nota, da La politica al tramonto in poi. Ma se quel tempo è chiuso e l'operaismo va inscritto in quel tempo, dell'operaismo cosa resta?

Parlo, non a caso, di «stile» operaista: un modo nuovo di essere intellettuali, con un pensiero legato alla pratica. C'èunpadre euna madre: il primoè la grande storia delmovimento operaio, la seconda è la grandecultura della crisi novecentesca. Unasplendida contraddizione, vissuta. L'ho detta così: dare voce alta a quelli che stanno in basso.Un percorso inquieto:masfido chiunque a trovare una sola ombra di cedimento.

Perché l'operaismo incontrò la cultura della crisi, facendone il suo orizzonte culturale?

Perché il soggetto operaio, pur così centrale, a noi apparivacomeun soggetto sociale che risultava dalla crisi della sua forma politica tradizionale. E questo si inscriveva dentro una più generale grande crisi delle forme, che dopo la rottura delle avanguardie d'inizio 900 non si era mai più ricomposta. E' del '69, su Contropiano, il saggio di Cacciari Sulla genesi del pensiero negativo, un orizzonte che non avremmo più abbandonato. E che apre a un passaggio successivo, dalla critica distruttiva dell'ideologia alla ricostituzione di categorie politichecomeconcetti teologici secolarizzati. Bisognametterci la testa per capire come dalla rude razza pagana si arrivi alla teologia politica, ma il nesso c'è ed è forte. E per quanto riguarda me, c'è unfilo di continuità fra Operai e capitale e Politica e destino, l'ultimo mio lavoro che esce in questi stessi giorni presso Sossella.

«Lenin in Inghilterra» e «Marx a Detroit», due titoli rimasti celebri di Operai e capitale. Dove limandiamo adesso Lenin e Marx?Nelle fabbriche di Shangai, fra i co-co-pro italiani, fra gli stranieri-cittadini delle banlieu francesi, nei supermarket della Wal-Mart in Arkansas? Il poscritto del '70 alla seconda edizione di Operai e capitale era tuttoun invito a imparare dalle lotte operaie americane degli anni Trenta,mentre oggi è come se tu avessi girato la telecamera tutta e solo sull'Europa, come Woody Allen...

E' il mondo che sta girando davanti alle telecamere. I tempi stanno cambiando, oggi, più per ragioni oggettive che per volontà soggettive. Tanto queste sono generose e deboli quanto quelle sono arroganti e potenti. Vado dicendo che sta prendendo centralità la geopolitica. Lo spazio politico non è più quello delle piccole nazioni, ma quello dei grandi continenti. La verità è che gli Stati uniti hanno paura di questo mondo che cambia.Noi europei siamoabituati alla decadenza, gli americani no. Non riescono a rassegnarsi: questo spiega la loro nevrosi internazionale. Sì,Marx lomanderei in Cindia. Lenin invece lo vedrei bene alle prese con i problemi di organizzazione politica del lavoratore precario, Non è che sia questa la figura dell'operaio postfordista? E come si porta in un call-center la coscienza politica dall'esterno? E in una banlieu l'idea che bisogna fare sindacato e fare partito? E in un Cpt la pratica non dell'integrazione ma dell'insubordinazione? E' dura. Marx ce la può fare a farci capire ancora. Lenin, a farci ancora agire, èunpo' più indifficoltà.Ma c'è sempre la misteriosa curva della sua retta....



Quarant'anni dopo
L'inchiesta operaia: scienziati in tuta blu
Gabriele Polo
«Operaismo» è una parola dimenticata. E' materia di pochi cultori di storia del movimento operaio. Del resto oggi anche il termine «operaio» viene demandato all'interesse degli addetti ai lavori. Eppure, alle sue origini, l'operaismo italiano rappresentò una benefica iniezione di rinnovamento per la sinistra nostrana.Un po' marginalizzato, è vero, dalle correnti prevalenti del pensiero comunista e socialista, ma talmente vitale da segnare le lotte operaie che a cavallo degli anni '70 cambiarono il volto dell'Italia. Se non altro per questo motivo, rileggere oggi «Operai e capitale» di Tronti rappresenta un esercizio politicamente utile. Ma non solo per questo, perché quel libro - e tutta l'elaborazione che lo permise - può ancora servici a comprendere la crucialità della questione sociale nel rapporto tra capitale e lavoro, che rimane - a quarant'anni di distanza - il nodo cruciale e irrisolto della nostra era. Nonostante le rimozioni. Quel libro ci riporta a uno spartiacque, perlomeno nelmetodo di un'azione politica che si cala nelle contraddizioni sociali. Qualche anno prima della sua pubblicazione, nel 1962, Paolo e Carla Gobetti realizzavano un film avvalendosi dei testi di Franco Fortini: «Scioperi a Torino», questo il titolo. Varrebbe la pena di andarselo a rivedere, magari con il libro di Tronti inmano. Vi si ricostruivano le lotte degli operai torinesi, in particolare alla Lancia. Era una di quelle vertenze che annunciavano cosa sarebbe successo tra il '68 e il '69 nelle fabbriche del nord. In quel film si vede un giovane lavoratore spiegare, carta e penna alla mano, come gli operai stavano «usando» l'organizzazione del lavoro per bloccare la produzione. In quello che poi sarebbe stato chiamato «gruppo omogeneo» - gli addetti a una stessa lavorazione - nasceva il rovesciamento operaio del taylorismo estremo: la rigidità dei tempi produttivi permetteva a conflitti anche parziali di bloccare la fabbrica e dava nuova forza contrattuale alla «classe». Per farlo serviva una spinta soggettiva e la conoscenza concreta del ciclo produttivo: una scienza operaia. Era questa la chiave dell'inchiesta operaia di Raniero Panzieri e dei Quaderni Rossi. Un'inchiesta in cui ricerca, conoscenza e pratica si saldavano strettamente in un conflitto sociale che assumeva un carattere politico generale. Sono passati decenni e il capitalismo è cambiato. Ma poiché non si è attenuata (anzi) l'espropriazione del tempo e della vita del lavoro subordinato quelmetodo rimane un punto di riferimento. Sarebbe bene riprenderlo per capire come contrastare lo sfruttamento capitalistico. A partire dai luoghi della produzione dove esso si manifesta.


