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JENIN
by vauro Thursday, Feb. 20, 2003 at 10:39 PM mail:

Nel campo profughi 14mila persone vivono isolate e nel terrore di nuove rappresaglie

REPORTAGE
Ground zero, tra le macerie di Jenin
Nel campo profughi 14mila persone vivono isolate e nel terrore di nuove rappresaglie
VAURO
INVIATO A JENIN
"Baka Shakir, mazzo di fiori, è il nome della cittadina palestinese tagliata in due dalla linea di demarcazione oltre la quale iniziano i territori occupati, così c'è un mazzo di fiori ovest e un mazzo di fiori est. Non è certo profumo di fiori quello che emana dai tubi di scappamento dei camion e delle auto bloccate in una lunga coda in attesa di oltrepassare il check point dell'esercito israeliano per entrare nell'area di Jenin. Avvicinandosi al posto di blocco le costruzioni, basse e piatte, delle case ai lati della strada scemano sostituite da vecchi containers divenuti botteghe di un misero bazar, fino a scomparire in una distesa di lamiere contorte, ciò che resta di quello che era un mercato ortofrutticolo distrutto mesi fa dai bulldozer dell'esercito di Israele. Una grigia torretta di guardia protetta da sacchetti di sabbia si erge sui blocchi di cemento posti sull'asfalto a bloccare l'accesso, insieme ai mitra puntati dei soldati, ma oggi si può passare e dopo una occhiata ai documenti, i militari ci fanno cenno di proseguire, facendo lo slalom tra i blocchi di cemento. Dopo poche centinaia di metri, di nuovo uomini armati, proteggono il lavoro dei bulldozer impegnati a preparare il terreno alla costruzione del muro di paura e cemento che Israele sta costruendo per imprigionare, insieme ai palestinesi, se stesso. Lo stretto nastro di asfalto che conduce verso Jenin si dipana tra colline costellate dall'argento degli ulivi e dal bianco delle case di piccoli villaggi. E' l'apparizione invadente ed improvvisa di due enormi carri armati che dai campi si immettono, con fragore di motore e cingoli, sulla strada a rompere brutalmente la dolcezza del paesaggio.

Non sono molti i chilometri che ci separano da Jenin, ma sotto l'occupazione le distanze sono variabili. L'esercito chiude regolarmente con pezzi di roccia le strade che collegano i centri palestinesi e i palestinesi, appena possono, regolarmente li rimuovono. Così dobbiamo chiedere quanto dista oggi Jenin: i pochi minuti di auto sulla strada principale o ore sulle vie traverse? La città appare declinante sulla collina fino a fondersi nel grande campo profughi che ne è l'appendice, sprofondato nella valle occupa un'area di circa 10 chilometri quadrati. Nel marzo-aprile scorso 450 carri armati israeliani hanno attaccato, occupato ed isolato il campo dal mondo per 11 giorni. Oggi tutto il campo sembra avvolto da una nebbia che dà contorni incerti alle case, è nebbia fatta di polvere, della polvere che il vento leggero alza dai cumuli di macerie, conseguenza di quegli 11 giorni terribili. Le pareti delle case ancora in piedi sono butterate di fori di proiettili, in alcune si apre lo squarcio quasi perfettamente circolare provocato dall'ingresso del colpo di carro armato che esplodendo ne ha sventrato gli interni. Tra un gruppo di abitazioni e l'altro si aprono improvvise spianate di calcinacci e terra battuta a marcare di più il vuoto delle case completamente distrutte. Di quello che era il centro del campo non resta che un vasto spazio vuoto colmato soltanto da mattoni polverizzati e terra pressata dai bulldozer a cancellarne financo l'immagine di distruzione per sostituirla con quella dell'annullamento totale. Un posto che gli abitanti del campo hanno ribattezzato ground zero.

Sono 478 le abitazioni completamente distrutte nel campo e nessuna è stata risparmiata dal danneggiamento. Eppure qua e là si possono scorgere timidi segnali di ricostruzione: «Quello che è molto difficile da ricostruire è la psiche dei bambini traumatizzati da quei giorni di paura e morte - ci dice Abd al Razeq, coordinatore di un centro di riabilitazione motoria - prima non si vedevano bambini giocare al kamikaze con la fascia intorno alla testa e l'arma giocattolo in mano, adesso purtroppo è uno dei giochi più frequenti tra di loro. Non sarà facile estirpare il senso della violenza dal loro animo». Eccole lì, le foto dei «martiri» combattenti o suicidi, sorridere, in pose marziali, mitra alla mano, da piccoli manifesti un po' sbiaditi, attaccati su cancelli arrugginiti o muri sbreccati. Uno solo, diverso dagli altri, non sfoggia armi ma ha tra le braccia un neonato, probabilmente suo figlio, quasi ad affermare una volontà di futuro a prescindere dalla sua scelta di morte. «La vita nel campo non è mai stata facile - racconta un anziano - ma quegli 11 giorni di occupazione hanno lasciato ferite insanabili». Racconta di come i soldati siano entrati rastrellando le persone casa per casa per usarle come scudi umani a proteggere l'avanzata dei tanks nel campo, delle abitazioni fatte esplodere o abbattute a volte con le famiglie ancora dentro. «Lì sotto - dice indicando un punto nella spianata di terra pressata - devono esserci almeno cinque corpi fatti sparire dai bulldozer insieme alle macerie della loro casa. Altri corpi giacevano nella strada, anche per intere giornate, nessuno poteva raccoglierli perché i soldati sparavano a qualsiasi cosa si muovesse».
Una piccola folla si accalca ed ognuno ha da raccontare il suo piccolo pezzo di orrore, come se il fatto di portarlo a conoscenza di altri fuori dal campo potesse in qualche maniera rompere l'isolamento nel quale ancora la gente di Jenin è costretta a vivere, con l'angoscia costante che quei fatti si ripetano, tenuta viva dalle frequenti incursioni dei carri armati nel campo e nella città. Nel campo vivono 14mila persone di cui circa 5mila sono bambini al di sotto dei 16 anni. Il prezzo che il campo di Jenin ha pagato alla seconda Intifada è di 114 morti, dei quali 62 negli undici giorni dell'occupazione di marzo-aprile. «Pensavamo fossero molti di più - mi dice Omar, il farmacista - perché non avevamo mai subito un attacco di tali proporzioni e violenza, era difficile fare un bilancio, eravamo costretti nelle case, senza luce, acqua, telefono, alla mercé delle incursioni dei soldati che passavano di abitazione in abitazione sfondando le pareti interne delle case. L'unico modo che avevamo per avere notizie di quello che ci stava accadendo intorno era qualche radio a transistor, le stesse fonti dell'esercito israeliano parlavano di 250 morti. Poi ci sono voluti mesi per accertarne il numero, tra chi era ucciso o arrestato e quelli di cui i bulldozer intervenuti con i tank a spianare le macerie, avevano fatto sparire per sempre il cadavere». Come Omar il farmacista anche il mondo in quei giorni ha pensato che le vittime fossero di più, prima di girarsi dall'altra parte e dimenticare. Chissà quante vite annullate servono per definire un massacro e non rimuoverlo dalla coscienza. Certo non potranno dimenticarlo gli abitanti del campo di Jenin e non basterà il profumo del caffè aromatizzato con il cardamomo che ci offrono a sciogliere il sapore acre della polvere delle macerie che satura l'aria che respirano."











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