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http://italy.indymedia.org/news/2003/06/304071.php Invia anche i commenti.

COSI' PARLO' UN SEMITA
by lettore Monday, Jun. 09, 2003 at 10:10 AM mail:

Vediamo ora se anche in questo caso si dà dell'antisemita a Chomsky

Noam Chomsky
La colonizzazione del Medio Oriente:
le sue origini e il suo profilo
fonte: http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/

"Si fa quello che diciamo noi"
Ben più di un anno è trascorso dall'accordo tra Israele e Arafat del settembre del 1993, suggellato dalla Dichiarazione dei principi (Ddp). I firmatari hanno ricevuto i loro premi Nobel per la pace. Il significato sostanziale di ciò che hanno firmato si è fatto più chiaro nel tempo, man mano che le ambiguità si andavano diradando. E un buon momento per riflettere sull'accaduto e sul perché, e per chiederci quale sarà il probabile esito del "processo di pace".

Presi alla lettera, i termini della Ddp aderiscono strettamente alle posizioni che Stati Uniti e Israele hanno sostenuto costantemente e, per oltre vent'anni, in isolamento praticamente totale. Gli Stati Uniti e i loro protetti-alleati che dominano la regione, interpretano i termini rigorosamente alla lettera, come mostrano successivi sviluppi – e la cosa non sorprende più di tanto se si considera che sono stati loro a fabbricare ad arte e imporre questi termini. Questa posizione si colloca all'interno di una più ampia concezione statunitense riguardo al modo in cui la regione andrebbe organizzata, concezione che risale alla seconda guerra mondiale. Pur avendo mantenuti fermi a lungo i propri principi, è stato solo in anni recenti che Washington ha potuto metterli effettivamente in pratica. Mi sembra questa la sostanza dell'attuale "processo di pace".

La stessa espressione "processo di pace" è un orwellismo standard, impiegato acriticamente negli Stati Uniti e adottato in buona parte del mondo, data l'enorme influenza e potenza degli Usa. In pratica, il termine si riferisce a qualunque cosa la leadership degli Stati Uniti è impegnata a fare sul momento – che, spesso, consiste proprio nel minare il processo di pace nel senso letterale dell'espressione, come un analisi dei fatti rende piuttosto chiaro.

La guerra del Golfo ha stabilito il dominio degli Stati Uniti nel Medio Oriente a un livello mai raggiunto prima, dando la possibilità a Washington di organizzare il "processo di pace" in accordo con le proprie linee guida, a partire dagli incontri di Madrid nell ottobre del 1991. E proprio da qui che bisognerebbe iniziare una seria analisi della recente attività diplomatica.

Mentre bombe e missili piovevano su Baghdad e i soldati di leva iracheni si nascondevano nel deserto, George Bush annunciò orgogliosamente lo slogan del Nuovo Ordine Mondiale, in quattro semplici parole: "What We Say Goes", ossia "si fa quello che diciamo noi". "Quello che diciamo noi" venne presto esplicitato con non minore chiarezza quando le armi tacquero, e Bush torno alla vecchia prassi di prestare aiuto e sostegno a Saddam Hussein mentre quest'ultimo impietosamente soffocava le rivolte sciite e crude sotto gli occhi delle vittoriose forze alleate, che non si degnarono di alzare anche un solo dito. Il sostegno a Saddam era così estremo che il comando degli Stati Uniti non fu disposto nemmeno a concedere ai generali iracheni ribelli di impiegare gli armamenti sequestrati per difendere la popolazione dalla carneficina del dittatore. Un piano saudita per sostenere la rivolta degli indigeni sciiti venne rapidamente soffocato dall'amministrazione Bush.

Il significato del Nuovo Ordine Mondiale non avrebbe potuto essere espresso in modo più chiaro. La reazione che gli è stata tributata getta anche luce sull'attuale stato della cultura occidentale: per lo più applausi per la politica dei nostri leader.

Le ragioni della tollerante posizione di Washington nei confronti della carneficina vennero spiegate per grandi linee, all'epoca, da eminenti analisti: le atrocità di Saddam ci addoloravano, certamente, ma erano necessarie al fine della "stabilità" – altro utile termine del discorso politico, che va letto come "qualunque cosa sia nell'interesse del potere".

La posizione ufficiale venne delineata da Thomas Friedman, allora capo corrispondente diplomatico del New York Times. Washington aveva sperato nel "migliore dei mondi possibili", spiego Friedman: "una giunta irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein". Tale giunta avrebbe restaurato il precedente status quo, in cui il "pugno di ferro [di Saddam] [...] teneva unito l'Iraq, con grande soddisfazione degli alleati americani, Turchia e Arabia Saudita" – e, ovviamente, del boss a Washington. Ma questo auspicabile esito si era rivelato impraticabile, cosicché i padroni della regione avevano dovuto accontentarsi della seconda migliore alternativa a disposizione: lo stesso "pugno di ferro" al quale avevano dato forza mentre torturava i dissidenti e uccideva col gas i curdi, tutte cose perfettamente accettabili finché il criminale al potere si era attenuto agli ordini sulle questioni fondamentali. Solo pochi mesi prima che Saddam conquistasse il Kuwait, George Bush colse l'occasione della sua invasione di Panama per annunciare l'intenzione di sollevare il divieto sui prestiti all'Iraq, intenzione messa in pratica poco tempo dopo, per raggiungere l'"obiettivo di accrescere le esportazioni statunitensi e metterci in una migliore posizione per trattare con l'Iraq riguardo ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [...]", come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle poche interrogazioni provenienti dal Congresso. I principali media e i giornali di maggior diffusione trovarono l'intera faccenda indegna di essere commentata o perfino riportata.

E' sicuro che non tutti considerarono la restaurazione della "Bestia di Baghdad" o di qualche suo accettabile clone come il "migliore dei mondi possibili": i dissidenti iracheni, per esempio. Ahmed Chalabi, banchiere residente a Londra, condanno aspramente la posizione di Washington: "gli Stati Uniti, coprendosi dietro alla foglia di fico della non interferenza negli affari iracheni, aspettano che Saddam massacri i rivoltosi nella speranza che egli possa in seguito venire rovesciato da un funzionario accettabile" – egli disse – un atteggiamento radicato nella prassi statunitense di "sostenere la dittatura per conservare la stabilità".

Il popolo degli Stati Uniti venne tenuto all'oscuro di queste note discordanti, come era avvenuto durante la crisi. Le voci dei dissidenti iracheni potevano essere ascoltate solo dai lettori della poco diffusa stampa dissidente, che pubblicò ciò che si poteva apprendere dalle fonti estere, e da quanti parteciparono a convegni pubblici organizzati da gruppi di pace e giustizia, che offrirono ai leader dell'opposizione irachena in visita dall'Europa un foro ben disposto. Anche questi sono fatti sgraditi, e perciò riposti come al solito nel dimenticatoio in favore di una versione alquanto audace che capovolge completamente fatti facili da stabilire, una storia interessante sulla quale non starò qui a dilungarmi.

I portavoce ufficiali degli Stati Uniti confermarono che l'amministrazione Bush non era intenzionata a parlare con i leader dell'opposizione: "Abbiamo reputato che un incontro politico con loro [...] non sarebbe al momento appropriato per la nostra linea", affermò il 14 marzo Richard Boucher, portavoce del Dipartimento di Stato. Il sistema dell'informazione ne convenne e continuò a bandire gli autentici dissidenti iracheni dai principali mezzi di informazione. Fu solo in aprile, ben dopo la fine delle ostilità, che il Wall Street Journal, – di questo gli va dato atto – ruppe i ranghi e offrì spazio a un portavoce dell'opposizione democratica irachena – sempre Chalabi – il quale descrisse la situazione che si era venuta a creare come "il peggiore dei mondi possibili" per il popolo iracheno, la cui tragedia è "spaventosa".