Quaderni Rossi
Una rivista dalla vita breve, ma dalla grande influenza
«Quaderni rossi», la prima rivista dell'operaismo italiano, fu promossa nel 1961 da Raniero Panzieri con, fra gli altri, Mario Tronti,Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Vittorio Rieser, Rita Di Leo, Toni Negri, Sergio Bologna, Giairo Daghini, Mauro Gobbini, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Lapo Berti. Ne uscirono sei numeri - l'ultimo dopo la morte prematura di Panzieri, a soli 43 anni, nel '64 - con questi titoli: Lotte operaie nello sviluppo capitalistico; La fabbrica e la società; Piano capitalistico e classe operaia; Produzione, consumi e lotta di classe; Intervento socialista nella lotta operaia; Movimento operaio e autonomia nella lotta di classe. Ma dopo il terzo numero,nel '63 il gruppo originario si divise sulla metodologia della ricerca, sul ruolo della politica e dell'organizzazione. Restarono, fra gli altri, Panzieri, Rieser, Dario e Liliana Lanzardo, Giovanni Mottura, Michele Salvati, Edda Saccomanno. Tronti, Negri, Asor Rosa, Di Leo, Gobbini, Gasparotto, Daghini, Gobbi, Bologna, Greppi (cui in seguito altri si aggiunsero, fra cui Ferruccio Gambino, Franco Piperno, Enzo Grillo, Gaspare de Caro) diedero vita a «Classe operaia», il cui primo numero uscirà nel gennaio del '64 con l'editoriale di Tronti «Lenin in Inghilterra». Di «Classe operaia» uscirono quattordici numeri, un supplemento e un volantone; attorno al giornale nacquero una serie di gruppi operaisti localii, soprattutto in Lombardia, Liguria, Veneto, Piemonte, Toscana e a Roma. Il conflitto interno al gruppo stavolta si scatenò sul problema del partito, dividendo chi voleva dar vita a una nuova organizzazione da chi puntava a formare un gruppo di quadri che desse battaglia nel sinistra storica e nel sindacato. Il gruppo si sciolse nel '66, l'ultimo numero porta la data del marzo '67.



Allora e adesso. Perché l'inchiesta
Dal lavoratore fordista al precariato postfordista, per riconoscere le forme del comando del capitale e le risposte operaie. Ma oggi bisogna riformulare la metodologia e le domande, sul lavoro e sulla vita
Vittorio Rieser
Il lavoro di inchiesta dei Quaderni Rossi nasce come strumento di battaglia politica e «anti-ideologica». Possiamo distinguerne schematicamente due fasi. La prima fase comprende il biennio '60-'61, con inchieste in particolare alla Fiat e alla Olivetti. Stavano riprendendo massicciamente le lotte operaie, ma la Fiat ne restava fuori. Anche per questo restava forte, nella sinistra, l'ideologia che delle forme avanzate del capitalismo sottolineava la capacità di «integrare» la classe operaia. L'alienazione, e il conseguente terreno di lotta, si spostavano altrove dalla fabbrica, sul piano dei consumi e della democrazia. Questa ideologia era il rovesciamento simmetrico di quella, fino allora dominante nelmovimento operaio, sull'arretratezza del capitalismo italiano: se il conflitto di classe in Italia era legato all'arretratezza, l'uscita dall'arretratezza lo avrebbe ridotto o spostato su altri terreni, lontano dai luoghi di produzione. Le inchieste dei Quaderni rossi , al contrario, fornirono elementi essenziali per l'ipotesi che il conflitto di classe si sarebbe sviluppatoanche e soprattutto nelle aree di capitalismo avanzato, con tutte le implicazioni strategiche che quest'ipotesi comportava. Questi elementi furono confermati dalle grandi lotte operaie del'62-63. E questa battaglia non era solo dei Quaderni rossi: era comune a una buona parte della Cgil (in particolare torinese) e a consistentiminoranze del Pci e del Psi. Dopole grandi lotte del 62/63, il problema diventa l'ingabbiamento delle lotte operaie con la loro dirompente carica politica e dello stesso sindacato. Di fronte a questo quadro, c'era la via d'uscita ideologica di «dedurne» che la lotta operaia andava ormai «al di là» delle linee dei partiti e dei sindacati, collocandosi in una prospettiva rivoluzionaria.Questa era, secondo Panzieri e i suoi seguaci, l'impostazione di Tronti e degli altri compagni che diedero vita al gruppo di Classe operaia. A fronte di questo, Panzieri e i compagni rimasti nei Quaderni rossi individuarono nell'inchiesta lo strumento per cogliere elementi di antagonismo reali (non ipostatizzati) e per verificare come si collocavano rispetto alle organizzazioni delmovimento operaio e alle istituzioni. Sta di fatto che questo progetto di inchiesta non fu mai compiutamente realizzato. Tuttavia, per la prima volta i Quaderni rossi formulavanoun discorso sulla funzione strategica dell'inchiesta (e, si noti, senza conoscere le formulazioni di Mao su questo tema, che restano a mio avviso le più complete e attuali). A parte questo, i Quaderni rossi svilupparono, su campi più circoscritti ed empirici, lavori di inchiesta nelle situazioni in cui avevano rapporti operai reali: è il caso della Olivetti (col gruppo «Lotta di classe») e della stessa Fiat (col giornale La voce operaia). L'inchiesta dei Quaderni rossi ruotava su un presupposto teorico derivato anche dalla rilettura e attualizzazione che Panzieri faceva di Marx, inparticolare della quarta sezione del primo libro del Capitale. L'ipotesi era che il comandocapitalistico sul lavoro e gli sviluppi delle forme in cui esso si esercita fossero un tema politicamente, non solo economicamente, centrale nell'elaborazione diuna strategia rivoluzionaria nel capitalismo avanzato. L'inchiestadei Quaderni rossi aveva comeoggetto quello che oggi si chiama (talvolta con un certo disprezzo...) il «lavoratore fordista». Non nella visione riduttiva che lo riduceva all'operaio, tantomeno all' «operaio-massa» - basta pensare all'attenzione con cui Romano Alquati intervistava capi intermedi e impiegati-tecnici. Da allora, la situazione è indubbiamente molto cambiata. Senza pretendere di darne un'analisi complessiva, quali sono gli elementi di novità che presentano implicazioni particolarmente rilevanti dal punto di vista dell'inchiesta? Ci sono mutamenti registrabili e leggibili attraverso i vecchi schemi di inchiesta; altri invece che richiedono domande nuove e una revisione e ridefinizione di quegli schemi. Duemi sembrano da questo punto di vista i mutamenti più rilevanti. In primo luogo, la tendenza a una crescente diffusione-prevalenza della dimensione intellettuale del lavoro (mi riferisco alla dimensione intellettuale «esplicita», quella «implicita» essendo già ricchissima nel lavoro dell'operaio dimestiere). Il che non significa necessariamente lavoro più qualificato; significa che nel lavoro la funzione dell' elaborazione di informazioni risulta sempre più centrale ed esplicita. In secondo luogo, il passaggio da un mercato del lavoro «dualistico» - diviso cioè tra due segmenti, uno qualificato, «forte» e stabile, uno dequalificato, debole e più instabile - a una precarietà nel mercatodel lavoro che investe tutti i livelli di qualificazione, e a una diversificazione nello stesso tipo di rapporto di lavoro. Quali sono le conseguenze rilevanti di questa nuova situazione? Mi limito ad alcuni esempi. La qualificazione, da patrimonio personale costruito attraverso un percorso spesso faticosoma coerente, diviene una «potenzialità» fatta di percorsi di apprendimento e adattamento erratici e eterogenei, che spesso non offrono possibilità di accumulazione di esperienza. La precarietà investe i progetti di vita, spessocon uncapovolgimento rispetto alla situazione del lavoratore fordista. Se questi poteva dire «ho un lavoro di merda, ma una volta uscito dalla fabbrica mi godo il mio tempo e lamia vita», il lavoratore precario qualificato di oggi è facile che dica al contrario «faccio un lavoromica male, ma appena fuori dal lavoro cominciano le angosce su come faccio a metter su casa o famiglia, ecc.». Tuttavia, il nucleo centrale su cui concentrare oggi l'«attenzione di ricerca» sta nei sistemi informativi, cioè nelle reti dei flussi di informazioni in cui, sul lavoro e fuori dal lavoro, il lavoratore è situato. Sul lavoro, è collocato in un tessuto di informazionipiù ricco di prima (anche l'operaio di montaggio deve digitare informazioni su un computer, e dovrebbe recepirne alcune che lo riguardano); ed è importante la proporzione tra la fetta che egli può in qualchemodogestire autonomamente (scegliendo le informazioni e quale uso farne) e la parte «alienata» (si decide «dall'alto » quali informazioni dargli, e queste spesso «prescrivono» anche il suo comportamento conseguente). Fuoridal lavoro, si aprono nuove possibilità di inserimento in reti anche molto ricche ed ampie di informazioni: nuove «possibilità a rete» che sostituiscono il tessuto di relazioni più stabile ma più circoscritto del «lavoratore fordista», aprendo nuove possibilità sia sul terreno professionale sia su quello politico; qui diventa importante capire quanto le informazioni ricevute sul lavoro possono essere utilizzateautonomamentesul terreno del collegamento con altri e dell'organizzazione. Al di là di questi aspetti, c'è una questione di fondo. I percorsi di mobilità nelmercato del lavoro flessibile sono un intreccio tra scelte del lavoratore e imposizioni subìte: quanto pesano rispettivamente i due aspetti nei concreti percorsi di ciascun lavoratore, e dei diversi tipi di lavoratori? (qui il «maschile-neutro» che ho utilizzato per brevità mostra tutti i suoi limiti, perchè le differenze di genere, e non solo in questo caso, sono un elemento decisivo). Chi e perchè preferisce un lavoro stabile anche se di merda, e chi fa una scelta opposta? Ancora una volta,di queste possibili opzioni sidiscute spesso ideologicamente, in termini di «modelli», senza verifica diretta con gli interessati. Un'inchiesta sul lavoro nella fase postfordista deve dunque intrecciare lavoro, mercato del lavoro e condizioni di vita in misura maggioredi prima.Malgrado questi importanti cambiamenti, tuttavia, nella prospettiva dell'inchiesta il temadel comandocapitalistico sul lavoro resta secondomecruciale anche oggi, per varie ragioni. L'area del lavoro «sotto il comando del capitale» si è estesa negli stessi paesi capitalistici avanzati, ma anche e ancor più nel resto del mondo. Le forme di questo comando e le risposte dei lavoratori si sono articolate inmodo nuovo, e l'inchiesta è necessaria per individuarle e comprenderle. Si ripresentano invece derive ideologiche non molto dissimili da quelle contro cui l'inchiesta dei Quaderni rossi aveva a suotempocombattuto.Nonmiriferisco qui tanto a tesi «volgari» come quelle sull'«era post-industriale» o sulla scomparsa della classe operaia. Penso ad altre tesi, diffuse anche nell'ambito della sinistra e dello stesso neo-operaismo, che «deducono » dai propri schemi gli atteggiamenti dei lavoratori, senza «andarli a vedere » attraverso l'inchiesta: si pensi alle diffuse teorizzazioni della flessibilità come scelta sempre più prevalente tra le nuovegenerazioni di lavoratori, e alle relative ipotesi che vedono in varie forme di «flexsecurity» (garanzie formative, redditi di sostegno) l'unica strategia valida nella fase di oggi.Qui, un elemento di possibile verità (c'è effettivamente chi sceglie la flessibilità) viene ipostatizzato e generalizzato arbitrariamente.Mapenso anche a certe teorizzazioni sul «capitalismo cognitivo » che tendono a estendere l'area centrale del conflitto tra capitale e lavoro fino a farne un tutto indistinto. E mi ricordano la teoria di fine anni '50 sull'«alienazione che si sposta nel consumo»: toccavano unaspetto reale, ma, anzichè proporlo comeestensione della tematica di ricerca, lo sostituiva ad altri aspetti altrettanto reali. Come pure si ripresentano tendenze a ipostatizzare come «centrali» certe figure del lavoro: dall'«operaio-massa» degli anni '70 si passa al «lavoratore autonomo di seconda generazione» e alla sua sottospecie di «lavoratore cognitivo precario». Ame pare più chemai attuale una prospettiva di inchiesta che ponga di nuovo al centro il comando capitalistico sul lavoro, cogliendone gli aspetti nuovi ed estendendo l'analisi ad aspetti diversi dal comando diretto. E indaghi i problemi non solo dal lato del capitale ma anche e soprattutto dal lato del lavoro, cogliendo le differenze oggettive e soggettive, ma cercandodi ricondurle ai rapporti sociali fondamentali della società capitalistica. *Scritto in collaborazione con LOAcrobax e Chainworkers




