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http://italy.indymedia.org/news/2003/10/410107.php Invia anche i commenti.

misteri vaticani
by redbeppe Monday, Oct. 27, 2003 at 5:42 PM mail: giuseppe_scano@hotmail.com

una inchiesta della vocedellacampania di ottobre 2003

A venticinque anni dalla scomparsa di Papa Luciani un'altra morte improvvisa
mette in fibrillazione le alte sfere vaticane. E' quella di Giorgio
Rubolino, uomo chiave nelle prime indagini sull'assassinio di Giancarlo
Siani. Ma anche il personaggio tirato in ballo davanti alla Commissione
Telekom Serbia. Un uomo che sapeva troppo? Cerchiamo di capirlo, partendo da
altri misteri vaticani.
di Andrea Cinquegrani
Vaticano in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta
la misteriosa - e mai chiarita - morte di papa Luciani dopo appena 33 giorni
di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di Mixer.
Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità ufficiale
poco, pochissimo credibile. Un'autopsia mai fatta, rapide perizie nel
segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che improvvisamente cede;
l'incredibile storia delle gocce di cardiotonico ingurgitate in eccesso dal
papa, l'altra - invece - a base di una digitalina che non lascia traccia.
Morto in piedi, oppure a letto? Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava
il nuovo organigramma dei vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere
nero su bianco le nuove regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti
a ogni ipotesi di trasparenza, col 'nemico' Marcinkus sempre alacremente
all'opera? E poi il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da
monsignor Balthazar: due ombre si introducono furtive nella camera da letto
di Luciani e nel suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa
pozione. Dall'Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop -
autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella 'morte' -
continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne 'suicidato'.
Così come venne 'suicidato', sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a
Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L'inchiesta è
riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia. "Il
rituale dell'esecuzione - scrive l'avvocato investigativo californiano
Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso edito in Italia da
Nuovi Mondi Media - è tipicamente massonico, con delle grosse pietre nelle
tasche". E la matrice? Levy punta dritto in una direzione: quella dei poteri
forti della Chiesa, rappresentati secondo lui dall'Opus Dei, che - scrive -
"ha desiderato ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si
trovano casualmente a Londra".
La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere
internazionale, viene così sintetizzata: "Mi spiegò che la banca di Calvi
era sull'orlo del collasso a causa della sparizione di centinaia di milioni
di dollari passati attraverso i flussi finanziari dello Ior che erano
collegati al riciclaggio di danaro della mafia. Preso dalla disperazione
Calvi si trasferì a Londra per ottenere un pacchetto finanziario di
salvataggio proveniente da un rappresentante anziano dell'Opus Dei".
L'operazione però, secondo la ricostruzione di Levy, non andò in porto e il
corpo di Calvi fu trovato 'appeso' sotto il ponte dei Blackfriars.
L'altra pista porta direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata
dell'affronto subito da Calvi, il quale non avrebbe restituito un'ingente
somma di danaro da 'ripulire' (utilizzato invece per riossigenere le casse
dell'Ambrosiano). Sul fronte dell'esecuzione, comunque, fa ancora capolino
la pista di camorra: "nei giorni in cui Roberto Calvi era a Londra -
ricordano a Scotland Yard - vennero segnalate diverse presenze interessanti:
quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi, fra cui Vincenzo Casillo".
Luogotenente di Raffaele Cutolo, soprannominato 'o nirone, in contatto con i
servizi deviati e in particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo
due anni dopo saltò per aria a Roma in un'auto imbottita di tritolo.
A fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di
riaprire le indagini su quella morte, a Roma l'inchiesta portata avanti dai
pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e Maria
Monteleone (casi Mitrokin e "spectre" all'italiana) si arricchisce di una
verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia, Vincenzo Calcara, per
l'omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti, elementi deviati dello
Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti vaticani.
E sotto il Cupolone ci porta anche un'altra esistenza - e un'altra fine -
avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura
ferragostana, immediata la diagnosi d'infarto che non perdona, niente
autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino alla
decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci più
chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare una
normale autopsia. Ma chi era Rubolino?
UNA VITA VORTICOSA
Il suo nome balza alle cronache nazionali per l'omicidio di Giancarlo Siani,
il giornalista ucciso il 23 settembre 1985 (vedi riquadro). Due anni dopo il
procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca a sé
l'inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di racimolare una
serie di flop. Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli,
un'avvenente bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano
le manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un 'gregario',
Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio
Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di magistrati nel pedigree (il
padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti che
contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene.
Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola, fino a
quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale di
un'inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e, soprattutto,
mandanti), Guglielmo Palmeri - sorrentino d'origine e in ottimi rapporti con
la famiglia Rubolino - lo rimette in libertà (due mesi prima erano stati
rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade il teorema Vessia, non regge
l'ipotesi di un omicidio eseguito dai Giuliano su ordine dei Gionta di Torre
Annunziata. E, soprattutto, sparisce la pista di via Palizzi. La pista che
portava alla casa d'appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra
cui Josephine e la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in
primis, magistrati e politici.
Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta alla
procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto finita in
prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli Castelli. Lo
stesso Miller - viene precisato in un documento al vetriolo elaborato dalla
camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 - ha subìto un procedimento
per "trasferimento d'ufficio" a causa di una serie di fatti, fra cui "l'aver
frequentato una casa di appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla
camorra negli anni 1984-1985 in via Palizzi". Lo stesso Miller seguirà il
caso Siani: collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel
pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza
colpevoli.
DA ROMA A LONDRA
Torniamo a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare
ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione dei
tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il
ricorso, confermando l'impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale, però,
non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai colpevoli. Né
agli esecutori, figurarsi ai mandanti.
Ma come era saltato fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo
dal filone di via Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini
sulle cooperative di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli
stavano aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo
San Giacomo.
Il Comune - allora retto dal socialista Carlo D'Amato - nell'autunno '85
diede disco verde per l'ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti
raggruppati in sei liste ("La carica dei settecento", titolò la Voce in una
cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un putiferio, una
fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle cooperative alla deriva.
"E' in quel contesto che veniva fuori anche il nome di Rubolino - ricordano
a palazzo di giustizia - una storia intricata, tra minacce, camorra, affari
e promesse. Insomma, una vera giungla". Rubolino, riuscì a cavarsela. "Ma
non la smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque
tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili".
Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende. Si
trasferisce a Roma. "Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare
da capo. Ce l'ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di opere di bene,
volontariato, assistenza", racconta un amico. "Non c'è riuscito a rompere
col passato - aggiunge un operatore finanziario capitolino - aveva perso il
pelo ma non il vizio, continuava a frequentare ambienti dai miliardi facili
e spesso inesistenti". Due versioni contrastanti.
Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce
nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100 milioni
di sterline ai danni di una vera e propria istituzione britannica, la
Cattedrale di San Paolo. Il classico 'pacco' organizzato secondo il miglior
copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo venuti qui (i Magi sono
cinque, due italiani, un finlandese, un canadese e un americano) per donarvi
la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica piccola, microscopica
condizione, quella che voi depositiate per dieci giorni, appena dieci
giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto svizzero. Nessuno li
toccherà quei soldi, assicurano.
La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino, viene
messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di Napoli,
che si era accodata con un suo filone investigativo, lo scagiona. E lui
avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per quella ingiusta
detenzione. "Ne aveva raccolti, comunque, di soldi per le denunce fatte
contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato per Siani - ricorda un
amico - soldi che donò in beneficenza".
STANLEY & PROMAN
Un anno fa la svolta sembra dietro l'angolo. Decide di cominciare a far sul
serio l'avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell'ordine di Roma.
Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione: c'è
ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento non ancora
chiuso, millantato credito. "Non è cosa - raccontano ancora nel suo
entourage - non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei suoi problemi, nella
sua tristezza di prima, quando subiva accuse e attacchi". La voglia di
business, comunque, non lo abbandona: per lui è una seconda pelle, una
droga, non può farne a meno. Ed eccolo entrare nei santuari della finanza,
acquisire partecipazioni azionarie, frequentare il mercato ristretto e la
City.
Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A quel
punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta "intestatario
fiduciario". Di chi, di cosa?
Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a
responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione di
lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel settore
elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo mondo. Un'altra
consistente fetta di Stayer - pari al 29 per cento del pacchetto azionario -
fa capo a Efi, ovvero European Financial Investments, a sua volta
controllata da un'altra sigla, Danter.
Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in amministrazione
controllata, per i problemi finanziari che stanno passando i fratelli
Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un pignoramento azionario
effettuato da un creditore, la Euroforex. E' per questo motivo che
l'assemblea straordinaria di Stayer convocata lo scorso 27 agosto per
deliberare l'aumento di capitale a 10 milioni di euro, è saltata. Ma non
solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel giorno, un dispaccio
dell'agenzia Reuter: "Il 26 agosto scorso Stayer ha ricevuto una
comunicazione dall'intermediario presso cui sono depositati i titoli che
informava del decesso di Rubolino e affermava che i diritti sulla
partecipazione spettano ai suoi eredi. Stayer - viene aggiunto nel
comunicato - non sa se e come Proman intende resistere contro questa
posizione dell'intermediario".
Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le
camere di commercio italiane, non v'è traccia di Proman spa. Né si segnala
alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi partecipazione azionaria
di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque, di scorrere la lista dei
soci targati Stayer. A parte due medi azionisti (Gianfranco Fagnani e
Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A parte un'italiana (BSPEG
SGR spa, una società di gestione del risparmio privato, con 140 mila
azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori fanno capo a Electra
Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power Tools International (30
mila azioni). A far la parte del leone c'è Ipef Parters Limited (664 mila
azioni), sigla londinese.
Osserva un operatore finanziario milanese: "Potrebbe esserci la presenza di
Ipef nell'azionariato di Proman. Il mistero comunque è fitto". E resta un
mistero, per ora, la destinazione finale delle azioni Proman: rimarranno
nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o che fine faranno? E cosa c'è
dietro il reticolo di sigle, incroci azionari, spesso e volentieri giocati
oltremanica? Un gioco forse pericoloso?
Il 28 luglio scorso, poi, l'infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo
un'inutile corsa all'Aurelia Hospital, "dove però è giunto privo di vita",
commenta in un dettagliato reportage il Mattino. L'autopsia - scrive il
solerte cronista, Dario Del Porto - "ha chiarito immediatamente la natura
del malore". E a scanso di equivoci aggiunge: "Del caso pertanto non è stata
neppure interessata la procura di Roma". E ancora, ad abundantiam: "sulle
ultime ore dell'uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino è stato colpito
da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante la notte
nell'abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da anni".
Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre - che si è svolta nella
chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, l'unica parrocchia dello Stato
Vaticano - per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini. "Si può,
quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio di avere avuto la
celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa ambita da molti nei
momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma in un luogo, qual è lo
Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza si intreccia con il perdono
come sofferente superamento dei peccati e degli atti illeciti commessi nella
vita".
Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a porsi
qualche interrogativo. Per celebrare in Sant'Anna ci vuole la chiave giusta:
"occorre una particolare autorizzazione - scrive Santini - ciò rivela che
chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha entrature nel mondo vaticano. I
parenti? Gli amici? Non è dato saperlo". Avvolti nel dubbio amletico,
riusciamo però a sapere che fra le personalità presenti alla cerimonia
c'erano "i parenti e gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio
Colombo e altri esponenti della borghesia napoletana".
A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois
Jehle.
Caso Siani a senso unico
Caso Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i
colpevoli dei clan torresi che - secondo la ricostruzione del pm Armando
D'Alterio - decisero ed eseguirono quell'omicidio. Una volta tanto, la
parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo
quali.
Il movente. Debole. Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. "Per punire
lo sgarro", hanno spiegato gli inquirenti. "In quell'articolo Siani faceva
capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per mettere le cose a
posto e recuperare l'onore, la cosa andava lavata col sangue". Credibile?
Possibile che una camorra allora più che mai rampante avesse deciso di
tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze dell'ordine?
Un articolo non (ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto.
Non ci vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso.
Quello che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della
Provincia di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile
dell'Osservatorio sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare,
capire e radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della
Camorra spa. Lamberti fu l'ultima persona a sentire Giancarlo, avevano
appuntamento per la mattina dopo, ma "lontani dal Mattino", come
raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la sera prima
l'abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva freddato a bordo
della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un passo da casa. "Non
era particolarmente preoccupato - ricorda Lamberti - però doveva dirmi una
cosa che gli premeva. Ed era urgente. Stava lavorando ad un'inchiesta per la
rivista dell'Osservatorio sugli intrecci politica-affari-camorra nell'area
torrese. Uno dei grossi affari, allora, era rappresentato da un'area, il
quadrilatero delle carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti,
sia sui referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e camorristi".
A corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di
Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno. La
Voce lo intervistò dieci anni fa. "Avevo incontrato diverse volte Giancarlo
in quegli ultimi mesi - affermava Di Maio - stava lavorando, mi raccontava,
a una grossa inchiesta sugli appalti nell'area stabiese. In particolare,
voleva capire se dietro al paravento di un'impresa ci fosse lo zampino di
qualche politico eccellente e operazioni di riciclaggio della camorra". Il
nome dell'impresa era Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura
della Buontempo Costruzioni Generali), quello del politico Francesco
Patriarca, ras gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina
mercantile. Di Maio cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza
riuscirci. "Mi presentai in procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi
disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di
persona l'indagine. Sono andato due volte in procura, dietro appuntamento,
ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la possibilità di
verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di Siani". Parole dure
come pietre. Mentre decine e decine di testi hanno fatto passerella davanti
alla mezza dozzina e passa di toghe che si sono alternate al capezzale di un
processo quasi impossibile.
Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a rivelare
qualche ombra nell'inchiesta, un 'buco nero' rimane ancora oggi lì a
lasciare spazio ai dubbi. "Giancarlo lascia la redazione di Castellammare -
ricorda - va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di Torre ma si
interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e dei rapporti
camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali, dopo la sua morte,
sono spariti". Una ricostruzione che lega perfettamente con quelle di
Lamberti e Di Maio.
Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. "C'era un'altra pista,
battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente. E' la pista di via
Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti forse inconfessabili. Tanti
anni fa ne parlò esplicitamente Corrado Augias nel suo Telefono GialloS poi
il silenzio più totale".
Chissà se il regista Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a
Napoli per completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a
"L'abusivo", il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura dell'esperto di
misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a vedere oltre i muri di
gomma che ancora circondano quella tragica morte. "Emerge - dice Risi alla
Voce - un delitto tuttora carico di misteri e interrogativi rimasti senza
risposta, nonostante i processi e le sentenze. Questa sarà la chiave del mio
film su Giancarlo".
Guardie e killer
Primavera vaticana '98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera
e una suora - sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto
riserbo - entra nell'alloggio di servizio del neo comandante delle Guardie
Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena raccapricciante:
tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da revolverate. Quello di
Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vice caporale Cedric
Tornay.
Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro
Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d'Italia. "Tra
i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa, Joaquin Navarro
Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell'Opus Dei; monsignor
Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria vaticana; e monsignor Pedro
Lopez Quintana, assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato
vaticana. La scena del delitto non viene sigillata, anzi già alla 21 e 30
sono decine le persone che si aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova
importanti vengono rimossi o spostati. A differenza di altri episodi
avvenuti all'interno del perimetro vaticano, come l'attentato al Papa,
nessuna richiesta di collaborazione viene inoltrata alle autorità italiane.
Delle indagini si occupa il Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora
dell'arrivo del magistrato, il Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva
sul posto un'ora dopo, mani ignote hanno già provveduto a perquisire non
solo l'ufficio, ma anche l'appartamento di Estermann e l'alloggio di Tornay.
Quando i corpi verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile
alle indagini. Anche l'autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all'interno
delle mura vaticane".
Detto fatto, non passano nemmeno tre ore - siamo a mezzanotte - e
l'infaticabile Navarro Valls può sentenziare: "I dati finora emersi
permettono di ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E'
tutto molto chiaro, non c'è spazio per altre ipotesi". Caso dunque chiuso in
180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal magico
cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una lettera
d'addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa Navarro) a un
commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e queste parole: "Se mi
succede qualcosa, consegnala ai miei genitori". Spiega il
portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve a tempi
di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi negli anni: la
missiva - precisa - è stata consegnata al Giudice Marrone, il quale la darà
ai parenti di Tornay in arrivo a Roma. "Spetterà ai familiari del vice
caporale - aggiunge Valls - decidere se rendere noto il contenuto della
lettera oppure no". Commenta Provvisionato: "Nella fretta l'astuto portavoce
della Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico.
Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta almeno
un'ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è cattiva
consiglieraS".
Intanto circola già qualche indiscrezione sull'imminente uscita del nuovo
libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato, del volume
d'inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla scomparsa di
Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che secondo l'ex
magistrato, sarebbe ancora viva.

DOPO RUBOLINO - LE OMBRE SULLA COMMISSIONE TRANTINO
LA TERRA DEL VITO
E' un copione popolato da personaggi campani, quello di Telekom Serbia. Non
solo il pool di consulenti del presidente, ma soprattutto le decine di nomi
tirati in ballo, quasi tutti al centro di inchieste della procura di Napoli.
Ecco, dalla A alla Zeta, i protagonisti di una vicenda tutta da chiarire,
compreso mister Centomila Alfredo Vito.
Di Andrea Cinquegrani
Una storia germogliata e sbocciata tutta all'ombra del Vesuvio? Possibile
che protagonisti, interpreti e comprimari del copione di Telekom Serbia
siano quasi tutti napoletani o comunque che le loro multiformi acrobazie
(finanziarie, societarie, massoniche etc.) si siano intrecciate dalle nostre
parti? Del resto la Campania - negli ultimi anni - è stata teatro di
misteriose operazioni arcimiliardarie (o presunte tali), fra intrighi
internazionali, cupole più o meno nascoste, servizi deviati, spioni, 007,
faccendieri, alti prelati, finanzieri, camorristi, piduisti e chi più ne ha
più ne metta. "A cominciare dall'operazione Adelphi - commentano in
Procura - è stato un susseguirsi di inchieste che spesso si sono allargate a
dismisura. Forse troppo". Molte, infatti, sono abortite, finite in flop,
passate ad altra procura, stralciate oppure archiviate. Insomma, una bella
fauna giudiziaria
Sulle tracce degli affari e dei riciclaggi arcimiliardari targati munnezza
si era mossa, una decina d'anni fa, Adelphi, che partendo da Napoli, via
mediatori politici e brasseur, passava nel casertano, tra i feudi di
Sandokan, Cicciotto e' mezzanotte & C., per approdare fino a villa Wanda,
nell'aretino, magione di Licio Gelli. Lo stesso Venerabile, anni dopo, è
stato convocato dai magistrati di Torre Annunziata Paolo Fortuna e Giancarlo
Novelli a proposito di un altro intrigo internazionale, l'inchiesta Cheque
to cheque, che si diramava fino nella profonda Russia del dopo Gorbaciov,
tra cappucci, grembiulini e traffici d'uranio. Simile il copione, del resto,
nella parallela indagine Phoney Money, condotta dal procuratore capo di
Aosta Anna Maria Bonaudo: uno dei nomi di quel 'copione', Gianmario
Ferramonti, leghista della prima ora, fa capolino in quelle carte e si
ritrova, oggi, nei faldoni di Telekom Serbia.