Secondo la versione standard, tracciata per grandi linee, alcuni giorni dopo, da Alan Cowell, corrispondente dal Medio Oriente del New York Times, i ribelli avevano fallito perché "pochissime persone fuori dell'Iraq volevano che vincessero". Gli Stati Uniti e i "loro partner della coalizione araba" erano giunti a "una visione eccezionalmente unanime", spiegò: "qualsiasi siano le colpe del leader iracheno, egli offriva all'Occidente e alla regione una più consistente garanzia di stabilità per il suo paese di coloro che avevano subito la sua repressione". La conclusione è sostenibile se intendiamo escludere dal novero delle "persone" di cui parlava Cowell i dissidenti iracheni e la popolazione dei "partner della coalizione araba", almeno quella dell'Egitto, il solo paese abbastanza libero da permettere ad alcune di tali persone di far udire la propria voce. E' vero, tuttavia, che la "visione unanime" e condivisa dalle persone che contano: Washington, le redazioni dei notiziari e delle rubriche, e le dittature della regione. E' condivisa anche da Turchia e Israele, la prima preoccupata dalla propria popolazione curda sottoposta a brutale repressione, la seconda timorosa che l'autonomia curda in Iraq avrebbe potuto "creare una contiguità territoriale e militare tra Teheran e Damasco", venendo a costituire un potenziale "pericolo per Israele" (Mose Zak, caporedattore dell'importante quotidiano Ma'ariv, mentre spiegava per quale motivo parte dei vertici del comando militare e un ampio settore dell'opinione politica, compresi leader delle colombe, avessero accordato il loro sostegno a Saddam). Le preoccupazioni della Turchia hanno ricevuto qualche menzione, ma non la reazione di Israele, che contrasta troppo nettamente con l'immagine che si è voluta dare.

Ora si è ammesso, per inciso, che quando il suo amico disobbediente invase il Kuwait, l'amministrazione Bush prevedeva che si sarebbe ritirato, lasciando al potere un regime fantoccio – ossia, una replica di quello che gli Stati Uniti avevano appena fatto a Panama. Certo, nessun parallelo storico e mai del tutto esatto. In un incontro ad alto livello immediatamente dopo che Saddam aveva invaso il Kuwait, il capo di stato maggiore, Colin Powell, espresse parere sfavorevole a proposito dell'intervento militare sulla base del fatto che il popolo americano "non vuole che i suoi giovani muoiano per avere il petrolio a 1 dollaro e mezzo". "Nei prossimi giorni l'Iraq si ritirerà", disse, lasciando "il suo fantoccio al potere. Tutti nel mondo arabo saranno contenti". Al contrario, quando Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo aver messo il suo fantoccio al potere, molti furono tutt'altro che felici (nel sud del mondo). L'impresa criminosa di Washington a Panama suscitò grande rabbia in tutto l'emisfero, a tal punto che il regime fantoccio venne espulso dal Gruppo delle otto democrazie latinoamericane in quanto paese sottoposto a occupazione militare. Come osserva il latino americanista Stephen Ropp, Washington era pienamente consapevole del fatto "che rimuovere il manto della protezione americana avrebbe presto condotto al rovesciamento civile o militare di Endara e dei suoi sostenitori" vale a dire, il regime fantoccio di banchieri, uomini di affari e narcotrafficanti instaurato dall'invasione di Bush. Perfino la Commissione per i diritti umani di quello stesso governo ha denunciato la protratta violazione del diritto all'autodeterminazione e alla sovranità del popolo panamense attraverso lo "stato di occupazione da parte di un esercito straniero", quattro anni dopo l'invasione.

A parte simili fatti (non riportati), l'analogia può sussistere – o, almeno, potrebbe sussistere, se fosse possibile spiegarla o anche solo parlarne attraverso i principali mezzi di informazione.

Gli interessi di Washington spiegano perché ha dovuto bloccare ogni iniziativa che avrebbe potuto condurre a un ritiro negoziato iracheno, come in effetti ha fatto; e perché i mezzi di comunicazione internazionali hanno dovuto nascondere i fatti concernenti le opportunità di soluzione diplomatica, come in effetti hanno fatto, e con notevole efficienza, nonostante talvolta si sia ammesso tacitamente che i fatti erano noti. Vi è un'ampia letteratura critica riguardo al comportamento dei mezzi di informazione durante la guerra, ma anch'essa evita questo argomento, che evidentemente è quello cruciale. Quanto fosse importante tenere segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento, la popolazione americana, in proporzione di circa 2 a 1, era favorevole a un accordo basato sul ritiro delle truppe irachene in considerazione dei problemi della regione, non sapendo di una proposta irachena orientata in tal senso di qualche settimana prima, o del sommario rifiuto che essa aveva ricevuto a Washington. Sugli stessi standard si mantengono gli attuali studi accademici sulla vicenda, altra storia interessante che qui metterò da parte. In modo simile, gli archivi dei documenti sollevati dal segreto di Stato, pieni di informazioni in abbondanza sull'accaduto, vengono ignorati dagli studi accademici più ammirati come sono stati completamente ignorati dai media. Solo ai margini si trovano eccezioni allo schema.

Sulla scorta del ben assimilato principio di Tacito secondo cui "il crimine una volta scoperto non ha altro rifugio se non la sfrontatezza", questo misero comportamento viene ora generalmente considerato un esempio di come il sistema democratico promuova un'accurata, deliberata e sobria divulgazione di tutti gli aspetti delle questioni cruciali prima che vengano prese decisioni importanti.



La concezione strategica
La guerra del Golfo ha avuto luogo sullo sfondo di importanti mutamenti nell'economia internazionale e nelle vicende mondiali che hanno offerto agli Stati Uniti l'opportunità di riorganizzare la parte del mondo che non aveva incontrato il suo gradimento dalla fine della seconda guerra mondiale. Tra le ceneri della catastrofe, gli Stati Uniti sono riusciti a espellere dall'emisfero i loro principali rivali, la Francia e la Gran Bretagna, e a mettere in pratica la dottrina Monroe. Negli anni novanta, in effetti, gli Stati Uniti sono finalmente riusciti a estendere l'applicazione della dottrina Monroe al Medio Oriente. Per comprendere quali siano le implicazioni di ciò per la regione, bisogna dissipare la nebbia dell'ideologia e vedere in che modo la dottrina veniva concretamente intesa dai suoi ideatori. Prendiamo solo l'amministrazione Woodrow Wilson, al culmine del suo "idealismo" in politica estera. La dottrina Monroe si basa sul "semplice egoismo", spiegò in privato il segretario di Stato Robert Lansing, e nel sostenerla gli Stati Uniti "badano ai propri interessi. L'integrità di altre nazioni americane è un caso fortuito, non un fine". Il presidente ne convenne, aggiungendo che sarebbe stato "imprudente" mettere il pubblico a parte del segreto. Questa applicazione dell'"idealismo wilsoniano" è semplicemente ragionevole, aggiunse il segretario degli interni, perché i latinoamericani sono "bimbi indisciplinati che si avvalgono di tutti i privilegi e diritti degli adulti", e questo loro comportamento richiede "una mano ferma, una mano autorevole".

Acquisire il controllo unilaterale delle regioni medio orientali produttrici di petrolio non è un obiettivo di poco conto. Quando gli Stati Uniti divennero una vera e propria superpotenza negli anni quaranta, la leadership politica vide la regione come l'"area strategicamente più importante del mondo" (Eisenhower), "una enorme fonte di potere strategico, e uno dei maggiori obiettivi materiali della storia del mondo" oltre che "probabilmente il più ricco obiettivo del mondo nel campo degli investimenti stranieri" (Dipartimento di Stato, anni quaranta) un obiettivo che gli Stati Uniti intendevano tenere per sé e per il loro alleato britannico, nel Nuovo Ordine Mondiale che si andava allora dispiegando.