Quarant'anni dopo
L'inchiesta operaia: scienziati in tuta blu
Gabriele Polo
«Operaismo» è una parola dimenticata. E' materia di pochi cultori di storia del movimento operaio. Del resto oggi anche il termine «operaio» viene demandato all'interesse degli addetti ai lavori. Eppure, alle sue origini, l'operaismo italiano rappresentò una benefica iniezione di rinnovamento per la sinistra nostrana.Un po' marginalizzato, è vero, dalle correnti prevalenti del pensiero comunista e socialista, ma talmente vitale da segnare le lotte operaie che a cavallo degli anni '70 cambiarono il volto dell'Italia. Se non altro per questo motivo, rileggere oggi «Operai e capitale» di Tronti rappresenta un esercizio politicamente utile. Ma non solo per questo, perché quel libro - e tutta l'elaborazione che lo permise - può ancora servici a comprendere la crucialità della questione sociale nel rapporto tra capitale e lavoro, che rimane - a quarant'anni di distanza - il nodo cruciale e irrisolto della nostra era. Nonostante le rimozioni. Quel libro ci riporta a uno spartiacque, perlomeno nelmetodo di un'azione politica che si cala nelle contraddizioni sociali. Qualche anno prima della sua pubblicazione, nel 1962, Paolo e Carla Gobetti realizzavano un film avvalendosi dei testi di Franco Fortini: «Scioperi a Torino», questo il titolo. Varrebbe la pena di andarselo a rivedere, magari con il libro di Tronti inmano. Vi si ricostruivano le lotte degli operai torinesi, in particolare alla Lancia. Era una di quelle vertenze che annunciavano cosa sarebbe successo tra il '68 e il '69 nelle fabbriche del nord. In quel film si vede un giovane lavoratore spiegare, carta e penna alla mano, come gli operai stavano «usando» l'organizzazione del lavoro per bloccare la produzione. In quello che poi sarebbe stato chiamato «gruppo omogeneo» - gli addetti a una stessa lavorazione - nasceva il rovesciamento operaio del taylorismo estremo: la rigidità dei tempi produttivi permetteva a conflitti anche parziali di bloccare la fabbrica e dava nuova forza contrattuale alla «classe». Per farlo serviva una spinta soggettiva e la conoscenza concreta del ciclo produttivo: una scienza operaia. Era questa la chiave dell'inchiesta operaia di Raniero Panzieri e dei Quaderni Rossi. Un'inchiesta in cui ricerca, conoscenza e pratica si saldavano strettamente in un conflitto sociale che assumeva un carattere politico generale. Sono passati decenni e il capitalismo è cambiato. Ma poiché non si è attenuata (anzi) l'espropriazione del tempo e della vita del lavoro subordinato quelmetodo rimane un punto di riferimento. Sarebbe bene riprenderlo per capire come contrastare lo sfruttamento capitalistico. A partire dai luoghi della produzione dove esso si manifesta.