E ancora, sempre dalla procura di Torre Annunziata (contrassegnata nel
frattempo dal maxi scandalo che ha coinvolto l'ex numero uno Alfredo Ormanni
e il capo dei cancellieri, abile costruttore di fascicoli e processi
fasulli) è partita un'altra indagine-fiume i cui rivoli si sono diramati per
tutta Italia, fin nel Trentino: al centro, questa volta, traffici di
potentissime armi nucleari, uranio, perfine truppe mercenarie con il
coinvolgimento di ambasciatori, industriali, finanzieri; rimbalza anche il
nome di Giulio Andreotti (ora tornato prepotentemente alla ribalta con le
nuove rivelazioni sul caso Calvi e, prima ancora, con la ormai storica
condanna a metà: mafioso fino all'80, poi fiero oppositore delle cosche),
immortalato in una foto diplomatica con l'ambasciatore-intrallazzatore.
Fino alla spy story che ha catalizzato l'interesse dei media per una decina
di giorni a metà 2001: la Spectre di casa nostra, quella sorta di
intelligence parallela messa su da faccendieri, ex colonnelli, camorristi &
fauna varia per creare dossier falsi a carico di questo o quel nemico di
turno. In un vorticare di storie, riciclaggi & miliardi che portano fino
alla tigre serba Arkan, ai traffici internazionali di prodotti farmaceutici
e anabolizzanti, a commerci di droghe e sigarette lungo l'asse
Montenegro-Italia. Per aver divulgato alcuni particolari inediti di
quell'inchiesta - peraltro non coperti da alcun segreto istruttorio - la
redazione della Voce venne perquisita alle 6 di mattina da uomini dei
servizi, che sequestrarono anche tutto il materiale rinvenuto (per 40
giorni), più memorie di computer, floppy disk etc. Anche quell'inchiesta,
però, si è persa fra le solite nebbie.
Ma passiamo in rapida carrellata, nome per nome, protagonisti & interpreti
del copione di Telekom Serbia, sui quali la Voce ha indagato e scritto più
volte nell'ultimo decennio.

BOBBIO Luigi - Tra i fedelissimi di Agostino Cordova ai tempi del lavoro
come pm a Napoli, prima dello sbarco a palazzo Madama tra le fila di An. Per
anni ha fatto parte del pool antidroga in compagnia di Paola Ambrosio (anche
lei per un paio d'anni 'prestata' alla politica, forzitaliota, presidente
del consiglio regionale sotto la giunta Rastrelli). Fiero oppositore dello
sciopero in magistratura, è per la figura della giudice-macchina, mero
esecutore di leggi: insomma, la toga-computer. Come senatore, fa parte della
commissione su Telekom Serbia.
BOCCHINO Italo - Per un anno circa commissario di An a Napoli, rampante fra
i duri del partito di Fini. Al timone editoriale del quotidiano di destra il
Roma - l'ex foglio laurino - supportato dall'afragolese Antonio Pezzella,
pezzo grosso nei business targati Poste Italiane. E' genero di Eugenio
Buontempo, il costruttore-faccendiere della sinistra ferroviaria (per anni
compagno di Paola Ambrosio), socio d'affari di Francesco Pacini Battaglia,
protagonista della Tangentopoli partenopea con la chicca della flotta Lauro
acquistata per un pugno di soldi. Il nome di Bocchino fa capolino fra le
carte della maxi inchiesta su Alta Velocità & dintorni portata avanti dalla
procura di Roma e che già vide, a maggio '99, finire in galera - o ai
domiciliari - parecchi uomini di An (Antonio Rastrelli, Marcello
Taglialatela, Domenico Zuccarone). Fra i soci dell'editrice del Roma figura
anche la moglie di Massimo Buonanno, al timone con Agostino Di Falco (anche
lui in galera per l'inchiesta romana sulla Tav) dell'Icla, l'acchiappatutto
del dopo terremoto cara a Paolo Cirino Pomicino e a Vincenzo Maria Greco. Fa
parte della commissione Telekom Serbia.
D'ANDRIA Renato - I magistrati napoletani e romani (l'inchiesta sulla
Spectre è passata da una procura all'altra) lo accusano di essere il
co-regista (insieme a Sica) della creazione di un'intelligence parallela,
finalizzata all'attività di dossieraggio. Il suo nome rimbalza sulle
cronache locali e nazionali per un ventennio. Rampante imprenditore a inizio
anni ottanta, presidente della Confapi Campania, investe a 360 gradi:
dall'editoria (rileva da Leonardo Di Donna, un tempo dominus craxiano
all'Eni, il quotidiano il Globo; poi, sempre dal garofano, il Giornale di
Napoli), alle acque minerali (acquista l'Appia), alle lane (Borgosesia),
alle finanziarie (la Tecfinance diventa il suo scrigno). Poi, la buccia di
banana sarda, un fallimento (quello del gruppo alimentare Casar, vedi
riquadro) che lo porta agli arresti. Controlla l'emittente campana Canale
10. Suo avvocato di fiducia, fino al 2000, Carlo Taormina.
DEIANA Pio Maria - Ha fatto affari con lo smaltimento dei rifiuti tossici,
lavorando in subappalto anche per il parastato (gruppo Ansaldo in
particolare). Ex socio di Antonio Volpe (vedi) nella Janua Dei (oggi la
sigla è controllata da Pio Maria e dal figlio Roberto, mentre con la moglie
Francesca Genise è in sella alla Società Progetto Cina, sempre dedita alle
problematiche 'ambientali'), ha intessuto rapporti anche con Francesco
Pazienza (vedi), che poi lo scarica. Ed é lo stesso faccendiere a
'costruire' la storia dei rapporti fra Prodi e Deiana, proprio per una
affare in Cina.
DINACCI Filippo - Fa parte del pool di avvocati del premier Berlusconi. Una
carriera folgorante, la sua. Una dozzina d'anni fa era un avvocaticchio
senza né arte né parte in quel di Santa Maria Capua Vetere, dove per
sbarcare il lunario patrocinava cause perse: come una a suo stesso favore,
per un cacciavite volato da un balcone sul tetto della sua Opel,
graffiandola. Prende carta, bolli & penna, Dinacci junior, e cita in
giudizio presso il tribunale civile di Napoli il lanciatore: vuole due
milioni di vecchie lire, l'assicurazione della controparte offre solo
450mila lireS Come sarà poi andata a finire? Male, sicuramente male, qualche
anno dopo la sua corsa verso il Parlamento, sotto le insegne dc, gavianeo
doc. Nel '94 si presenta per la destra. Suo padre, Ugo, è salito alla
ribalta delle cronache, nel '96, come capo degli ispettori ministeriali al
tempo di Alfredo Biondi ministro di grazia e giustizia (nella formazione
odierna milita oggi Arcibaldo Miller, ex pm a Napoli e poi a Santa Maria
Capua Vetere). Un ispettore un po' troppo zelante, Dinacci senior, tanto da
essere messo sotto inchiesta dai magistrati bresciani con l'accusa di aver
esercitato pressioni su Antonio Di Pietro, a tal punto da costringerlo ad
abbandonare la toga. Il successivo guardasigilli, Vincenzo Caianiello, lo
rimosse dal suo incarico di capo degli 007 di via Arenula (rinnovando il
team al completo). Da quelle accuse uscì scagionato; ma dei reali motivi che
condussero Di Pietro a lasciare la magistratura non è mai stato accertato
nulla. Un altro dei misteri italiciS
LONGO Guido - Ex capo centro della Direzione investigativa antimafia a
Napoli. In passato, ha condotto indagini su Antonio Volpe (vedi) ed ha
lavorato su parecchi casi per conto della procura di Napoli: in particolare,
le inchieste sugli affari della massoneria deviata (Spinello & C., vedi), e
sulla Spectre partenopea (Sica & C., vedi). Oggi si rimbocca le maniche per
il ministero degli Interni e svolge un'azione di coordinamento tra il
Dipartimento di pubblica sicurezza che fa capo al Viminale e la stessa
commissione parlamentare che indaga sull'affare Telekom Serbia.