Da allora, gli Stati Uniti si sono attenuti a una concezione strategica per la regione che avevano ereditato dal loro predecessore britannico. Il grande "obiettivo materiale" deve essere gestito da amministratori locali, dittature familiari deboli e dipendenti, disposte a fare ciò che gli si dice di fare. Tali dittature costituiscono quello che i pianificatori imperialisti britannici avevano chiamato la "facciata araba", edificata per consentire alla Gran Bretagna di governare dietro a varie "finzioni costituzionali" dopo aver concesso una garanzia di indipendenza nominale. Gli amministratori possono essere brutali e corrotti finché vogliono, a patto di svolgere la propria funzione. Sotto questo aspetto essi rientrano in una impressionante collezione di tiranni e assassini: i vari dittatori militari latinoamericani, Suharto, Marcos, Mobutu, Ceaucescu, e molti altri criminali alla stessa stregua. E' difficile immaginare un crimine che potrebbe farli espellere da questo club. Perfino Stalin venne trovato con le carte in regola. Truman stimava e ammirava l'"onesto" leader russo. La sua morte sarebbe stata una "autentica catastrofe", secondo Truman, il quale aggiungeva che avrebbe potuto "trattare con" Stalin fintantoché gli Stati Uniti avessero condiviso la sua strada l'85 per cento delle volte. Quello che Stalin faceva a casa sua non lo riguardava. Altri rispettati personaggi condividevano questo giudizio, compreso Churchill, il cui smaccato apprezzamento per il tiranno sanguinario proseguì nel 1945: "il premier Stalin era uomo di grande forza, nel quale riponeva la massima fiducia", spiegò Churchill al suo gabinetto dopo Yalta, esprimendo l'auspicio che il leader russo rimanesse al comando.

Non c'è nulla di nuovo nel sostegno offerto ai mostri del Medio Oriente e nell'indifferenza per i crimini piu spaventosi se ciò contribuisce a perseguire i più elevati fini della "stabilità". Se non si comprendono queste persistenti caratteristiche della "diplomazia reale", quello che accade nel mondo è destinato a rimanere un mistero.

La "facciata" va protetta dagli abitanti locali, che sono arretrati e incivili, e non sembrano cogliere le ragioni per le quali del "più ricco obiettivo economico del mondo" debbano giovarsi non loro, ma gli investitori occidentali. Di conseguenza, è necessario affidarsi a gendarmi locali per mantenere l'ordine; in momenti diversi, all'Iran, alla Turchia, al Pakistan, e ad altri ancora. La forza statunitense e britannica rimane sullo sfondo, ove necessario. Israele ricade nel secondo di questi livelli di controllo.

Nei corridoi del potere, le idee fondamentali vengono intese abbastanza bene, anche se viene considerato sconveniente parlare in modo troppo schietto; così non ci appropriamo di risorse per noi stessi, ma piuttosto le sottraiamo a potenziali nemici, per autodifesa; indipendentemente dai fatti, noi e i nostri alleati siamo impegnati in "controterrorismo" o "rappresaglia", non in "terrorismo", ecc. Tuttavia, una certa chiarezza emerge dalle nebbie.

Molto impressionato dal successo militare di Israele nella guerra del 1948, lo Stato Maggiore descrisse il nuovo Stato come la principale potenza militare della regione dopo la Turchia, che offriva agli Stati Uniti lo strumento per "acquisire un vantaggio strategico nel Medio Oriente, che avrebbe controbilanciato il declino della potenza britannica nell'area". Dieci anni dopo, il Consiglio di sicurezza nazionale giunse alla conclusione che un "corollario logico" dell'opposizione al crescente nazionalismo arabo "consisterebbe nel sostenere Israele come unica forte potenza filo-occidentale in Medio Oriente". Durante gli anni sessanta, gli analisti statunitensi videro la potenza israeliana come una barriera alle minacce nasseriane alla "facciata", impressione confermata dalla distruzione della forza militare dell'Egitto da parte di Israele nel 1967. La tesi secondo cui Israele poteva servire da "risorsa strategica" per difendere gli interessi e gli alleati degli Stati Uniti dalle forze nazionaliste venne ulteriormente corroborata nel 1970, quando Israele parò quella che si profilava come una minaccia siriana al Regno di Giordania e potenzialmente ai produttori di petrolio. E l'impressione ando crescendo negli anni seguenti.

La tesi della risorsa strategica trovò la sua collocazione naturale all'interno della Dottrina di Nixon, secondo la quale gli Stati Uniti non potevano "più interpretare il ruolo di poliziotto mondiale" e quindi "si attendevano che altre nazioni fornissero più di un poliziotto per perlustrare i propri quartieri" (ministro della difesa Melvin Laird). Il quartier generale della polizia – era inteso – rimaneva a Washington; gli altri dovevano perseguire i propri "interessi regionali" all interno del "quadro globale di ordine" amministrato dagli Stati Uniti, per riprendere il modo in cui Henry Kissinger spiegò il concetto generale agli europei, ammonendoli a non infrangere le regole. I due principali poliziotti incaricati di perlustrare il distretto medio orientale erano Israele e l'Iran, segretamente alleati. Gli studiosi parlano, in genere, di una "strategia dei "due pilastri" per il controllo statunitense, pensando a Iran e Arabia Saudita; che, invece, si sia trattato di una "strategia dei tre pilastri" e apparso chiaro almeno fin dagli anni settanta.

Nel maggio del 1973, il principale specialista del Senato su petrolio e Medio Oriente, il falco democratico Henry Jackson, osservò che il dominio statunitense sulla regione è salvaguardato dalla "forza e dall'orientamento occidentale di Israele sul Mediterraneo e dell'Iran sul Golfo Persico", due "amici affidabili degli Stati Uniti". Questi amici "sono serviti a inibire e contenere quegli elementi irresponsabili e radicali di certi stati arabi che, se gliene fosse stata data la possibilita, avrebbero rappresentato in effetti una grave minaccia alle nostre principali fonti di petrolio nel Golfo Persico". All'epoca, gli Stati Uniti si servivano appena di queste fonti. Il maggiore produttore di petrolio del mondo fino al 1970 fu il Venezuela, che l'amministrazione Wilson aveva preso a controllare come un feudo privato mezzo secolo prima, espellendo la Gran Bretagna, altro esempio dell'"idealismo wilsoniano": in questo caso, della sua dedizione al principio della "porta aperta" e al principio di "autodeterminazione". Anche altre riserve dell'emisfero occidentale erano sostanziose. Ma la sorgente più economica e abbondante di petrolio del mondo, che si trovava appunto nella regione del Golfo, era necessaria come riserva e come leva per dominare il mondo, oltre che per l'ingente ricchezza che ne scaturiva, principalmente per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Se i materiali di archivio venissero resi disponibili, avrebbero sicuramente molto di interessante da dire riguardo alle tacite relazioni intrattenute nel corso degli anni tra la facciata araba e i due principali gendarmi, con i quali era ufficialmente in guerra. Questo è del tutto improbabile in Arabia Saudita e negli Emirati del Golfo, e purtroppo meno probabile di quanto lo fosse un tempo negli Stati Uniti, dopo il passaggio a una censura molto più aspra sotto Reagan, che, a quanto pare, ancora permane; recenti scoperte effettuate dallo storico israeliano Benny Morris destano dubbi anche sugli archivi israeliani. Le relazioni segrete tra Israele e lo Scià sono state ampiamente rivelate, soprattutto in Israele.