Il parricidio contro il lavoro
«Tronti è molti»: molti cammini teorici, molte esperienze di lotta. Dalla duplicità della classe operaia alle differenti figure dell'Altro, dalla fine della dialettica alla fine dell'identità. Non c'è un secondo operaismo, c'è sempre il primo a confronto con la globalizzazione e la nuova soggettività
Toni Negri
Che cosa ha significato perme Operai e capitale? Molte cose, forse tante quanti sono i saggi che questo libro comprende. Questi saggi si presentano secondouna sequenza temporale chenon può essere raccolta in un'esperienza unica di lettura. Tronti è molti, vale a dire una pluralità di singolari scoperte teoriche e di differenti Erlebnisse e decisioni.Homodificato la mia percezione della lotta di classe (quindi quella della realtà storica ed il mio impegno politico in essa) al ritmo della lettura di questi saggi. Ne condividessi o meno le conclusioni, erano comunque dei passaggi essenziali da sottoporre a verifica. Andavo alle porte delle fabbriche, negli anni '60, partecipavo alle riunioni dei comitati operai, scrivevo volantini, discutevo nei seminari universitari, leggevo Il Capitale, confrontando sempre le ipotesi di questi saggi e i differenti eventi politici o le diverse contingenze di pensiero con le quali mi incontravo. Proprio per questa complessità delmio rapporto con questo libro, ai saggi in esso compresi e al loro autore, dovrò semplificare e scegliere di discutere solo di alcuni punti. Per evitare di farne un'esperienza biografica. La prima lettura è stata quella del saggio La fabbrica e la società (1962).Ho imparato (le mie sottolineature sui volumi dei Quaderni Rossi, che tuttora posseggo, lo testimoniano) che «la classe operaia dentro il capitalismo è l'unica contraddizione insolubile del capitalismo stesso: o, meglio, lo diventa, dal momento in cui si auto-organizza come classe rivoluzionaria ». «La macchina dello Stato va spezzata oggi dentro la fabbrica capitalistica ». Che cosa significava questo? Significava che il concetto di capitale era unico e totalitario mentre il concetto di classe operaia era doppio, che, dunque, alla forza lavoro era possibile auto-organizzarsi dentro la fabbrica e fuori dal - contro il - capitale. Del '63 è l'altro saggio che ha spinto avanti la consapevolezza teorica e la pratica politica mia e dei miei compagni: Il piano del capitale. Che cosa avevamo compreso leggendolo? Che - dal punto di vista della critica dell'economia politica - lamacchina dell'accumulazione capitalistica era già spezzata e che «il capitale variabile non poteva rientrare nel processo della produzione capitalistica se non direttamente come classe operaia»; che quindi, dal punto di vista della critica politica, «a questo livello, quando la classe operaia rifiuta politicamente di farsi popolo, non si chiude, si apre la via più diretta per la rivoluzione socialista»; conseguentemente, «la classe operaia diventa l'unica anarchia che il capitalismo non riesce socialmente ad organizzare »; e allora muoviamoci con forza, sapendo che «niente verrà fatto senza odio di classe: né elaborazionedella teoria né organizzazione pratica » (vi siete mai imbattuti inun più potente atto d'amore? Avete mai sorpreso una più insidiosa cupiditas?). Terza occasione di ripensamento, 1965: Marx, forza lavoro, classe operaia. Qui, innanzitutto, la socializzazione del processo capitalistico di produzione di comando, e del lavoro stesso, è data come realizzata. E' sul terreno sociale complessivo, investito dal piano del capitale, che la forza lavoro propone il suo contropiano. Su questa base il lavoro si presenta socialmente come non-capitale, e la duplice natura della classe operaia rivela, nel capitale, contro il capitale, una divisione che è già contrapposizione. «Il Doppelcharakter del lavoro rappresentato nelle merci si scopre così come natura duplice della classe operaia, duplice ed insieme divisa, divisa ed insieme contrapposta, contrapposta ed insieme in lotta con se stessa». Lotta contro il lavoro: sarà qui opportuno chiedersi se «per questa via, nei confronti diMarx, il punto di vista operaio non arriverà al parricidio». Conclusione sommaria ma per molti (per tutti quelli che si richiamarono al «primo» operaismo) definitiva. Con essa si confermano alcuni punti che saranno fondamentali nell'organizzazione delle lotte fra i '60 e i '70 - pur recuperando, in questo ambito, altre verità che, nel dibattito europeo e mondiale dei comunisti fra gli anni '20 e gli anni '60, il pensiero critico aveva già costruito. Sommariamente queste tesi sono: 1) duplicità del concetto di forza lavoro e di classe operaia, di composizione tecnica e di composizione politica, in una relazione aleatoria con il concetto di partito e con la storia dei movimenti sociali; 2) la lotta operaia determina lo sviluppo storico della società intera, nel continuo trasformarsi e modellarsi della sua composizione tecnica edella mobilitazione della sua composizione politica, le strutture del capitale e dello Stato seguono i movimenti delle lotte; 3) materialismo storico contro ogni dialettica e teleologia pur materialiste; 4) il comunismo come programma minimo. Negli anni successivi, ben assimilate queste letture, ebbi occasione d'approfondire l'esperienza in quei movimenti e in quelle lotte che, impetuosamente, si rinnovarono in Europa e nelmondo tanto sul lato capitalista che su quello socialista. Colpendo da un lato le teste dure di coloro che s'identificavano nel «socialismo reale », demistificando dall'altro l'illusione che l'organizzazione rivoluzionaria potesse ancora consistereo formarsi secondo il canone terzinternazionalista. Sempre, in questo periodo, quell'insegnamento di Operai e capitale continuò ad apparirmi fondamentale - quanto più il tessuto dell'esperienza rivoluzionaria si era, con il Sessantotto, allargato e, dopo l'Ottantanove, approfondito. Finalmente il socialismo (come gestione alternativa ma interna e partecipe dell'organizzazione capitalista del lavoro) scompariva dall'orizzonte politico rivoluzionario; il comunismo, di contro, si riproponeva come terreno ed esperienza di lotta autonoma e sociale dei lavoratori contro il lavoro e contro la sua organizzazione da parte del capitale collettivo. E' stato nei decenni successivi ai '60 e '70 che i principi, costruiti nel germinale lavoro trontiano, diventarono nuova organizzazione di discorso e di pratica di lotte. Si trattò di chiosare teoricamente e di applicare politicamente quello che, del trontismo, manmano era divenuto un principio di metodo.Undispositivo che associava alla scoperta del principiomotore del processo capitalistico (la lotta di classe), la capacità di approfondire l'inchiesta militante e, di conseguenza, di approssimare sempre più largamente una teoria ed una pratica di «produzione di soggettività» militante. A partire dalla fine degli anni '70, il pensiero di Operai e capitale divenne unelemento centrale nella discussione europea ed americana (e non solo) poiché esso permetteva di collegare l'inchiesta sociologica sulle trasformazioni dell'organizzazione del lavoro all'analisi politica della crisi sia del ciclo fordista sia della dipendenza terzomondista - quindi alle pratiche teoriche che costituivano nuovi percorsi militanti e nuovi dispositivi organizzativi di lotta anticapitalista. Gli apici di una nuova diffusa lettura furono: 1) la separazione della classe operaia dallo sviluppo del capitale si mostra ora come differenza. Nella struttura di una società sussunta dal capitale, lamoltitudine degli sfruttati è riconosciuta (e si riconosce) come contraddizione insolubile all'interno del capitale sociale e collettivo; 2) sono le lotte della moltitudine che trasformano la realtà storica, che dissolvono le categorie politiche del moderno, che subiscono nel tempo e nello spazio globali la realtà dello sfruttamento e che sviluppano lotta di classe contro di esso. A quella interpretata dalla classe operaia, si sono aggiunte, nella lotta e nella costruzione diun nuovomondo, altre differenze (femminili, coloniali, ecc.), meglio, le differenti emolteplici figure dell'Altro; 3) qui non solo viene meno ogni dialettica e/o teleologiamavienemeno anche ogni possibile identità. E quando l'identità in qualche forma si ripropone, essa è sempre fascista, ovvero uno strumento ideologico del comando capitalistico; 4) qui, infine, il comunismosi configuracomeesodo, non più semplicemente come rifiuto del lavoro ma pienamente come progetto e progressiva costruzione di una società del non-lavoro, come transizione in atto. Qualcuno ha voluto parlare di queste conclusioni teoriche come della formulazione di un «secondo» operaismo. No, non si tratta di una nuova lettura, ma sempre della medesima, trasformata e confrontata tuttavia aduna nuova organizzazione dello sfruttamento e ad un'originale produzione di soggettività rivoluzionaria. Qualora si rivendichi un «primo» operaismo contro un «secondo», si riduce il primo ad una serie di formule del tutto inette a cogliere non solo ipassaggi del postcolonialismo, della globalizzazione, del postsocialismo: inetto soprattutto a comprendere le trasformazioni della forza lavoro qui ed ora. Questa nostra forza lavoro ha, infatti, assorbito la mondializzazione e il desiderio di comunismo, costruendosi in una nuova soggettività. La critica operaista garantisce una continuità di dibattito ed un deposito di conoscenze/ strumenti ancora efficaci. Sorridendo si potrebbe dire che, come nella patristica il cristianesimo fu rinnovato, così in questo secondo operaismo il marxismo è stato nuovamente restituito al suo destino rivoluzionario (e la tentazione del parricidio è stata rimossa). Di nuovo, possiamo qui riconoscere che Tronti è molti - non semplicemente molti cammini teoricimamolte esperienze di lotta comunista. Queste esperienze bisogna riprenderle, ricordando che (come diceva Tronti nell'articolo Classe e partito, 1964, che chiude il periodo creativo della sua politica) «più che sulle ineguaglianze nello sviluppo economico del capitalismo, l'accento vamesso sulle ineguaglianze nello sviluppo politico della classe operaia», cioè sulle differenze nella/della moltitudine - certi, come siamo, «che la catena si spezzerà non dove il capitalismo è più debole, ma dove la classe operaia», cioè la moltitudine, «è più forte».