MARINI Igor - Il numero uno, il superpentito, la gola profonda della
commissione Trantino. Fresco di nozze, un anno fa, con una misteriosa donna
napoletana. La felice sposa viene ritratta, come nei migliori copioni stile
Dinasty, svolazzante in piazza del Plebiscito, sullo sfondo la basilica di
San Paolo. Sono lontani i giorni - pure da poco trascorsi - del facchinaggio
al mercato ortofrutticolo di Brescia.
PASCUCCI Vittore - Avvocato, brasseur d'affari, originario di San Bartolomeo
in Galdo, terzo contribuente a Roma nell'85, Pascucci fa capolino in
un'infinità di operazioni finanziarie, a livello nazionale e internazionale:
sempre in compagnia di personaggi poco raccomandabili. Sulla stampa
economica, il suo nome compare per la prima volta, a inizio anni novanta, a
proposito di un misterioso istituto di credito estero, Eurotrust Bank, con
sede ad Anguilla, nelle Antille olandesi. Suo socio era l'ex playboy romano
Pierluigi Torri, titolare del celebre Number One, arrestato nel 1977 a
Londra per una storia di droga, fuggito dalle galere britanniche, tornato in
Italia e uscito indenne dai vari iter giudiziari. Una "instant bank",
Eurotrust - secondo la colorita descrizione degli analisti finanziari -
capace di compiere le più incredibili operazioni di lavaggio di danaro,
titoli, azioni e quant'altro in un battibaleno: per la serie, dal
riciclatore al consumatore (evidentemente gabbato). Il pallino di Pascucci,
però, sono le assicurazioni: il suo gioiello è Pan.Ass., che proprio sulla
piazza napoletana fa la sua fortuna a metà anni ottanta. Un portafoglio -
ricordano ancora oggi i broker partenopei - pieno di patate bollenti e di
affari poco chiari. La compagnia viene commissariata, il Tar del Lazio,
però, gli dà ragione. La compagnia, comunque, passa sotto il controllo di
MultiAss, collegata alla finanziaria di salvataggio Sofigea. Risalgono a
quegli anni i rapporti d'affari con Paolo Viscione, altro acrobata nel campo
delle polizze, allora a sua volta in ottimi rapporti col re delle
assicurazioni a go go, Ninì Grappone, anni più tardi - invece - vicino al
gruppo Themis dell'avvocato Lucio Varriale. Nel pedigree di amicizie,
comunque, spiccano nomi di ben altro rango. Come Pasquale Galasso, il boss
di Poggiomarino, e il suo riciclatore doc Giuseppe Cillari, protagonista
della scalata al famoso Kursaal di Montecatini. E poi, Giuseppe Jaquinta,
l'ennesimo avvocato-faccendiere, lo "sceicco di Baronissi", fermato dieci
anni fa a Chiasso con la 'valigia del tesoro': miliardi in titoli falsi,
danari da riciclare, progetti per faraonici progetti in Medio Oriente e chi
più ne ha più ne metta. Jacquinta, a sua volta, era legato a doppio filo con
Marco Cordasco, altro riciclatore in guanti bianchi del clan Galasso, inizi
di carriera alla Imec di Torre Annunziata del gruppo Apreda.
PAZIENZA Francesco - Un nome, una storia. Sinonimo di servi deviati, P2,
spioni e depistatori; di riciclaggi & affari. Di sangue e misteri
eccellenti, da Sindona a Calvi. Uno dei suoi capolavori per i Servizi è la
gestione del rapimento Cirillo, dove riesce ad ottenere la legittimazione
per la Camorra spa, allora rappresentata dalla Nco di Cutolo ma già pronta a
cambiare pelle nella Nuova Famiglia imprenditrice. E' il 'regista' occulto
dell'affare-prefabbricati nell'Irpinia nel dopo terremoto. Nella trattativa
per la liberazione di Cirillo, ad esempio, Pazienza individuò nel
costruttore irpino Sergio Marinelli il terminale per una sfilza di
subappalti. "Quando venne sequestrato Cirillo - dichiarò agli inquirenti il
'pentito' Giovanni Auriemma - i servizi segreti sembrarono impazzire, poi
Pazienza e i suoi uomini ci contattarono a più riprese. Volevano che ci
adoperassimo per la sua liberazione. Ci proposero, oltre a una somma del
riscatto, favori processuali e la strada spianata per gli appalti della
ricostruzione". In più, Pazienza promise ai capi della Nco - la trattativa
fu con Vincenzo Casillo, 'o nirone - il 5 per cento sull'importo dei lavori
che le aziende del Nord avrebbero ricevuto per il post terremoto. "Lui ci
fece i nomi di grosse ditte che ci avrebbero garantito i subappalti -
verbalizzò ancora Auriemma - noi gli demmo i nominativi di alcune società di
nostra fiducia. Venivamo informati in anticipo degli stanziamenti per i più
importanti appalti della regione. Il ricavato degli affari doveva poi essere
diviso tra noi della camorra e l'ala dei servizi legata a Pazienza". Fra i
grandi 'amici' di Pazienza il superlatitante della Nco il cui destino è
ancora avvolto nel più fitto dei misteri, Pasquale Scotti. "Lui e gli altri
capi della Nco - erano le parole di Auriemma - s'incontravano con Pazienza
in continuazione a Roma, ma anche a Napoli, Avellino, Acerra. Una volta
andarono insieme sullo yacht con Alvaro Giardili, il socio di Pazienza, e
alcune bellissime ragazze. E quella volta Scotti mi disse che il generale
Santovito cominciava a dare fastidio". E Santovito, dopo qualche mese, passò
a miglior vita.