Non deve affatto sorprendere che dopo la caduta dello Scià, Israele e Arabia Saudita cominciarono istantaneamente a cooperare nella vendita di armi statunitensi all'esercito iraniano. Lo si è sostanzialmente ammesso in pubblico sin dal 1982. Si era agli stadi iniziali di quello che in seguito sarebbe divenuto noto come lo scandalo delle "armi in cambio di ostaggi", scoppiato quando non fu più possibile nascondere alcuni aspetti della vicenda. Non vi era alcun ostaggio quando ebbe inizio l'operazione statunitense-israeliana-saudita, e alti funzionari israeliani furono abbastanza franchi nello spiegare quello che stava accadendo fin dai primi giorni: un tentativo di ispirare un colpo militare per restaurare il vecchio ordine. Del resto, si trattava solo di una "procedura operativa standard". Il modo abituale di rovesciare un governo civile e di stabilire relazioni con elementi militari, le persone incaricate di sbrigare il lavoro. Il progetto è talvolta coronato da successo; l'Indonesia e il Cile ne sono due esempi recenti. L'Iran si e rivelato un osso più duro.

Vari agenti acquisiscono diritti a seconda del loro ruolo all'interno della generale concezione strategica. Gli Stati Uniti hanno diritti per definizione. Anche i poliziotti di ronda hanno diritti, a meno che non siano negligenti, nel qual caso, se agiscono in modo troppo indipendente, diventano nemici. Gli amministratori locali hanno diritti fintantoché badano ai propri affari. Se ci vuole un "pugno di ferro" per preservare la "stabilità", così sia.

Gli abitanti dei bassifondi del Cairo o dei villaggi libanesi, e altri come loro, non hanno né ricchezza né potere, e quindi nessun diritto, per semplice conseguenza logica. Anche i loro interessi sono "un incidente, non un fine". Nel caso dei palestinesi, essi non solo non hanno diritti ma, peggio ancora, sono un fastidio; la loro infelice sorte è stata un agente irritante con effetto dirompente sull'opinione pubblica araba. Pertanto essi hanno diritti negativi, fatto che spiega molte cose. E' stato necessario incidere quell'ascesso in qualche maniera, con la violenza o in altro modo. L'idea di fondo e che se si riuscisse a sgombrare il campo dalla questione palestinese, dovrebbe essere possibile portare alla superficie le tacite relazioni tra le parti dotate di diritti, ed estenderle, incorporando anche altri paesi in un sistema regionale dominato dagli Stati Uniti nell "area strategicamente [più] importante del mondo".

Questa è sempre stata la logica essenziale del "processo di pace". Il quadro, stabile e durevole, non ci permette di dedurre con assoluta esattezza ciò che accade e probabilmente continuerà ad accadere; le faccende umane sono troppo complesse perché ciò sia possibile. Ma ci consente di arrivarci sorprendentemente vicino.

Fino a poco tempo fa, non è stato possibile imporre appieno la concezione strategica guida, in parte a causa dei limiti del potere degli Stati Uniti, in parte in seguito a problemi determinati dall'impegno a conservare il ruolo cruciale di Israele come "risorsa strategica". Tale ruolo ha assunto maggiori proporzioni tra gli anni settanta e gli anni ottanta, andando ben al di la del Medio Oriente. Questa è stata una delle conseguenze delle iniziative intraprese dal Congresso a partire dai primi anni settanta per imporre condizioni concernenti i diritti umani sulle azioni dell esecutivo; tali iniziative sono uno dei più importanti effetti dei movimenti popolari degli anni sessanta, che modificarono in modo considerevole gli atteggiamenti e la percezione del grande pubblico nei confronti di un ampia gamma di questioni, con considerevole rammarico per l'opinione dell'élite'. I pianificatori ebbero bisogno di ricorrere sempre più spesso a dei surrogati. Per citare un solo illuminante esempio, quando John F. Kennedy decise di spedire la forza aerea statunitense a bombardare il Vietnam del sud, non vi fu un sussurro di protesta; ma quando i reaganiani cercarono di condurre operazioni simili in America centrale, scatenarono una pubblica rivolta, e dovettero limitarsi a massicce operazioni terroristiche clandestine.

In un simile contesto, Israele venne ad assumere nuove funzioni. Perciò, quando le condizioni riguardanti i diritti umani stabilite dal Congresso impedirono al presidente Carter di spedire jet in Indonesia nel 1978, mentre le atrocità a Timor est raggiungevano il culmine, egli poté fare in modo che Israele inviasse jet statunitensi, che sarebbero giunti attraverso un canale libero. I maggiori contributi tuttavia, si ebbero in Africa e Sudamerica, specie da quando l'amministrazione Reagan creò una rete di terrorismo internazionale di imponenti dimensioni, comprendente neonazisti argentini, Taiwan, Sudafrica, Inghilterra, Arabia Saudita, Marocco e altri. Va ricordato che gli operatori di poco conto come Gheddafi ingaggiano terroristi, mentre i pezzi grossi preferiscono ricorrere direttamente a Stati terroristi.

Sulla questione del ruolo centrale di Israele nella politica medio orientale degli Stati Uniti, vi è stato qualche dibattito interno. Ma per varie ragioni, non prive di interesse, la tesi della risorsa strategica si è trovata raramente a fronteggiare gravi minacce. Gli sparuti tentativi di discostarsi da tale tesi sono stati rapidamente soffocati, in gran parte in riconoscimento delle dimostrazioni di valore militare di Israele, che produssero una grande impressione non solo nei leader statunitensi ma anche in un vasto spettro dell opinione intellettuale.

Queste sono alcune delle ragioni per le quali gli Stati Uniti hanno costantemente svilito o piegato gli sforzi diplomatici per risolvere il conflitto nel corso di oltre 20 anni. La maggior parte di tali iniziative avrebbero imposto un qualche riconoscimento dei diritti palestinesi, laddove Washington è ferma nel sostenere che i palestinesi non hanno alcun diritto che possa interferire col potere israeliano. Inoltre, queste iniziative avrebbero portato a un qualche tipo di coinvolgimento internazionale in un accordo; Washington è sempre stata riluttante ad accettare anche questo, nonostante si sia dimostrata disposta a fare un'eccezione per il suo "luogotenente" britannico, per mutuare l'espressione con la quale un influente consigliere di Kennedy spiegò in che modo andava inteso il "rapporto speciale" con l'importante partner. E' stato necessario "assicurarsi che gli europei e i giapponesi non venissero coinvolti nell'azione diplomatica in Medio Oriente", come spiego in privato Henry Kissinger.

Le premesse fondamentali sono cosi profondamente radicate che sono entrate a far parte della stessa terminologia impiegata per inquadrare i problemi. Prendiamo il termine "negazionismo [rejectionism]", che qualora venisse impiegato in senso neutrale dovrebbe riferirsi alla negazione del diritto dell'autodeterminazione nazionale per l'uno o l'altro dei due gruppi che reclamano appunto tale diritto nella ex Palestina: gli abitanti indigeni e i coloni ebrei che li hanno gradualmente sostituiti. Ma il termine non viene impiegato a questo modo. Piuttosto, "negazionisti" sono coloro i quali negano i diritti di uno solo dei contendenti, vale a dire del popolo ebreo: alcuni elementi dell'Olp, il governo dell'Iran e qualcun altro. D'altro canto, quanti negano i diritti dei palestinesi (compresi i due maggiori gruppi politici di Israele, i due partiti politici statunitensi, tutti i governi israeliani e statunitensi, praticamente tutta l'opinione statunitense rappresentata nei mezzi di informazione) sono "moderati" o "pragmatici", perfino "colombe". E ancor più degno di nota, tuttavia, il fatto che, senza alcuna vergogna, le persone e le organizzazioni che vengono considerate "civili e libertarie" possano denunciare come "offensivo" l'"accostamento tra quegli israeliani che si oppongono alla creazione di uno Stato potenzialmente ostile al confine di Israele e quei palestinesi che tuttora propugnano la distruzione di Israele [...]" ossia, il confronto tra coloro che negano il diritto all autodeterminazione ai palestinesi e coloro che negano tale diritto agli ebrei israeliani.