Tutte le location di un anniversario
L'utopia occidentale di «Operai e capitale» alla prova del presente, fra università affollate, call center, fabbriche cinesi, co-co-co che spediscono curricula, biologhe russe che fanno le badanti
Sergio Bologna
Dove lo festeggiamo questo anniversario? In qualche aula universitaria stipata di reduci, baroni,mutilati, vedove, traditori, rincoglioniti, dottorandi? Oppure in qualche spazioso edificio industriale dismesso, ristrutturato con arte da architetti di grido, oggi show room di griffe nostrane, per l'occasione prestato allo sponsor, lieto di officiare l'ennesimo funerale della classe operaia? Preferirei altre location. Inun call center, per esempio, là dove è richiesta ormai la laurea in lettere (o in scienze della comunicazione) per avere un posto. Oppure a Shanghai, dove di domenica Ronzolon di fu Giuseppe da Montebelluna addestra cinesi alle macchine utensili italiane. Oppure a Milano, dove l'ex co.co.co. spara curricula a tutto spiano dalla sua mansarda, sperando in un colloquio dove gli diranno «Ha passato i quaranta? Ma che cazzo pretende?».Oppure alla Granetti& Figli, arredi per esterni, dove il socio di private equity ha pronto un piano di ristrutturazione che caccia sì un po' di gente ma porta l'ebit a 2,7. Oppure in un normalissimo appartamento middle class, dove una biologa russa rifà i letti, lava i pavimenti ma spunta pur sempre una paga oraria migliore dei figli del padrone di casa, uno praticante presso un avvocato di grido e l'altra freelance per riviste di moda. Ricorderei questo anniversario in mezzo al lavoro dei giovani d'oggi. Conil rischio, certamente, di far apparire il linguaggio di Operai e capitale un idioma incomprensibile, ma sempremeglio correre questo rischio, sottoponendo il testo alla prova del presente, piuttosto che vederlo imbalsamato in una teca portareliquie. Fu la prima grande novità che Operai e capitale introdusse nella cultura degli anni Sessanta: dimostrare che era ancora possibile costruire un pensiero. Là dove imperavano schemi ideologici, retaggio delle dispute dell'Internazionale, Tronti rimetteva in gioco il coraggio del pensiero fondatore; là dove si cucinavano glosse alle scritture di Marx, Tronti recuperava il senso di una reinterpretazione che diventava sistema. Un sistema chiuso, coerente, costrittivo, assertorio, esposto con un pizzico di enfasi messianica, che rompeva il tran tran del dibattito quotidiano, del chiacchiericcio, spezzava gli indugi dell'empiria. Tronti ridiede cittadinanza ai visionari, a chi aveva bisogno in quel momento di un'utopia occidentale, soggiogati come erano tutti dalle narrazioni rivoluzionarie che venivano dal Maghreb, dall'Asia, dall'America Latina. E proprio perché si trattava di un sistema di pensiero, infondeva certezze a quelli in cui la crisi del comunismo, iniziata con la rivolta operaia di Berlino e poi con la rivolta ungherese del '56, provocava sconcerto e smarrimento. Il punto critico, si è detto, stava nel rapporto tra astrazione e ricerca empirica. Operai e capitale non nasce dal cervello di un intellettuale singolo ma dalla passione di chi voleva capire che razza di cambiamento era avvenuto in quello specifico mondo del lavoro che è la grande fabbrica; nasce dalla voglia d'interrogarsi e di comunicare di centinaia di operai, nasce dall'impazienza di militanti di base del Pci, del Psi, della Cgil, di anarchici, trotskysti, internazionalisti, cioè di un personale politico preesistente, stufo di essere congelato, ibernato dall'agonia del comunismo, di cui allora si vedevano i primi sintomi e che ancora, maledizione, dopo quarant'anni appesta l'aria. Mario Tronti diedeuno strumento teorico a una parte di questo personale politico, riuscì a trovare una sintesi alle migliaia di spunti che l'esperienza di ogni giorno, il contatto conuna classe operaia che si stava risvegliando, consentiva di trasmettere. Panzieri lo aveva portato ai Quaderni Rossi,Negri lo spingerà in Classe Operaia, ma nel 1966, quando il libro uscì, lui stava già tornando al capezzale del comunismo per provare un nuovo tipo di flebo. Il rapporto con la ricerca di base, con l'approccio «sociologico», era complesso enon a caso produsse lacerazioni. Nonperché gli uni erano «concreti » o «realisti» e gli altri erano «astratti». Ma perché c'erano da smaltire cinquant'anni di uno schema mentale che così recitava: prima viene il capitale, procura lemacchine, recluta la manodopera, poi si consolida la struttura e la mano d'opera diventa forza lavoro, poi l'azione del partito e del sindacato la farà diventare classe operaia, soggetto politico ed economico insieme. Operai e capitale, Bibbia di quello che verrà chiamato l'«operaismo italiano», rovescia la sequenza: prima viene la classe operaia come soggetto politico antagonista (bisogna «pensarla» così), poi viene tutto il resto, piano del capitale, anarchiamonetaria, ordine politico e via dicendo. Pertanto l'operaismo italiano, amio avviso, rompe con la tradizione comunista, è il primomovimento postcomunista. Purtroppo molti dei suoi protagonisti si misero in testa invece di essere loro i «veri» comunisti. In qualche superstite è rimasta l'antica voglia di capire perché il lavoro, invece di seguire la profezia operaista che lo vedeva unificarsi in un blocco sociale temibile, si è andato disgregando e atomizzando (secondo l'ultimo rapporto annuale Istat, il 46,6% degli italiani lavora in cosiddette «microimprese » che altro non sono, a volerle chiamarecon il loro veronome, che lavoratori autonomi con qualche dipendente, dato che la loro dimensione media è di 2,7 addetti). Quei superstiti hanno lavorato per circa trent'anni, brancolando in un buio teorico, per capire dove stava andando il lavoro. Non dovettero cercare lontano, seguirono semplicemente le vicende umane degli operai coinvolti nelle lotte dell'autunno caldo e degli anni successivi, poi quelle dei loro o dei propri figli. Dopo trent'anni di lavoro un quadro del cosiddetto «postfordismo» erano in grado di offrirlo, le loro analisi coincidevano perfettamente con le ricerche di mezzo mondo, le migliori di mano femminile. Poteva essere una base per costruire politiche del lavoro in grado di ristabilire alcuni squilibri che ormai fanno orrore anche ai liberali onesti. E invece si trovano di nuovo messi al bando, i loro trent'anni di lavoro azzerati da un governo che doveva essere amico, con alcuni che pensano di riprodurre forza lavoro per decreto amministrativo (nella tradizione comunista c'era anche chi lo faceva deportando), altri che sfoderano un grottesco «neo operaismo» rimettendo al centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato (quasi fosse un pallone da rimettere al centro dopo il gol), altri ancora che pensano di combattere il lavoro atipico peggiorando le condizioni di chi è costretto ad esercitarlo. Sono tutti in qualche modo figli della tradizione comunista. E proprio per questo è così bello, gratificante, essere stati «operaisti», estranei a quella tradizione. Amio parere, Operai e capitale è ancora untesto chemal si concilia con la sinistra italiana, non solo di oggi ma anche di ieri. Furono emessi nei suoi confronti giudizi sprezzanti: è un testo di lirica (Tronti novello Petrarca e la classe operaia nelle vesti di Laura). Fu vituperato come apologia del capitale, per la tesi che «le lotte operaie producono sviluppo capitalistico». Ma non andò così lontano dal vero, se guardiamo per esempio alla vicenda Fiat. Scossa dal 1969 al 1980 da una conflittualità permanente, assediata da attentati e gambizzazioni, la Fiat ne esce più fortediprima, con unlivello tecnologico che non ha pari nelmondo. Dal 1980 al 2002 gode di una pace sociale assoluta, esercita un potere incontrastato nella società, e ne esce sull'orlo del fallimento. Sottoposto alla prova del presente, Operai e capitale ha ancora qualcosa da insegnare.



