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Rabin ucciso due volte
by barbara Spinelli Monday, Sep. 15, 2003 at 3:56 PM mail:

.....e nessuno dice nulla

Rabin ucciso due volte

di Barbara Spinelli

La Stampa 14 settembre 2003

Le chiavi per capire la tragica storia contemporanea d’Israele non vengono da fuori, come spesso si pensa: vengono tutte dall’interno stesso del mondo ebraico, come ai tempi in cui Ezechiele chiamava il proprio popolo al suo dovere, e lo chiamava popolo di dura cervice e di cuore ostinato. E’ il caso di Ephraim Halevy, ex capo dei servizi segreti israeliani e consigliere dimissionario del primo ministro Sharon: è lui a dirci che da almeno nove mesi in Israele non si fa più politica

Si combatte una guerra fallimentare contro il terrorismo kamikaze dei combattenti palestinesi, si procede alla liquidazione fisica dei capi di Hamas senza capire che Hamas «rappresenta un quinto della società palestinese» e che con questo peso crescente occorrerà fare i conti, «negoziando anche con chi ha il sangue nelle mani». «L’improvvisazione e la sbrigatività regnano nel governo Sharon e sono divenute intollerabili», spiega Halevy ai giornalisti di Ha’aretz che lo interrogano.

Altri, come il deputato laburista Abraham Burg, sostengono che l’attuale gruppo dirigente in Israele ha seppellito per sempre il sogno sionista: non è possibile conservare al tempo stesso i territori occupati, l’esistenza di uno Stato a maggioranza ebraica, e il sistema democratico cui il sionismo dei padri fondatori diede vita dopo la seconda guerra mondiale. Occorrono rinunce, cui Sharon non vuole consentire. Occorre scegliere, e questo governo in Israele non è capace di scegliere. La sua battaglia contro il terrorismo è agganciata alla battaglia globale che conducono i dirigenti americani, e questa dipendenza dalla superpotenza statunitense non aiuta lo Stato di Israele a vedere quel che può fare qui, ora: con gli strumenti che gli son forniti dalla propria tradizione politica, nella terra ristretta che gli è assegnata, con i popoli e anche con i nemici che ha di fronte e che non può autonomamente scegliersi.

Copiare la politica americana vuol dire metter sullo stesso piano Bin Laden e Yasser Arafat, impegnarsi in una specie di guerra perpetua contro il male, e dunque rinunciare a quello che in passato scoprirono sia Moshe Dayan, sia Yitzhak Rabin. Dayan ebbe a sostenere che «solo i somari non cambiano opinione», il giorno in cui venne deciso di restituire il Sinai al nemico mortale che era stato per decenni l’Egitto. E anche Rabin scoprì che con l’avversario esistenziale occorreva scendere a patti.

La prima Intifada scoppiata nell’87 aveva trasformato il popolo palestinese in un vero e proprio nemico d’Israele, e nei conflitti è precisamente questo che di solito accade: l’antagonista fino a ieri invisibile acquisisce lo statuto di nemico visibile, e proprio grazie all’acquisizione di tale statuto può esser riconosciuto come forza politica ineliminabile, e accampare su questa base il diritto prima a una tregua, poi a una pace negoziata. «Con chi negozieremo, se non con il nemico?»: questa saggezza politico- militare, che fu di Rabin alla vigilia del negoziato di Oslo, è oggi uccisa una seconda volta, da chi in Israele ha il comando politico e militare.

In questa ripetuta uccisione della figura di Rabin è racchiusa tutta l’ambivalenza di Israele nei confronti della Forza, e anche del Potere politico. La forza e il potere sono al tempo stesso divinizzati e radicalmente esecrati. Sono usati e segretamente disprezzati, se non ignorati. Non si vuol negoziare con chi ha la forza di dare la pace (ad esempio Arafat), e al contempo si imputa mancanza di forza a colui con cui si accetta di negoziare (ad esempio l’ex Premier Abu Mazen). Solo il nemico cui si riconosce una forza è in grado di darti la pace, ma proprio questo è rifiutato. Si reagisce con forza ai sanguinosi attentati dei palestinesi kamikaze, ma questa forza o è eccessiva o è insufficiente, con il risultato che i capi di Hamas presi di mira dai militari israeliani non vengono né liquidati né trasformati in nemici addomesticabili dalla politica.