La consuetudine razzista è così saldamente radicata da passare inosservata e risulta incomprensibile quando la si fa notare. Come Orwell osservò nella sua trattazione della "censura [...] deliberata in Inghilterra", lo strumento più efficace e il "generale tacito accordo che "non starebbe bene" menzionare quel particolare fatto"; è compito di una decente istruzione inculcare gli atteggiamenti opportuni. E uno dei fatti che "non starebbe bene" menzionare, o addirittura pensare, e che gli Stati Uniti sono stati a lungo il leader del fronte della negazione.

Vale la pena osservare come la guerra fredda sia stata per lo più una considerazione secondaria, circostanza talvolta ammessa nel dibattito interno. Così nel marzo del 1958, il segretario di Stato John Foster Dulles informò il Consiglio di sicurezza nazionale che né il comunismo né l'Unione Sovietica erano coinvolti nelle tre maggiori crisi mondiali dell'epoca, tutte riguardanti il mondo islamico: il Medio Oriente, il Nordafrica e l'Indonesia. E quando uno dei presenti suggerì che altri avrebbero potuto lavorare per conto dei russi, il presidente Eisenhower fece "vigorosa obiezio- ne", rivela il documento.

Non credo che ci sia nulla da aggiungere su questo punto; lo si sta cominciando ad ammettere, anche ufficialmente, dato che il pretesto non serve più ad alcuno scopo utile. La transizione è stata rapida. A 1989 inoltrato, gli Stati Uniti si stavano difendendo dalla globale aggressione comunista. Alla fine dell'anno, non era più questo ciò che stavano facendo (o che avevano mai fatto). Nel marzo del 1990, la Casa Bianca presentò il suo regolare rapporto al Congresso per spiegare perché il budget del Pentagono doveva venire mantenuto al suo colossale livello, il primo rapporto dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989. La conclusione fu la solita, ma le ragioni stavolta furono differenti: la minaccia non era il Cremlino, ma la "tecnologia sempre più sofisticata" del terzo mondo. In particolare, gli Stati Uniti dovevano mantenere le proprie forze di intervento puntate sul Medio Oriente dato "l'affidamento che il mondo libero fa sulle riserve di energia che si trovano in questa regione chiave", dove le "minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Fatto questo che talvolta è stato riconosciuto negli ultimi anni, o anche prima, se è per questo, come nel 1958. 0 nel 1980, quando l'architetto della forza di intervento rapido (il futuro comando centrale) del presidente Carter, puntata principalmente sul Medio Oriente, testimoniò davanti al Congresso che l'impiego più probabile del dispiegamento militare non era quello di resistere a un attacco sovietico (estremamente poco plausibile), ma di occuparsi delle tensioni indigene e regionali: il "nazionalismo radicale" che ha rappresentato sempre una preoccupazione di primo piano.

Ovviamente, nel Medio Oriente come altrove, i bersagli dell'attacco statunitense si rivolsero ai russi per cercare appoggio, cosa che il Cremlino fu talvolta disposto a offrire per ragioni puramente ciniche e opportunistiche. E la potenza sovietica ebbe un effetto deterrente, come i documenti ripetutamente mostrano. Ma a parte queste precisazioni, rimane vero che "le minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino".

Nel 1991, Washington era nella condizione di raggiungere i suoi obiettivi strategici con poco riguardo per l'opinione mondiale. Non era più necessario minare tutte le iniziative diplomatiche, come Washington aveva fatto per 20 anni. L'Unione Sovietica era scomparsa, e con essa, lo spazio per il non allineamento, un fatto di grande importanza per le vicende mondiali, che ha ricevuto scarsa attenzione a occidente ma è stato accolto con non lieve apprensione nel terzo mondo. In una rivista cilena, il noto autore Mario Benedetti scrisse che "la combinazione dell indebolimento dell'Urss e della vittoria [statunitense] nel Golfo potrebbe rivelarsi tragica [per il sud] a causa della rottura dell equilibrio militare internazionale che in qualche modo serviva a contenere le smanie di dominio statunitense" e perché la provocazione lanciata allo sciovinismo razzista occidentale "potrebbe stimolare imprese imperialiste ancor più selvagge". Lo stato d'animo generale del sud venne fotografato dal cardinale brasiliano Paulo Evaristo Arns, il quale osservò come nelle nazioni arabe "il ricco si è schierato con il governo statunitense mentre i milioni di poveri hanno condannato questa aggressione militare". In tutto il terzo mondo "vi è odio e paura: quando decideranno di invaderci" e con quale pretesto? Se non in modo marginale, nulla di tutto ciò giunge all'occidente, sprofondato nel trionfalismo e nell'autocongratulazione.

La maggior parte del terzo mondo era ad ogni modo piombata nel completo disordine, devastata dalla catastrofe del capitalismo degli anni ottanta. L'Europa ha fondamentalmente abdicato a qualsiasi ruolo nelle faccende del Medio Oriente, garantendo agli Stati Uniti il controllo pressoché totale che avevano a lungo agognato. La guerra del Golfo ha suggellato il patto, stabilendo che "si fa quello che diciamo noi" e mettendo in moto un genuino "processo di pace" – vale a dire un processo saldamente sottoposto al controllo unilaterale degli Stati Uniti.



Lo "stallo"
Ricapitolerò rapidamente le premesse della situazione, a partire dalla guerra del giugno 1967.

L'esito della guerra fu estremamente gradito agli Stati Uniti, visto che venne meno l'influenza nasseriana nella regione (con grande sollievo della "facciata") e Israele assunse il controllo della sponda occidentale, di Gaza, degli altopiani del Golan e del Sinai. Ma la guerra aveva portato il mondo pericolosamente vicino a uno scontro tra superpotenze. Si temevano minacciose comunicazioni sulla "linea calda" tra Washington e Mosca. Il premier sovietico Kosygin a un certo punto ammonì il presidente Johnson che "se volete la guerra, guerra avrete", come riportò anni dopo il ministro della difesa Robert McNamara, aggiungendo la sua opinione che "siamo andati maledettamente vicini alla guerra" quando la flotta degli Stati Uniti "circondò una portaerei [sovietica] nel Mediterraneo"; egli non spiegò i dettagli, ma l'episodio probabilmente risaliva al periodo in cui Israele si impossessò degli altipiani siriani del Golan dopo il cessate il fuoco.

Chiaramente bisognava fare qualcosa. Seguì un processo diplomatico, che condusse alla risoluzione numero 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che da allora ha costituito il quadro di riferimento diplomatico. Nonostante fosse stata deliberatamente formulata in modo vago nella speranza di ottenere l'adesione generale, vi sono pochi dubbi sul modo in cui la risoluzione venne interpretata dal Consiglio di sicurezza, compresi gli Stati Uniti: richiedeva una pace completa in cambio del completo ritiro israeliano, forse con qualche reciproco e minore aggiustamento. Che gli Stati Uniti sostenessero questo consenso internazionale emerge chiaramente dai documenti che sono stati divulgati, e in alcuni casi trapelati, compresa un importante ricostruzione del Dipartimento di Stato. Questa interpretazione della risoluzione 242 venne confermata pubblicamente nel piano Rogers del 1969 presentato dal segretario di Stato William Rogers e approvato dal presidente Nixon, nel quale si era sostenuto che "qualsiasi mutamento dei confini preesistenti non avrebbe dovuto riflettere la portata della conquista e avrebbe dovuto limitarsi a variazioni di poco conto necessarie per la mutua sicurezza".

La 242 non venne attuata. Nonostante tutti avessero firmato, gli stati arabi rifiutarono di accordare una pace completa e Israele rifiutò di ritirarsi completamente. Notate che la 242 e piattamente negazionista: non offre nulla ai palestinesi, che vengono contemplati solo in relazione al problema dei rifugiati.