PINTUS Curio - Finanziere d'assalto di origine sarda. Per la prima volta il
suo nome compare tra i fascicoli di un'inchiesta aperta dalla Direzione
Distrettuale Antimafia di Firenze a fine anni novanta. Un maxi giro di
titoli e danaro - per una valore stimato in circa 1200 miliardi di vecchie
lire, secondo alcuni invece solo virtuale - transitati per istituti e
sportelli bancari di mezza Europa, soprattutto tramite libretti al portatore
(fu la stessa tecnica, per fare un solo esempio, utilizzata dal
commercialista faccendiere Vincenzo Pinzarrone per dare la scalata al Napoli
Calcio nel '97). Uno dei transiti più frequentati delle acrobatiche
operazioni architettate da Pintus e C. (tra cui svariati campani, come
Giuseppe Di Cristofaro, Ernesto Ludando, Martino Passananti e Carmelo Russo)
è proprio una piccola banca salernitana, la Cassa di Serre, a quel tempo
diretta da Passananti. Nei vorticosi giri - descriveva la Voce nel giugno
1999 - si cimentano parecchi partners, "mafia russa e siciliana, Cia,
servizi segreti, massoneria, uomini del Vaticano, faccendieri che lungo
l'asse La Spezia-San Marino-Napoli-Salerno fino agli Usa falsificano,
importano, esportano capitali, libretti di deposito, valuta interna ed
estera. La stessa gang - veniva precisato - che ha cercato di dare la
scalata alla Banca di Sarajevo". Titolare di Soliman Finance, un vero e
proprio forziere di partecipazioni societarie, Pintus fa poi capolino nel
Gruppo Zeta, capace di spaziare fra Italia, Olanda, Germania e
Centroamerica, impegnato soprattutto nell'import-export di prodotti tessili.
Proprietaria di Zeta è un'altra misteriosa sigla, Sidema, che fa capo a
Donatella Zingone, consorte dell'ex ministro degli Esteri Lamberto Dini, e
ad uno spezzino, Oreste Lauretti, socio d'affari di Pintus (il quale, a sua
volta, ha tentato addirittura la scalata alla Roma calcio in compagnia
dell'ex leone ruggente da Perugia Giancarlo Parretti, sfortunato acquirente
del colosso Metro Goldwin Mayer). Altri giri, altri affari. Eccoci a Città
di Castello, dove Pintus & C., a bordo di Soliman, sbarcano per comprare
tutto: dal complesso settecentesco della Montesca, alle squadre di calcio e
pallavolo. Per approdare in Calabria e al feeling col capo della 'ndrangheta
di Africo Leo Talia, una poltrona nella commissione di Cosa nostra: un
affiatato tandem per riciclare a tutto spiano in Italia e all'estero, meta
prediletta l'Argentina.
ROBELO Alvaro - Ex ambasciatore del Nicaragua in Vaticano. Nel suo paese si
candida addirittura per le presidenziali, senza successo, con la liste
"Arriba Nicaragua" (Forza Nicaragua). Massone, il suo nome compare -
storpiato in Ropledo - fra i velenosi dossier della commissione Trantino. Un
nome che aveva fanno capolino anche nell'inchiesta Phoney Money, in combutta
con il brasseur leghista Ferramonti.
RUBOLINO Giorgio - Il suo nome rimbalza nei dossier nella commissione
Telekom Serbia. E' uno dei vari nomi che Trantino sottopone al vaglio
dell'avvocato d'affari romano Fabrizio Paoletti, con la domandina di rito:
"Conosceva tizio?". Chi ha suggerito il suo nome? E' uno degli interrogativi
più inquietanti (vedi l'inchiesta di apertura della Voce).
SICA Pietro - Ex colonnello dei carabinieri (come il fratello Raffaele, che
aveva per obiettivo una poltrona ai vertici alla Dia di Napoli), accusato,
nell'inchiesta sulla Spectre partenopea, di essere molto abile nel tirar
fuori dal suo cilindro dossier fasulli a carico di 'nemici' dei suoi
committenti, fra cui Renato D'Andria (vedi). Un uomo, Sica, dal "micidiale
grado di attività criminale", viene descritto dai pm. Nel suo pedigree,
comunque, figurano svariati capi d'imputazione: dal concorso nel reato di
416 bis finalizzato al contrabbando; al traffico di valori per un'ottantina
di miliardi; fino alla bancarotta fraudolenta e al falso in bilancio. Come
contorno, truffe alle assicurazioni, all'amministrazione militare, all'Aima;
e ancora, carte d'identità false, traffici di sostanze anabolizzanti. Per
finire con la chicca: l'aver agevolato il clan Alfieri attraverso "illecite
rivelazioni sulle verbalizzazioni dei pentiti". Fra i suoi amici del cuore,
Melchiorre Romano, quarantacinquenne originario di Torre Annunziata e
trapiantato in via Capo Le Case, nel cuore della Roma bene, a un passo da
piazza di Spagna: secondo gli inquirenti, Romano rappresenta il trait
d'union con le cosce del Montenegro, e in particolare con la gang della
tigre Arkan. Non è finita: perché l'ex colonnello Sica ha frequentato anche
ambienti ministeriali eccellenti, in particolare quelli del Tesoro: qui,
infatti, faceva frequenti visite all'eminenza grigia di quel dicastero,
Vincenzo Chianese, napoletano, presidente del collegio sindacale della TAV
spa fino al suo arresto, avvenuto nel 1999, per ordine della procura di Roma
che indaga sul maxi business dell'Alta velocità e di altri mega appalti
arcimiliardari.
SPINELLO Nicola - Figlio di Salvatore (vedi). E' coinvolto nella stessa
inchiesta su affari, mafia & massoneria.
SPINELLO Salvatore - Siciliano d'origine, napoletano d'adozione. Uno che di
mafie & massonerie se ne intende, Spinello, indagato dalla procura di Napoli
(il fascicolo è stato trasmesso anche al pm capitolino Luca Tescaroli) per
una serie di inquietanti episodi: a curare quell'inchiesta, i pm napoletani
Antonio D'Amato (oggi fra i consulenti togati del presidente della
commissione Telekom Serbia Trantino) e Arcibaldo Miller, nel pool degli
ispettori ministeriali nominati dal guardasigilli Castelli. Agli atti,
numerose conversazioni fra Spinello e Angelo Siino, il 'ministro dei lavori
pubblici' di Totò Riina. Parlano un po' di tutto, i due. Di salotti romani,
di incontri ministeriali, di uomini in grembiulino e cappuccio. Perfino di
Giovanni Falcone, e dei suoi incarichi prima di essere ucciso. Ma
soprattutto, i due, parlano di affari. Nei paesi d'oltrecortina (soprattutto
traffici di uranio coi paesi dell'est) e anche a casa nostra; e uno dei temi
preferiti è la Tav, l'Alta velocità, alla quale sono interessate parecchie
imprese 'amiche' (di cui si fanno anche i nomi). Saranno quelle contenute
nell'informativa elaborata dai Ros a fine 1990 e finita sul tavolo di
Falcone qualche mese prima saltare in aria a Capaci con moglie e scorta? Uno
che sembra conoscere a memoria segreti & intrighi dei palazzi, le vie
d'accesso agli appalti miliardari, i giusti mediatori e gli apripista ad
hoc. Un nome fino a quel momento - siamo a inizio 2000 - in pratica
sconosciuto, piomba fra le cronache giudiziarie. Per poi tornare subito
nell'ombra. Ora, rieccolo con l'affare Telekom. Ma che fine avrà mai fatto
quell'inchiesta massonica? Un'altra sparizione annunciata nei porti delle
nebbie?