Il paradosso del laboratorio italiano
Una teoria della rivoluzione che nasce in Italia dalle lotte degli anni Cinquanta e Sessanta e non poteva nascere altrove. Ma penetra nel mondo anglofono quando «l'esperimento italiano» è chiuso, grazie alla sua capacità di leggere il postfordismo nascente
Brett Neilson
Sarà un caso che il Lenin di Tronti abbia soggiornato non in Italia ma in Inghilterra, e il suo Marx a Detroit? Scrivere della recezione di Operai e capitale in quello che in Italia si insiste ancora nel definire come «mondo anglosassone » è difficile.Una delle ragioni sta nel fatto che il libro di Tronti non è mai stato interamente tradotto in quella lingua, l'inglese appunto, che è usata da tempo a livello mondiale più come seconda che comemadre lingua, il cosiddetto global English, l'equivalente generale di tutte le lingue. Perfino oggi in inglese si trovano solo quattro capitoli di Operai e capitale, più il «Poscritto dei problemi » dell'edizione del 1970; e tutti e cinque sono disponibili su Internet. Ed è proprio dall'elenco dei capitoli tradotti (e quando e da chi) che propongo di partire, non tanto per puntiglio filologicomaper offrire una guida all'impatto del primo Tronti nell' Englishspeaking world. Prima però è opportuno considerare un paradosso di partenza, che influenza non solo la traduzione ma la stessa scrittura di questi saggi.Da un lato, i concetti e la metodologia di Operai e capitale sono il frutto delle lotte operaie che si sono dispiegate in Italia negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Il libro si situa inuncontesto reale, cheTronti chiama la fabbrica, e che non fornisce tanto la base di una teoria quanto le coordinate di una pratica: un nuovo modo di praticare la politica o meglio un nuovo «stile» politico. L'operaismo è nato in quella provincia che si chiama Italia e questa nascita non poteva avere luogo altrove. Dall'altro lato, se si legge Operai e capitale è chiaro che l'analisidiTronti si basa su una realtà che esiste al di là del «caso italiano», cioè sull'unità del movimento della classe operaia a livello mondiale. In Lenin inInghilterra si legge infatti: «La forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sulpiano internazionale e constringe il capitale - entro unlungoperiodo storico - a rendersi altrettanto omogeneo». E' questa cosiddetta omogeneità non della classe operaia ma della forza-lavoro (che,merita di ricordare, per Marx è non solo una merce circolante al pari delle altre, maanche una categoria astratta della potenzialità) che fornisce il luogo comunea partire dal quale sipuò capire la diffusione del pensiero operaista attraverso contesti linguistici e culturali diversi. Si tratta insomma di qualcosa di più di quello che Ed- Edward Said ha chiamato «travelling theory». La forza-lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze geografico/ culturali si toccano e deflagrano. E si badi bene: la posta in gioco è ben altro che l'analisi dell'impatto della lotta operaianei suoi vari contesti storico/ geografici - un approccio che di fatto offrirebbe una critica solo parziale del capitalismo. È in questa ottica che ha senso interrogarsi sul contesto in cui alcuni capitoli di Operai e capitale sono stati tradotti in Inghilterra e negli Stati uniti negli anni Settanta, e cioè dopo quel Sessantotto che per Tronti sarebbe stato lo spartiacque che dell'operaismo annuncia la fine. Le prime traduzioni sono apparse negli Stati uniti nel biennio '72-'73, al tempo cioè della crisi petrolifera, della fine della guerra in Vietnam e soprattutto, secondo autori come Frederic Jameson o David Harvey, dei primi passi del capitalismo postfordista. È del '72 la traduzione sul giornale RadicalAmerica di una parte del capitolo di Operai e capitale intitolato Marx, forza lavoro, classe operaia, al fianco di un pezzo intitolato Theses on theMassWorker and Social Capital, scritto da Silvia Federici e Mario Montano sotto lo pseudonimo di Guido Baudi. Lo stesso anno la rivista newyorkese Telos tradusse il Poscritto di problemi con una introduzione di Paul Piccone. Seguì poi nel '73 la traduzione su Telos di Social Capital, pubblicato conil titolo originale Il piano del capitale. Nel frattempo Ed Emery e John Merrington del Red Notes Collective in Inghilterra tradussero vari scritti operaisti, fra cui Lenin in Inghilterra e La strategia del rifiuto che, prima apparsi come opuscoli, sarebbero usciti nel '79 in un volume intitolato Working Class Autonomy and the Crisis. Questo elenco non solo esaurisce ciò che di Operai e capitale è stato tradotto in inglesema anche ciò che è stato tradotto dell'intera opus trontiana (sembra che Telos comprò i diritti di traduzione di Tronti daEinaudi, ma l'intenzione di procedere sparì dopo la morte di uneditore importante). Vale la pena di sottolineare che se da unlato è forse possibile cogliere l'argomento del libro nella sua interezza e complessità mettendo insieme i frammenti pubblicati in circostanze così diverse, tale ricostruzione diventa lo sforzo di pochi militanti. Le traduzioni di Tronti sono sempre state pubblicate al fianco di altri pezzi delmarxismo internazionale o operaismo italiano: Georg Luckács e Sergio Bologna in Telos, Toni Negri e lo stesso Bologna in Red Notes, e poi Bifo, Paolo Virno e altri nell'importante antologia intitolato Italy: Autonomia- Post Political Politics del '79 curato da Sylvère Lotringer e Christian Marazzi. Il punto è che non si è mai dato spazio ad una lettura sistematica di Tronti in inglese. Il Tronti dell' English-speaking world è parte di un mix selettivo dell' operaismo e di conseguenza i suoi conflitti e disaccordi con tanti dei suoi compagninon sempre sono stati evidenziati. E questo nonostante il fatto che il Poscritto del '71 (pubblicato non solo da Telos ma anche in un volume britannico intitolato The Labour Process and Class Strategies del '76) sia stato concepito dall'autore come una risposta al Sessantotto, e constituisse un salto verso la sua tesi sull'autonomia del politico. Di fatto, anche nelle trattazioni dell'operaismo pubblicate da figure in grado di leggere le opere italiane in lingua originale, come Harry Cleaver negli Stati Uniti e Steve Wright in Australia, il leninismo di Tronti è forse risultato meno evidente ai lettori anglofoni che ai lettori italiani. Ci sono due possibili spiegazioni di questa recezione che enfatizzava il rifiuto del lavoro e il primato della lotta operaia sul capitale piuttosto che l'organizzazione partitica: da un lato il fatto che le traduzioni vengono pubblicato dopo l'esperienza del Sessantotto, dall'altro la diffusione del postfordismo, ben più rapida nei paesi avanzati del mondo anglofono che in Italia. Non che in Operai e capitale non fosse evidente lo scarto tra la strategia di rifiuto e la richiesta del potere del partito. È infatti proprio questa distanza a spingere Tronti ad argomentare che il marxismo non ha mai avuto una teoria adeguata dello Stato, e perciò a indurlo a immettere nella sua analisi Carl Schmitt, definito da JacobTaubes come«l'unico antileninista di rilievo».Da qui si dispiegano anche i discorsi sulla «rude razza pagana» e la lucidità con cui Tronti scrive della sconfitta delmovimento operaio dopo l'89.Non c'è dubbio che questa sua grande negatività produca una capacità d'analisi estremamente incisiva e fornisca una fonte di ispirazione per quanti non si lasciano ancor aconvincere dall'ugualmente forte spinozismo rivoluzionario di Impero di Michael Hardt e Toni Negri. Infatti è la ricerca diuna tradizione dell'operaismo alternativa a quest'ultimo che di recente ha spinto alcuni giovani pensatori di lingua inglese a rileggere ilprimo Tronti (vedi il 'blogweave' organizzato da Angela Mitropoulos: http://www.longs u n d a y . n e t / l o n g _ s u n - day/2006/03/tronti_blogweav.html). Tuttavia io ritengo che sia un errore leggere Tronti contro Negri. Più urgenti sono il tentativo di capire come il capitalismo sia cambiato grazie alla lotta operaia, e la sfidadi creare nuove forme di organizzazione con cui combatterlo. La domanda non è dove soggiornerebbero il Lenin e Marx di Tronti oggi (inCina o a Bangalore?,)mache farenelle condizioni attuali di diffusa precarietà in cui il partito, il movimento operaio, la fabbrica e la strada non sono più l'architettura principale della communicazione e dell'organizzazione. Si tratta non solo dell'emergere della produzione in rete ma anche dei cambiamenti importanti nel modo in cui la politica viene organizzata. Lo spazio della politica non è più un laboratorio in cui si sperimenta (e dove la «normalità» della politica moderna gioca un ruolo di neutralità sul cui sfondo si possono controllare gli esiti dell'esperimento),ma ungroviglio complesso in cui la posta in gioco è dare forma politica a diffuse esperienze spesso contingenti e contradditorie. È un caso che l'Italia degli operaisti sia sempre stata concepita come laboratorio?Credo che questa metafora andrebbe archiviata. L'esperienza politica nell'era del postfordismo che stava emergendo quando il primoTronti fu tradotto in inglese, non è un esperimento ma un complesso di relazioni, mediazioni e affetti tramite cui l'ontologia della politica si rende evidente solo fenomenologicamente. Al tempo stesso, l'ultimo Tronti - una voce che si leva dalla modernità per criticare duramente i tentativi postmoderni di «organizzare gli inorganizzabili» - non è uno spettro derridiano. È una voce inattuale che vale la pena di ascoltare attualmente, non per entrare nellamelanconia di una sinistra che non sa come elaborare il lutto di ciò che è stata,maper spingere l'organizzazione politica contro il suo zoccolo più duro, per rendersi conto che la sola azione politica su cui valga la pena di riflettere oggi è quella concepita non con la convinzione che Tronti ha ragione ma con la forza di agire come se avesse ragione.