L'impasse venne rotta nel febbraio del 1971, quando il presidente egiziano Sadat si unì al consenso internazionale, accettando la proposta del mediatore dell'Onu Gunnar Jarring per la pace completa con Israele in cambio del completo ritiro israeliano dal territorio egiziano. Israele accolse di buon grado la dichiarazione dell'Egitto "di essere pronto a intavolare un accordo di pace con Israele", ma lo rifiutò, affermando che "Israele non si ritirerà entro i confini precedenti al 5 giugno del 1967". Questa posizione e stata da allora sostenuta senza deviazioni da entrambi i raggruppamenti politici, le coalizioni basate rispettivamente sul partito laburista e sul Likud.

Sadat, facendo propria la posizione ufficiale degli Stati Uniti, pose Washington di fronte a un dilemma: Washington avrebbe dovuto accettarla, lasciando così Israele da sola tra i principali attori dell opposizione? 0 gli Stati Uniti avrebbero dovuto cambiare politica unendosi a Israele nel loro riiiuto a tutt'oggi unilaterale delle disposizioni della 242 concernenti il ritiro Henry Kissinger preferì quest ultima alternativa, perorando la situazione di "stallo", sulla base di motivazioni così bizzarre che è stato necessario ignorarle, probabilmente a causa dell'imbarazzo; non è il solo caso del genere. Può darsi che la sua principale motivazione fosse quella di soppiantare il suo rivale William Rogers e assumere cosi la direzione del Dipartimento di Stato come stava per fare.

La linea di Kissinger prevalse. Da allora gli Stati Uniti hanno negato non solo i diritti dei palestinesi (all'epoca, forti del consenso interno), ma anche le disposizioni di ritiro della risoluzione 242 così come erano intese dai suoi autori – compresi gli Stati Uniti, contrariamente alle invenzioni successive.

Anche queste sono cose che "non starebbe bene" dire. Pertanto, l'intera vicenda è vietata: espulsa dalla storia.

Nelle sue memorie, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, allora ambasciatore di Israele a Washington, descrive l'accettazione della "famosa" proposta Jarring da parte di Sadat un "fulmine a ciel sereno", una "pietra miliare" sulla via della pace, per quanto inaccettabile perché rimaneva l'"impronta elusiva di Sadat", implicando un "nesso pregiudiziale" tra l'accordo di pace e il ritiro di Israele entro i confini precedenti al giugno del 1967 (in accordo con la 242, così come veniva intesa all'epoca al di fuori di Israele). Negli Stati Uniti, d altro canto, i fatti sono scomparsi. Vengono regolarmente ignorati dai giornalisti e dai commentatori dei principali mezzi di informazione, e abbastanza spesso anche nei lavori accademici. L'esempio più recente è la storia di Mark Tessler, che è più equilibrata della maggior parte delle altre. Nella sua estesa analisi dell'attività diplomatica, non si trova alcun cenno all'ufficiale offerta di pace da parte di Sadat e al rifiuto di Israele, ma una nota a pie' di pagina fa riferimento a un'intervista del 1971 nella quale Sadat informava il redattore di Neurstoeek Arnaud de Borchgrave "che l'Egitto era pronto a riconoscere Israele e a trattare la pace". De Borchgrave informò il primo ministro israeliano Golda Meir "che Sadat avrebbe presto ripetuto la sua offerta di pace all'inviato delle Nazioni Unite Gunnar Jarring", prosegue Tessler, ma la Meir "respinse l'apertura di Sadat".

Questo è tutto per la "famosa pietra miliare". Pochi altri si sono anche solo avvicinati cosi tanto alla realtà.

Il rifiuto della 242 da parte degli Stati Uniti su iniziativa di Kissinger cancellò la questione del ritiro dal "processo di pace". Il problema del negazionismo sorse alcuni anni dopo, quando il consenso internazionale si spostò verso una posizione non negazionista, condivisa anche dai maggiori stati arabi e dall'Olp. Il problema giunse all'apice quando il Consiglio di sicurezza discusse una risoluzione che incorporava il testo della risoluzione 242, ma aggiungeva una disposizione concernente uno Stato palestinese da fondare nella sponda occidentale e nella striscia di Gaza. La risoluzione venne sostenuta dagli "stati del conflitto" arabi (Egitto, Giordania, Siria) e dall'Olp, dall'Unione Sovietica, dall'Europa e dalla maggior parte del resto del mondo. Ad essa posero il veto gli Stati Uniti, che si erano ormai saldamente attestati a capo della frangia più estrema del Fronte della Negazione. Washington pose il suo veto a una risoluzione simile nel 1980. La questione passò allora all'Assemblea generale, che tenne votazioni annuali nelle quali gli Stati Uniti e Israele rimasero isolati all'opposizione (una volta sola in compagnia della Repubblica dominicana); un voto negativo degli Stati Uniti nell'Assemblea equivale a un veto, anche se gli Stati Uniti sono completamente soli, o quasi, come comunemente accade. L'ultima delle regolari votazioni annuali si tenne nel dicembre del 1990, 144-2. Un'altra risoluzione che appoggiava "Il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione" venne presa in esame nel novembre del 1994 (124-2).

Tutto questo è bandito dalla storia, di rado persino riportato, espulso dai documenti in favore di edificanti storie sugli sforzi americani tesi al raggiungimento della pace, contrastati da negazionisti arabi e altri cattivi personaggi, nel quadro, probabilmente, di un cosmico "scontro di civiltà".

La votazione alle Nazioni Unite del 1990 avvenne poco prima della guerra del Golfo che pose gli Stati Uniti nella posizione di imporre, alla fine, la loro forma estrema di negazionismo. L'amministrazione Bush aveva riaffermato quei principi ben prima, nel piano Baker del dicembre del 1989, il quale non faceva altro che appoggiare il piano Shamir-Peres proposto dalla coalizione di governo israeliana nel maggio del 1989. Secondo il piano Shamir-Peres-Baker, gli Stati Uniti e Israele avrebbero selezionato certi palestinesi che avrebbero ricevuto il permesso di discutere l'"iniziativa di Israele", ma nient'altro. Il piano teoricamente era pubblico ma trovò un'eco immediata solo nella stampa dissidente, oltre a essere trascurato o mal rappresentato anche in buona parte dei migliori studi accademici. Si è parlato di una sola delle sue disposizioni, quella relativa alle elezioni, per illustrare ciò che la stampa talvolta definisce la "brama di democrazia" dei leader americani: una democrazia che dovrebbe essere realizzata tramite elezioni da tenersi sotto il controllo militare di Israele mentre buona parte del settore istruito della popolazione giace in prigione senza capi di imputazione.

I termini cruciali del piano Shamir-Peres-Baker erano: 1) che non vi puo essere nessun "altro Stato palestinese nel distretto di Gaza e nell'area tra Israele e la Giordania" (es- sendo gia la Giordania uno "Stato palestinese"); e 2) che "Non vi può essere alcuna variazione nello status di Giudea, Samaria e Gaza [la sponda occidentale e la striscia di Gaza] se non in accordo con le linee guida essenziali del governo [israeliano]", le quali escludono l'autodeterminazione palestinese.

E' importante tenere a mente che questa era la posizione ufficiale dell'amministrazione Bush, che viene regolarmente condannata per la sua aspra posizione anti-Israele. E' coerente con l'estremo negazionismo statunitense degli anni precedenti, ed è il contesto in cui si inquadra il "processo di pace" che l'amministrazione alla fine è riuscita a imporre dopo la guerra del Golfo.

Tutto ciò è inaccettabile dal punto di vista dottrinale, e quindi inesprimibile se non addirittura inconcepibile nella cultura intellettuale estremamente disciplinata. I fatti non sono in discussione, ma sono sovversivi per il potere e così è necessario "uccidere la storia", per mutuare l'appropriato termine che viene usato per descrivere la regolare prassi dei commissari. Dai media, difficilmente provengono obiezioni – anche se alcuni degli eventi sono stati riportati fedelmente, compresi gli eventi del gennaio del 1976 che sono completamente spariti dalla storia ufficiale.