TAORMINA Carlo - Il burattinaio? L'amico del burattinaio? O che? Lui - alla
Rivaldo - proclama le dimissioni dal parlamento. Per fare mezza marcia
indietro il giorno dopo. E' il legale di Giovanni Fimiani (vedi riquadro) e
di Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne. Il delitto senza colpevole, senza
motivo, senza pietà. Senza soluzione. Un tunnel senza fine. Poche certezze.
Una su tutte. La famiglia Franzoni dopo alcuni mesi, improvvisamente, senza
un plausibile motivo, cambia di 180 gradi strategia difensiva. E,
soprattutto, il difensore. Si passa da un cattedratico doc, un principe del
foro come Federico Grosso, padre di codici e pandette, alla sua perfetta
antitesi: la toga d'assalto, senza peli sullo stomaco, Carlo Taormina. Dal
bianco al nero. Un passo indietro. I Franzoni vengono da Bologna, lì hanno
trascorso molti anni della loro vita; lei, Annamaria, è cugina della moglie
di Romano Prodi, anche lei una Franzoni. E sarebbe arrivato proprio dalla
famiglia Prodi, all'inizio, il suggerimento di Grosso come il nome giusto da
giocare per una battaglia legale di tale difficoltà: un calibro del genere,
ormai poco avvezzo alle aule, che scende in campo, come nella tradizione dei
maestri del thriller made in Usa. E lui, il professore, si rimbocca le
maniche. Poi, un bel giorno, il cambio di rotta. Perché? Il 'burattinaio'
del caso Telekom-Serbia, Taormina, grande accusatore di Prodi & C.,
sostituisce Grosso, consigliato da Prodi ai suoi parenti (per via di moglie)
felsinei. Cosa c'è dietro? Quale copione? VITO Alfredo - "Giuro che non farò
mai più politica". Così il supercattolico mister Centomila (tante e anche
più erano le preferenze che cumulava regolarmente a ogni tornata elettorale)
promise solennemente davanti ai giudici all'udienza di un processo per
tangentopoli. Dalla quale è uscito praticamente immacolato, restituendo
cinque miliardi del maltolto. Il titolare della prima immobiliare
napoletana, Alfredo Romeo, lo definì "una cavalletta", per le continue
richieste di danaro. Era in procinto, nel 1992, di comprare un maxi attico
da 5 miliardi (guarda caso la stessa cifra poi restituita): versò una
caparra da 200 milioni (assegno tratto dal suo conto corrente alla Banca
della Provincia di Napoli), poi persa perché - dopo un articolo della Voce
che forniva 'in tempo reale' alcuni dettagli della trattativa - preferì
mandare a monte l'operazione. Sulla vicenda la procura di Napoli aprì un
fascicolo: a condurre l'inchiesta il pm Alfredo Sbrizzi, oggi fra i
magistrati-consulenti della commissione, di cui - in veste di deputato - fa
parte lo stesso Vito. Uno dei 'misteri' più grossi concerne gli incontri fra
Vito e Volpe (vedi), e anche il periodo del primo incontro. "Si conoscono da
una decina d'anni - ricordano alcuni vecchi dc - quando Volpe stava con
Vairo". Lui, Vito, smentisce, e parla di un solo incontro con Volpe. Quello
di luglio. Non dello stesso avviso, però, le Fiamme gialle, che un mese più
tardi, a settembre, scoprono Vito e Volpe a scambiarsi documenti in piazza
San Silvestro. Quante bugie, mister CentomilaS
VOLPE Antonio - Una delle gole profonde della commissione Trantino. Bazzica
ambienti neofascisti, piduisti, comunque di affaristi. Esattamente dieci
anni fa è uno stretto collaboratore del dc casertano Gaetano Vairo, a quel
tempo presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere: lui, Volpe,
coordina il gruppo che si occupa della 'sicurezza' di Vairo. Tra gli amici
'neri', Marco Affatigato, Loris Facchinetti (col quale dà vita al gruppo
White Helmets Europe), Stefano Delle Chiaie. Intreccia rapporti e affari con
Francesco Pazienza: è un'indagine della procura capitolina di fine anni
ottanta a sottolineare le connection fra i due. Così lo dipinge il socio
Pazienza: "Napoletano, in odore di camorra, truffatore, pluriarrestato".
Frequenta gli ambienti vaticani, Volpe. E' in contatto con le alte gerarchie
dei gesuiti; ha accesso nelle ovattate stanze dello Ior: ed è scritto su
carta intestata della cassaforte vaticana l'ormai famoso 'prospetto
finanziario' con le tangenti Telekom per i versamenti su conti sanmarinesi:
il prospetto - in suo possesso - viene poi ritrovato nello studio di
Fabrizio Paoletti. Infine, le frequentazioni di palazzo San Macuto; gli
incontri con Alfredo Vito (vedi). Volpe - ciliegina sulla torta - è uno dei
protagonisti assoluti dell'inchiesta sulla massoneria deviata (vedi alla
voce Spinello), condotta dal pm della procura di Napoli Antonio D'Amato
(insieme ad Arcibaldo Miller), oggi componente del pool di Trantino. Poteva
non conoscere, D'Amato, lo 'spessore' di Volpe?

D'Andria e il Gran Maestro
Il mio nemico numero uno? La massoneria. Che continua a perseguitarmi". Non
usa mezzi termini il finanziere Renato D'Andria all'indomani dei dossier di
Repubblica sull'affare Telekom Serbia che riportano alla ribalta il suo
nome.
Ma perché i confratelli incappucciati dovrebbero avercela proprio con lei?
La guerra è cominciata nell'82, quando rilevai la Casar, impresa controllata
da una finanziaria pubblica sarda. Gli accordi sottoscritti con i
responsabili della Regione Sardegna erano che avrei ripianato i 7 miliardi
di debiti dell'azienda, ma scoprimmo che in realtà quel passivo ammontava a
30 miliardi. Col penalista Luigi Concas presentai una denuncia alla Procura
della Repubblica di Cagliari. Misi sotto accusa il gruppo dirigente
regionale. Compreso l'allora capogruppo repubblicano, il Gran Maestro
Armando Corona. E me la fecero pagare. La Casar fu in seguito affidata ad un
gruppo di coop locali, che dal 1983 ad oggi hanno perso oltre 80 miliardi di
lire, documentati nero su bianco.