E’ accaduto nei giorni scorsi con lo sceicco Yassin, e con Al-Zahar portavoce di Hamas: una giusta reazione al dolore per la morte di innocenti israeliani si è trasformata in una improvvisata, approssimativa, sterile azione di vendetta. Un’azione n seguito alla quale nella classe dirigente palestinese si sono rafforzate le correnti irrazionali dei terroristi suicidi ­ quelle che si ripromettono la distruzione di Israele, quelle che scommettono sul ritorno massiccio dei profughi non nella futura Palestina ma in terra israeliana ­ e si sono indeboliti coloro che combattono Israele trattandolo come un nemico classico: come un nemico, appunto, che si contrasta ma che si riconosce come interlocutore dotato di ben tangibili diritti.

Questa ambivalenza verso la Forza ha origini lontane, secondo lo scrittore Abraham Yehoshua. Ha origine nel fastidio che l’ebraismo nutre verso le frontiere, verso il limite, verso il territorio circoscritto. Quando si è sommersi da simile fastidio non c’è bisogno di pensare l’utilità della forza, e l’obbligo di adoperarla con misura: non ce n’è bisogno né quando si vive in un ghetto né quando manca un chiaro confine da difendere; né quando si è rinchiusi né quando il territorio d’Israele è illimitato. Non esiste nemmeno un’autentica responsabilità politica, perché la politica è strettamente connessa al concetto di un territorio liberamente limitato. Il sionismo mise fine a questa indeterminatezza, con il suo progetto di creare - per la prima volta - un’identità statuale a disposizione degli ebrei, che fosse simultaneamente limitata nello spazio, liberamente consentita, e capace di evitare agli ebrei il destino, sempre esposto a pericoli, di minoranza etnica.

Come messaggio morale, il sionismo attrasse le menti di tanti ebrei perché interiorizzava la libertà, ma anche il senso del limite. Non esiste sionismo senza che prima o poi venga definita un’invalicabile frontiera - Yehoshua lo dice da anni - ed è tale consapevolezza che Sharon sta affossando, con stupefacente leggerezza e sbrigatività. Le guerre israeliane non sono solo contro il terrore, aggiunge Yehoshua: da quando è nato lo Stato sionista, sono quasi tutte guerre di frontiera, guerre attorno all’idea del limite.

E’ il motivo per cui Israele dà quest’impressione di regredire, nel momento in cui Sharon toglie a Arafat il diritto di chiamarsi nemico e si dichiara disposto a «rimuoverlo» da Ramallah dove abita. Si torna allo stato pre-bellico, quando l’antagonista non ha ancora uno statuto, dunque una visibilità. Si oscilla fra il desiderio di abolire la forza nemica e il desiderio di vedere il nemico organizzarsi come una forza razionale, sufficientemente strutturata per poter negoziare trattati politici. Il risultato, anche in questo caso, è di estendere lo spazio dell’irrazionalità e di restringere quello della razionalità, nel fronte avversario.

La regressione di Sharon non si limita a riportare Israele ai tempi che precedono Rabin, o Oslo. Lo riporta ai tempi di prima il sionismo, e propone l’impossibile convivenza di tre ingredienti: i territori occupati nel ’67, la difesa della democrazia, e l’esistenza di uno Stato a maggioranza ebraica. Burg spiega molto bene come sia impossibile aver tutte e tre le cose insieme. La democrazia in uno Stato d’Israele che dovesse comprendere anche i territori porterebbe alla ribalta la vera maggioranza delle terre che si estendono fra il Giordano e il mare: una maggioranza non di ebrei, ma di arabi palestinesi. Naturalmente si può avere anche questa democrazia, ma allora bisogna dirlo con chiarezza: sarebbe la fine del sogno sionista, dell’idea di uno Stato a maggioranza ebraica.

Per preservare il sogno sionista - Abraham Burg insiste su questo punto, nel suo articolo sull’Herald Tribune del 6 settembre - occorre che Israele rinunci ai territori, si dia una frontiera invalicabile, e sgomberi le colonie: non alcune, ma tutte le colonie. Altrimenti verrà il momento in cui bisognerà scegliere tra democrazia e apartheid, come in Sud Africa, e nessun democratico d’Occidente sceglierà a cuor leggero l’apartheid contro la democrazia e il principio di «un uomo-un voto», in nome della salvaguardia delle idee sioniste.

Gli israeliani fanno bene a puntare le carte sull’America, perché senza pressioni e aiuti esterni nulla si muoverà in Medio Oriente. Anche gli uomini più realisti fra i Palestinesi ne sono convinti. Ma ancora deve venire l’alleato che parli a Israele il linguaggio della verità, che lo metta davanti alle sue scelte più vere, che indichi i limiti della solidarietà occidentale con politiche che non dovessero essere democratiche. Che non trasformi lo Stato d’Israele e le sue ripetute guerre di frontiera - come fa l’America - in una variabile dipendente, e sempre spendibile, della propria politica, della propria guerra antiterrorista, e dei propri interessi nazionali."






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