Dal principio degli anni ottanta, la storia divenne semplicemente un'opera buffa, mentre i media dell'élite e la comunità intellettuale si battevano con crescente disperazione "per non vedere" i sempre più evidenti tentativi da parte dell'Olp di passare a un accordo negoziato – occultando anche il fatto, oggetto di ampio dibattito in Israele, che il principale proposito del devastante attacco israeliano in Libano nel 1982 era di minare la minaccia degli sforzi dell'Olp di negoziare un accordo politico.



"La pace del vincitore": gli accordi di Oslo
La Dichiarazione dei principi e i successivi accordi incorporano la versione estrema del negazionismo statunitense-israeliano. L'accordo finale si fonda unicamente sulla risoluzione 242, senza alcun riconoscimento dei diritti nazionali dei palestinesi. Fuori della porta rimane la posizione della maggior parte del resto del mondo: ossia, che accanto alla risoluzione 242, la quale riconosce solo i diritti degli Stati esistenti, andrebbero considerate anche le risoluzioni delle Nazioni Unite che si sono espresse a favore dei diritti palestinesi. Per quanto concerne la seconda questione principale, quella del ritiro, Stati Uniti e Israele sono stati chiari ed espliciti nell'affermare che il ritiro sarà parziale, nella misura che unilateralmente determineranno.

L'esito è completamente in accordo con l'immutata posizione statunitense sul negazionismo e sul ritiro (su quest'ultimo salda sin dal 1971). Ricade anche all'interno della gamma delle varie proposte israeliane che si sono succedute negli anni, dal piano Allon del 1968 che rappresenta la proposta estrema delle colombe, al piano Shamir-Peres-Baker del 1989, e ai piani proposti dal rappresentante dell'estrema destra Ariel Sharon e dal partito laburista nel 1992, che a malapena differiscono. Anche tutto ciò e ben documentato e regolarmente riportato in modo corretto in Israele e in pubblicazioni alternative dissidenti negli Stati Uniti, ma pochi americani hanno potuto avere anche il minimo sentore dei fatti. Ormai, con l'Europa che ha sgombrato il campo, sembra di poter dire lo stesso dei cittadini europei, anche se, non avendo compiuto un'indagine accurata, lo dico con cautela. In questo contesto, non deve sorprendere granché che la Norvegia si sia prestata a fare da intermediario per l'accordo Israele-Arafat, che si è attenuto rigidamente al tradizionale negazionismo statunitense-israeliano.

Per quanto concerne la ragione per la quale Israele ha deciso di rivolgersi al canale di negoziato di Oslo, escludendo gli Stati Uniti finché non è giunto il momento della fanfara (e dei soldi), può darsi che si temesse che un accordo con Clinton nei panni del mediatore non avrebbe avuto alcuna credibilità nel mondo arabo, alla luce dell'avvicinamento della sua amministrazione verso le posizioni dei falchi. Questo allontanamento da una lunga storia di sostegno alla meno estrema forma di negazionismo dei laburisti ha stupito i commentatori israeliani. Sembra che tale condotta sia da attribuire al falco australiano del Medio Oriente Martin Indyk e al Washington Institute for Near East Policy che egli ha fondato dopo aver lasciato l'Aipac, la lobby di Israele a Washington; l'istituto ha avuto un ruolo interessante nella stampa statunitense consentendo ai giornalisti di presentare la propaganda israeliana come un "mero resoconto dei fatti" formulato con le parole di "esperti" forniti dall'istituto.

Un accordo, ovviamente, avviene tra due parti e, perciò, ci si deve anche chiedere perché Arafat ha accettato ciò che rappresentava una completa capitolazione di fronte alle richieste di Stati Uniti e Israele. La risposta più verosimile è che egli deve avervi intravisto l'ultima chance di mantenere la sua posizione di potere all'interno del movimento palestinese. L'Olp si è attirata il disprezzo di buona parte della popolazione dei territori per la sua corruzione e il suo assurdo atteggiamento, e dal 1993, l'opposizione ad Arafat e le istanze di democratizzazione dell'organizzazione avevano raggiunto livelli drammatici, riportati nella stampa israeliana e sicuramente noti alle autorità israeliane, che hanno intravisto la possibilità di siglare un tipo di accordo che avevano sempre desiderato. Come virtuale agente di Israele, Arafat ha potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato sapere, sembra che sia stato questo a condurlo a Oslo.

I piani di Sharon e dei laburisti del 1992, ora effettivamente fissati nella Dichiarazione dei principi, si basano sul principio al quale Israele ha aderito fermamente sin dal suo piano Allon del 1968: Israele deve essere in grado di controllare i territori nella misura che reputa utile, comprese le terre e le risorse utilizzabili (in particolare le riserve d'acqua della sponda occidentale, alle quali Israele attinge abbondantemente). I modi il cui il controllo andrebbe esercitato sono stati oggetto di un dibattito strategico che si e sviluppato nel corso degli anni, così come i confini che si desidera va dare alla "Grande Israele". Per quanto concerne la questione dei modi di controllo, la questione più dibattuta e stata quella di determinare se l'autorità vada divisa in termini territoriali o "funzionali", ove quest'ultimo aggettivo sta praticamente a prefigurare una situazione in cui Israele continuerebbe a controllare il territorio e l'autorità palestinese sarebbe responsabile dei palestinesi che si trovano all'interno di tale territorio. Dalla metà del 1995, Israele continua a rimanere attestata sulla posizione secondo cui può esservi tutt'al più una divisione "funzionale" dell'autorità almeno nel 1999: non vi sarà alcun fondamentale "trasferimento di sovranità" ai palestinesi, ha annunciato il ministro degli esteri Shimon Peres alla radio israeliana, e la maggior parte della terra della sponda occidentale rimarrà sotto il controllo dell'esercito israeliano durante tale periodo. Quanto ai confini, i programmi attuali indicano l'intenzione di includere all'interno della "Grande Israele" la Valle del Giordano, circa un terzo della striscia di Gaza, area circostante l'entità nebulosa e in rapida espansione della "Grande Gerusalemme", che si estende ormai a est fino a Gerico; e qualsiasi altra zona Israele scelga di annettersi con la benedizione (e il finanziamento) della superpotenza che la protegge. L'espansione della "Grande Gerusalemme" in effetti spacca la sponda occidentale in "cantoni" in accordo con il piano Sharon; un altro corridoio di accesso alla Giordania colonizzato da israeliani frammenta ulteriormente la regione.

Quando la Dichiarazione dei principi venne annunciata, gli osservatori bene informati riconobbero che non offriva "nemmeno l'accenno di una soluzione al problema di fondo che esiste tra Israele e i palestinesi", né nel breve periodo né strada facendo (il giornalista israeliano Danny Rubinstein). Il suo significato operativo divenne ancora più chiaro dopo l'Accordo del Cairo del maggio 1994, col quale si assicurò che i territori amministrati da Arafat sarebbero rimasti "completamente nell'ovile economico di Israele", come osservò il Wall Street Journal, e che l'amministrazione militare sarebbe rimasta intatta in tutto fuorché nel nome. L'importanza dell'accordo venne immediatamente compresa in Israele. Meron Benvenisti, ex vice sindaco di Gerusalemme e capo del Data Base Project per la sponda occidentale, oltre a essere da molti anni uno dei più scaltri osservatori dell'informazione ufficiale israeliana, commentò che l'Accordo del Cairo, "a tal punto che è difficile credere ai propri occhi nel leggerlo, [...] garantisce all'amministrazione militare l'autorità esclusiva nella "legislazione, aggiudicazione, esecuzione politica"" e "responsabilità per l'esercizio di questi poteri in conformità col diritto internazionale" che gli Stati Uniti e Israele interpretano a proprio piacimento. "L'intero intricato sistema di ordinanze militari [...] conserverà la sua forza, a parte la facoltà di regolamentazione legislativa e quanti altri poteri Israele potrà espressamente garantire" ai palestinesi. I giudici israeliani conservano "poteri di veto su qualsiasi legislazione palestinese "che potrebbe mettere a repentaglio i principali interessi israeliani”", che hanno "la precedenza", e vengono interpretati come Stati Uniti e Israele preferiscono. Pur essendo subordinate alle decisioni di Israele su tutte le questioni di una certa importanza, alle autorità palestinesi viene garantito un dominio di loro esclusiva competenza: esse hanno "responsabilità esecutiva per qualsiasi cosa venga fatta o non fatta", il che significa che acconsentono a caricarsi i gravosi costi dei 28 anni di occupazione, dalla quale Israele ha tratto enorme profitto, e ad assumere una perdurante responsabilità per la sicurezza di Israele. Questo "accordo di resa", osserva Benvenisti, pone in atto le estremistiche proposte di Sharon del 1981 che a suo tempo erano state respinte dall'Egitto.