E secondo lei anche oggi c'è una "mano massonica" dietro i personaggi che la
tirano in ballo per Telekom Serbia?
E' un'ipotesi possibile. Ma non l'unica.
Per esempio?
Premesso che a quelle vicende sono completamente estraneo, non conosco
nessuno di quei personaggi, tranne Deiana, col quale ebbi molti anni fa un
fugace rapporto di lavoro con una azienda orbitante allora nel mio gruppo,
la De Bartolomeis. Deiana ci commissionò un grosso lavoro per impianti di
depurazione in Cina. Poi non se ne fece niente, perché non poteva pagare.
E Longo, la persona che avrebbe fatto il suo nome alla Commissione Trantino?
Non l'ho mai conosciuto. So che si era occupato di me per la vicenda della
presunta spy story.
A che punto è quell'inchiesta?
Finora non ho avuto alcun rinvio giudizio. I magistrati romani Monteleone e
Piro lo avevano chiesto, ma siamo ancora davanti al gup.

E Taormina, che fu a lungo il suo avvocato? Lui, almeno, lo conosce bene.
Certo. Dovette lasciare la mia difesa proprio in occasione della cosiddetta
spy story, perché nel frattempo era diventato deputato. So comunque che non
è stato lui a fare il mio nome.
A parte la pista massoneria, che spiegazione si è dato? Se davvero fosse
stata una trama preparata a tavolino, cosa c'entra Renato D'Andria?
Se questa fosse la ricostruzione, certi nomi buttati sul tavolo e tratti da
inchieste diverse, senza connessione fra loro, darebbero l'idea di un
depistaggio, di un fumo creato appositamente.
E il presidente Trantino? Fino a che punto, secondo lei, poteva esserne
consapevole?
Credo che Trantino ne sia assolutamente estraneo. Ma il mio dubbio è
soprattutto un altro.
Quale?
I motivi dell'attacco personale che mi ha sferrato Repubblica. Hanno dato
per scontati alcuni elementi di un'inchiesta giudiziaria (quella romana
condotta da Monteleone e Piro, ndr) che é tuttora nella fase delle indagini.
Per questo ho già dato mandato ai miei legali di citarli in giudizio.


Re di dossier e pommarole
Lui, un piccolo industriale di pommarole dell'agro nocerino sarnese, era in
prima fila per comprare la Sme, il colosso alimentare del gruppo Iri. Suoi
concorrenti, calibri come Barilla e Buitoni, Berlusconi e De Benedetti. Si è
sentito grosso (quintale abbondante a parte di peso forma), grande come
loro, Giovanni Fimiani da Cava dei Tirreni. E lui, il self made man - come
pompava il Mattino - era lì, solo con la forza delle sue braccia e del suo
sudore, Davide contro i Golia del mercato. Lui, però, sa offrire di più: 640
miliardi di vecchie lire. Altro che i 450 e rotti del plutocrate padrone
dell'EspressoS
Siano a metà anni ottanta, l'asta per il vacillante - ma pur sempre
appetibile - colosso alimentare è appena iniziata. Ma già s'infuoca. La Voce
cerca di seguirla con attenzione. E scopre che il signor Fimiani, la cui
offerta è la più alta, ha difficoltà a pagare i debiti della sua azienda, la
Cofima, che ha sparato la bordata da 640 miliardi. E perfino i conti della
cameriera. Nel bollettino protesti della Camera di Commercio, infatti, il
nome di Fimiani sig.Giuseppe risulta regolarmente annotato (fra i
protestati): per assegni a vuoto - quando erano ancora un reato penale - da
5 milioni, 10 milioni. Non salda il conto col supermercato - minimizzava
qualcuno a Cava - forse perché sta per comprare tutta la catena. Miracoli di
San GennaroS
Prodigi a parte, Fimiani querela la Voce. In particolare, querela
l'articolista, il direttore, la società editrice, il grafico, il
distributore, perfino la ditta incaricata di etichettare e cellofanare la
rivista per l'invio postale. Non si sa sai, avrà pensato, meglio abbondare.
Ecco il motivo-base che ha scatenato le sue ire: l'articolo della Voce lo ha
ridicolizzato, facendogli sfuggire di mano un affare praticamente già
concluso. Per questo il mensile va condannato, anche al risarcimento dei
danni, perché - scriveva testualmente - l'articolo è stato ispirato dal mio
concorrente, Carlo De Benedetti.Non c'è stato bisogno del neurologo per
archiviare la querela, è bastata un pronuncia del tribunale penale di
Napoli.
Dopo quasi vent'anni Fimiani si sente nuovamente offeso. Dall'inchiesta di
copertina della Voce di giugno scorso, dove venivano ricostruiti i recenti
sviluppi del caso Sme, freccia nell'arco di Berlusconi (oltre Telekom
Serbia) per attaccare al cuore l'opposizione ulivista. Uno dei dardi più
acuminati del cavaliere è proprio l'uomo che voleva soffiarla a De
Benedetti, il piccolo industriale che si è fatto nella sua trincea di lavoro
sarnese: è lui che ha le carte giuste per incastrare De Benedetti, Prodi e
mandare a casa i comunisti! Così comincia il fitto invio di documenti,
dossier, atti & materiali da Cava dei Tirreni ai quartieri generali nella
capitale di Sua Emittenza. E' proprio un libello dello scrittore ufficiale
di Arcore, Lehrer, ad individuare in Fimiani una sorta di 'asso nella
manica' del Cavaliere. La Voce non fa altro che riportare le notazioni
dell'agiografo berlusconiano, e ricordare le passate vicende del signor
Fimiani, la cui scalata al colosso Sme scivolò su una serie di cambiali
protestate.
A un paio di settimane dall'uscita dell'articolo, alla redazione della Voce
arriva una telefonata. E' Fimiani, che vuol sapere il motivo dell'attacco a
lui. Non è comunque risentito. A stento ricorda la passata querela. Per una
ventina di minuti, poi, è una sorta di monologo. Sintetizzabile in poche
parole: non vi querelo. Anzi, voglio darvi dei materiali. Ho una montagna di
carte, si può scrivere molto su quella vicenda.
La Voce non lo mai chiamato. A metà settembre siamo stati convocati dai
carabinieri di Secondigliano. Era arrivata una querela, dovevano
identificare il direttore e l'autore dell'articolo incriminato. A querelare
era Fimiani. Il suo avvocato si chiama Carlo Taormina.








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