A Berlino via Melbourne
Catrin Dingler
Una prima raccolta di scritti dai Quaderni Rossi è stata pubblicata in Germania all'inizio degli anni settanta, presto seguita da pubblicazioni monografiche. Operai e capitale di Mario Tronti viene tradotto per la prima volta nel 1974. Queste edizioni si trovano oggi soltanto nelle biblioteche o con un po' di fortuna nelle librerie dell'usato. Una lunga serie di articoli e piccoli indagini apparsi negli stessi anni su riviste e giornali - a loro volta oggi quasi introvabili - testimoniano come la conricerca proposta da Romano Alquati abbia stimolato diversi gruppi locali ad analizzare le lotte operaie nelle fabbriche diMonaco o Cologna. E proprio nei piccoli gruppi è stato conservato l'interesse per l'operaismo. Già alla fine degli anni Ottanta l'opera di Tronti viene tradotta di nuovo e ripubblicata. Ametà degli anni novanta seguono altre pubblicazioni sugli anni sessanta e settanta inItalia, la più importante è senz'altro L'orda d'oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni, tutt'ora in libreria, che riproduce il famoso testo di Tronti Lenin in Inghilterra. Nello stesso periodo Karl Heinz Roth, nel suo libro sul «ritorno della dimensione proletaria» (...) cerca di interpretare il suo tempo alla luce dei testi italiani di allora, mentre la rivista «Wildcat» ricostruisce inunlungo articolo le origini storiche della conricerca. Mail tentativodi Roth nonriesce e il numero in cui «Wildcat» auspica un «rinascimento dell'operaismo» sarà l'ultimo di quella serie della rivista. Solo a partire dall'enorme popolarità di Impero rinasce un nuovo interesse per l'operaismo. Il libro di Michael Hardt e Antonio Negri viene accolto con entusiasmo dal movimento che si aggrega dopo Seattle e intorno alG8 di Genova. Molto più critici sono, invece, i «vecchi operaisti » tedeschi. «Wildcat» ricomincia a uscire nel 2003, aggiungendo all'articolo sul «rinascimento dell'operaismo» un poscritto in cui gli autori prendono le distanze dall' «avventato grido di trionfo» con cui Negri e Hardt annunciano il nuovosoggetto della «moltitudine». Contemporaneamente comincia a circolare il libro dell'australiano Steve Wright Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism (Pluto Press, Londra 2002). Il libro, nato da una tesi di dottorato, è la prima ampia ricostruzione storica della teoria e della pratica dell'operaismo: Sergio Bologna lo recensisce nel saggio L'operaismo come oggetto della ricerca storica, apparso sulla rivista «Sozial.Geschichte ». L'entusiasmo è tale che tre anni dopo ne usciràuna edizione tedesca. (AssoziationA,Berlino 2005). L'interesse recente per l'operaismo e in particolare per gli scritti di Tronti è segnato dalla lettura di questo libro. Di conseguenza la discussione tedesca ruota attorno ai concetti messi più in rilievo da Wright, cioè la «composizione di classe» e le forme variabili della sua lotta. Incoraggiata dalle lunghe citazioni di Wright ricomincia la ricerca degli testi originali italiani. Tanti singoli documenti, nonché due capitoli di Operai e capitale, si trovano oggi raccolti in tedesco in un dossier sull'operaismo, disponibile sul sito di «Wildcat». Ma per quanto riguarda la recezione di Tronti, la fase successiva della sua ricerca sul Politico segna uno spartiacque: da allora i suoi scritti sono sconosciuti e perfino estranei alla discussione tedesca. La ricerca dei primissimi scritti dell'operaismo italiano continua, ma la loro discussione è filtrata da studi contemporanei di origine anglo- americana, ad esempio quello di Beverly J. Silver, Forces of Labor (Assoziation A, Berlin 2006), e non passa attraverso la «grammatica della moltitudine» di Negri. Una recentissima monografia che traccia il percorso storico «dall'autonomia operaia alla moltitudine» non per caso è stata intitolata (Post-)operaismo (Schmetterling, Stoccarda 2006).