Dopo un altro accordo Israele-Arafat, un anno dopo, Benvenisti ha commentato che "Arafat ancora una volta ha chinato il capo di fronte all'avversario infinitamente più forte". Egli ha rivisto i termini dell'accordo, che ha lasciato oltre metà della sponda occidentale "all'assoluto controllo israeliano" e ha rimandato la discussione dello status di un altro 40 per cento per diversi anni, durante i quali Israele potrà continuare a servirsi dell'aiuto statunitense per "fabbricare fatti" come di consueto. L'accordo, nota Benvenisti, rescinde la disposizione della Dichiarazione dei principi "secondo cui la sponda occidentale verrà considerata "un'unità territoriale, la cui integrità verrà preservata durante il periodo di interim"". Egli predice che poco cambierà rispetto al periodo dell'occupazione, se non che "il controllo israeliano diverrà meno diretto: invece di gestire gli affari in prima persona, gli "ufficiali di collegamento" israeliani li seguiranno tramite gli impiegati dell'Autorità palestinese". Come la Gran Bretagna durante il suo periodo d'oro, Israele continuerà a governare al riparo di "finzioni costituzionali". Di certo non c'è nessuna innovazione; si tratta dello schema tradizionale di conquista attuato dagli europei nella maggior parte del mondo.

La situazione è ancora peggiore a Gaza, dove i servizi di sicurezza israeliani (Shabak) rimangono "una forza invisibile ma violenta, la cui oscura presenza si avverte costantemente, ed esercita un potere letale sulle vite degli abitanti di Gaza", riporta il corrispondente di Ha'aretz Amira Hass, aggiungendo che le autorità israeliane continuano a controllare anche l'economia. Dal 1991, osserva Graham Usher, Israele ha riconvertito la tradizionale produzione di frutta e verdura di Gaza alla produzione di piante ornamentali e fiori tramite varie misure coercitive, tra le quali le confische che hanno ridotto di quasi un terzo la terra da agrumi coltivabile. Lo scopo è solo in parte quello di sottrarre territorio di un certo valore al controllo arabo. Israele intende anche "assorbire l'urto del commercio di Gaza con altre economie, o meglio, custodirlo all'interno del commercio israeliano". L'esportazione di questi settori a monocoltura è nelle mani di imprenditori israeliani, e il bassissimo costo del lavoro nella demoralizzata striscia di Gaza permette agli imprenditori israeliani di mantenere i propri mercati europei in sostanziale attivo.

Nell'estate del 1995, il 95 per cento della popolazione di Gaza era "imprigionata nella regione" dalla forza israeliana, riporta il gruppo israeliano per i diritti umani Tsevet'aza, con l'"economia strangolata" e le forze di sicurezza preposte a controllare il commercio, l'esportazione e le comunicazioni, spesso impegnate a "peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi". In condizioni simili, pochi sono disposti a fronteggiare i rischi dell'investimento, almeno al di fuori dei parchi industriali messi su dai produttori israeliani per "sfruttare la poco costosa manodopera palestinese". Tsevet'aza riporta inoltre che Israele continua a negare agli investitori palestinesi la licenza di aprire piccoli impianti produttivi, e che i pescatori vengono tenuti a sei chilometri dalla costa, dove non vi è affatto pesce durante i mesi estivi. Le limitate risorse d acqua in questa regione molto arida vengono impiegate per l'intensiva agricoltura israeliana, persino i laghi artificiali di eleganti luoghi di villeggiatura, stando a quanto riportano i visitatori. Nel frattempo, le risorse di acqua erogate ai palestinesi di Gaza sono state ridotte della metà dopo gli accordi di Oslo, come ha scritto l'ispettore delle Nazioni Unite per i diritti umani Rene Felber in un rapporto aspramente critico sulle condizioni carcerarie e sulla politica idrica. Egli ha rassegnato le dimissioni poco tempo dopo, commentando che non ha senso redigere rapporti che vanno a finire in un cestino.

Un anno dopo la Dichiarazione dei principi, il controllo di Israele sulla terra della sponda occidentale ha raggiunto il 75 per cento, in aumento rispetto al 65 per cento del periodo in cui sono stati firmati gli accordi. Anche l'insediamento e il "consolidamento" di colonie è proceduto a passo spedito, accanto alla costruzione di "strade di circonvallazione" che collegano le colonie ebraiche con Israele vera e propria, tagliando fuori i villaggi arabi che sono rimasti isolati l'uno dagli altri e dai centri urbani che Israele preferisce cedere all'amministrazione palestinese. I progetti autostradali sono immensi, con costi stimati intorno ai 400 milioni di dollari, secondo il segretario generale del partito laburista attualmente al governo. Lo scopo è di fornire ai coloni quella che si potrebbe chiamare "una strada dove non si è obbligati a vedere gli arabi attorno". I dettagli sono segreti, ma "le linee generali emergono dalle mappe dei coloni", riporta il corrispondente Barton Gellman, compreso il solito metodo di mettere "la forza della legge israeliana" al servizio di progetti "iniziati illegalmente dai coloni". Benvenisti descrive le strade come "fatti politici dotati di conseguenze a lungo termine" che rientrano nel piano di "suddividere le aree arabe in settori, di tramutare la sponda occidentale in un lager", nel quadro di "una pace del vincitore, di un diktat".

I fondi governativi per le colonie dei territori occupati sono aumentati del 70 per cento nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi (1994), nonostante si partisse da un livello che era già elevato rispetto agli standard precedenti. Il sostegno ai coloni e così generoso che i loro standard di vita sono tra i più alti del paese. Gli annunci pubblicitari sui giornali "invitano gli ebrei di Tel Aviv e delle sue vicinanze a stabilirsi a Ma'aleh Ephraim" con vista sulla valle del Giordano e collegata a Gerusalemme da strade di circonvallazione, nell'ambito dello sviluppo che taglia praticamente in due la sponda occidentale. Gli annunci promettono piscine, enormi prati, e una genuina atmosfera agreste che vi assicurerà un'alta qualità di vita", con concessioni governative di 20.000 dollari per famiglia oltre a bassi tassi di interesse, sgravi fiscali e altri incentivi. Nel giugno del 1995 il sindaco della vicina Ma'aleh Adumin ha annunciato la costruzione di 6.000 nuove unità residenziali destinate ad accrescere più del doppio la popolazione della città portandola a cinquantamila anime negli anni a venire, accanto alla costruzione di viali, di negozi, di un nuovo municipio e di altri edifici. La rivista del partito laburista Daoar riporta che il governo Rabin ha conservato le priorità del governo di estrema destra Shamir che ha rimpiazzato; mentre fingeva di congelare le colonie, il partito laburista "le ha aiutate finanziariamente ancor più di quanto il governo Shamir abbia mai fatto", estendendo le colonie "ovunque nella sponda Occidentale, anche nei punti più provocatori", compresi gli insediamenti dei sostenitori (spesso americani) del rabbino (americano) Kahane, che è stato bandito dal sistema politico israeliano per aver invocato le leggi di Norimberga di Hitler e per altre scimmiottature dei nazisti.

In seguit

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