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L'assassinio di Shaikh Yassin, visto dall'interno di una Universitą egiziana
by magius Tuesday, Mar. 23, 2004 at 6:59 PM mail:

L'assassinio di Shaikh Yassin, visto dall'interno di una Universitą egiziana e raccontato da una insegnante italiana in Egitto.

Il Lunedi' mattina io parto all'alba per l'Alto Egitto.
Questa mattina, poi, mentre il mio taxi varcava la soglia del campus io ero al telefono con un'amica: una parte del mio cervello ha registrato che stava succedendo qualcosa di strano, ma la mia attenzione era altrove.

Salendo le scale, comunque, non me lo spiegavo: cosa ci facevano quei gruppi di studenti incazzati in giro per i vialetti?

Non ho fatto in tempo ad aprire la porta dell'aula del III anno, che me lo hanno detto.
"Prof, ha saputo?"
"Cosa? Che succede?"
"Israele. Hanno ucciso Shaikh Yassin."

Continuiamo a prenderci le misure, io e i ragazzi.
Stiamo facendo conoscenza misurandoci i rispettivi lutti e le rispettive indignazioni. Da quando seguivano la faccenda del velo col fiato sospeso alle bombe a Madrid, e adesso questo.

Comincio a prevedere il tipo di reazione di ognuno di loro, li sento.

La ragazza attentissima con lo sguardo severo che si illumina quando spiego letteratura, io lo sapevo che sarebbe stata la piu' apertamente dura: "Hanno giurato vendetta, i palestinesi, e dovra' essere una vendetta terribile."

Il gruppo dei passionali che ha tante cose da dire, e tanto in fretta che non capisci nulla e devi letteralmente obbligarli a parlare uno alla volta: "Ma quale Arafat?? Arafat non ha fatto nient'altro che chiacchiere!! Solo parole, ha saputo dare alla sua gente!"

La cristiana del primo banco: "Era un grand'uomo. Un sacco di anni nelle carceri israeliane. Ne era uscito distrutto ma non si arrendeva mai."

Un'altra, con le mani nei capelli: "Chissa' cosa succedera' al Cairo... la polizia carichera' gli studenti, come l'anno scorso..."

Facce scurissime, tiratissime. Erano sconvolti.

Altrove stavano preparando la manifestazione, intanto.
Richiesta di autorizzazione al Rettorato, arrivo della polizia, firme degli aspiranti manifestanti su fogli appositi.

Poco dopo, avevamo il corteo sotto le finestre.
Professori (riconoscevo diversi colleghi) e, dietro, gli studenti. Una marea, un fiume.

I ragazzi, compatti, che gridavano slogan.
E, dietro, il fiume colorato delle ragazze, altrettanto urlanti e tutte mano nella mano.

Pazzeschi, in Alto Egitto. Riescono a stare separati pure quando devono manifestare.

"Cosa gridano? Me lo traducete?"
"Gridano 'Non si tocca Shaikh Yassin' e 'La pagherete'."
Mi giro e la ragazza piu' vicino a me sta piangendo. "Oddio, no, dai..." e allungo una mano per accarezzarle la spalla. Mi guardo attorno e stanno piangendo tutte. Ho poco da consolare, qui. Persino qualche maschio ha gli occhi rossi.

"Sentite, ragazzi, le firme le ho prese. Se volete scendere in manifestazione, andate senza problemi. Capisco benissimo."
"No. E' inutile, non abbiamo voglia."
"E allora asciugate gli occhi e si fa lezione. O l'uno o l'altro."
"Ok, lezione. Grazie per la comprensione, pero'."

La collega, ho saputo poi, e' scesa per portarceli personalmente, i ragazzi, alla manifestazione. Hanno trovato il portone chiuso a chiave, pero'. Siamo stati chiusi dentro dalla Sicurezza e io nemmeno lo sapevo.
Qualche studente e' uscito da una porta laterale, ma il grosso e' tornato in aula.

Ed e' che avevano discusso, prima.

Molti, come i miei, avevano detto che manifestare non serviva a nulla.
Altri, pero', avevano ribattuto: "Ma no, invece serve! Guarda cosa e' successo in Spagna! Li' ce l'hano fatta, con le manifestazioni, e' servito!"

E la collega, chiaro, aveva voluto caldeggiare questo punto di vista. Siamo quelle della democrazia, noi. No?

Poi, a quattr'occhi, i nostri discorsi cambiano un po': "Poveretti. Io gli dico che serve, manifestare, ma a cosa vuoi che gli serva? Figurati. A niente. Ma che gli vuoi dire?"

"No, io non glielo dico nemmeno. Perche' non e' vero, appunto. Ma l'alternativa qual e'? Le bombe? Io non so che dirgli. Io sto zitta, ormai."

Il collega egiziano, solitamente cortese e compassato, era sconvolto.
"Bisogna armare i palestinesi, e non lo facciamo! E perche', poi? Per fare bella figura con l'America, con voi dell'Occidente!! Loro hanno bisogno di armi e noi non li aiutiamo per farci belli ai vostri occhi!!!"
Fuori di se', ed io che mi vergognavo.

"Che succedera'?"
"Niente, che vuoi che succeda? Qualche corteo, qualche bomba, qualche arresto, qualche desaparecido. Poi adesso c'e' il problema del pane. Il grano sta cominciando a scarseggiare seriamente. Qui in citta', stanno funzionando solo tre panetterie, ormai, e non bastano."
Ancora nausea.

Al Cairo non hanno fatto lezione, oggi. So che ad Ain Shams c'era l'ira di Dio, manco a parlarne.

Dicevo alla collega: "Io ci ho fatto Primo Levi, in quest'universita'. E me lo hanno lasciato fare. Invece di prendermi a pedate per tutte le scale, hanno seguito, si sono commossi, hanno biasimato, si sono identificati, hanno studiato e sono pure andati bene all'esame. Invece di farmi volare giu' dalla finestra."
"Gia'. Loro sono cosi'.", ha risposto la collega.







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