Operaismo
Due incontri a Londra e Barcellona
Si intitola ««Nuove direzioni della teoria marxista» la Conferenza organizzata dalla rivista «Historical Materialism» dall'8 al 10 dicembre a Londra, in cui Mario Tronti discuterà di «L'operaismo e il politico» con M. Tomba, R. Bellofiore, P. Thomas, A. Callinicos. A Barcellona invece, dall'11 al 13 dicembre, il seminario del Macba su «Capitalismo, forza lavoro, politica, movimenti antisistemici» prevede due sessioni, una con Mario Tronti e Giovanni Arrighi su «Capitalismo, egemonia sociale, politica», l'altra con Sergio Bologna e Beverly J. Silver su «Forza lavoro e paradigmi produttivi del capitalismo contemporaneo»



Da Tronti a Tronti
In libreria «Politica e destino»
Pressoché in contemporanea con la riedizione di «Operai e capitale» arriva in questi giorni in libreria, edito da Sossella, «Politica e destino», un volume che raccoglie il testo (omonimo) della lectio magistralis con cui Tronti si è congedato dall'insegnamento di filosofia a Siena e una serie di commenti a tutto l'arco del suo lavoro, dall'operaismo degli anni Sessanta a «La politica al tramonto» del 1998. Tutt'altro che una Festschrift accademica, il libro è una dedica d'amicizia da parte di quanti e quante hanno voluto riattraversare la relazione politica e intellettuale intrattenuta con lu

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