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tsunami e globalizzazione per soli ricchi
by zed Friday, Dec. 31, 2004 at 2:23 AM mail:

Un terremoto o uno tsunami non guardano in faccia nessuno, non distinguono per censo nella loro azione devastatrice, trascinano ricchi e poveracci, verrebbe da pensare. Ma le cose non stanno affatto così....

Globalizzazione per soli ricchi


di Siegmund Ginzberg

29.12.2004


Non si è finito di contare le vittime annegate dallo tsunami (70.000, 100.000, di più?), che già si sa che ne moriranno altrettanti, forse molti di più, per le condizioni sanitarie lasciate dalla catastrofe. Di colera o di malaria, di epidemie causate dalle condizioni igieniche e dalla mancanza di acqua potabile, anziché direttamente a causa dell'onda assassina. La nuova, forse ancora più tremenda ecatombe attirerà la nostra attenzione quanto la prima?
Non c’è da darlo per scontato. Della prima, il mondo s’era accorto con emozione soprattutto perché aveva coinvolto alcuni noti paradisi turistici. Nei primi notiziari sembrava che non ci fosse altro degno di nota. Ci si preoccupava solo dei turisti. Anzi, per molte ore, giorni sarebbe più esatto, chi apriva tv e giornali era portato a credere anzi che ci fossero solo turisti italiani (mentre quelli ancora dispersi di altre nazionalità sono molti di più). L’attenzione si concentrava sulle Maldive, dove a questo punto ci sono una sessantina di morti accertati, e sulle coste della Thailandia, dove sono 1.700, ma solo perché il maremoto ha investito anche la meta turistica di Pukhet. Ci sono voluti due giorni per accorgersi che erano state travolte 7.000, forse 15-20.000 persone lungo le coste dell’India meridionale, 25.000, forse 30, forse 40 lungo quelle del molto più povero Sri Lanka. Tre giorni per cominciare a rendersi conto che la carneficina era stata molto più immane lungo le coste dell’ancora più povera provincia indonesiana dell’Aceh: 50.000 morti già accertati, forse 70-80.000, forse di più.
Un terremoto o uno tsunami non guardano in faccia nessuno, non distinguono per censo nella loro azione devastatrice, trascinano ricchi e poveracci, verrebbe da pensare. Ma le cose non stanno affatto così: anche il più “naturale” dei disastri si accanisce sui più poveri molto più di quanto si accanisca su coloro che stanno, anche solo un poco, meglio. Le onde stanno restituendo alle spiaggie di Pukhet e delle Maldive i cadaveri dei turisti e degli abitanti locali senza fare distinzione, ma ce ne sono molti di più strappati ai villaggi di pescatori in India o a Ceylon, dove pure l'onda assassina è arrivata diverse ore dopo. Nello Stato meridionale, e più povero del resto dell’isola di Tamil Nadu, si stima che quasi il 10 per cento della popolazione sia rimasto senza tetto. E, soprattutto, senza acqua potabile. Ancora peggio nell’Aceh indonesiano, enclave povera di un’economia altrimenti fiorente, da dove i reportage riferiscono di caos totale, popolazione lasciate totalmente in balia di sé stesse perché coloro che dovrebbero soprintendere all'emergenza civile sono periti anche loro, o perché prima che agli altri pensano ai propri familiari, di ambulanze razionate a due litri di benzina al giorno perché non arriva nessun rifornimento, di intere zone, con centinaia di migliaia di abitanti ancora totalmente isolate.
Abbiamo visto le orrende foto delle fosse comuni: lì non riescono a scavare nemmeno quelle, al terzo giorno i cadaveri in putrefazione continuano a decomporsi per le strade della capitale, Banda, raccontano. Non è vero che ci sia eguaglianza nemmeno di fronte alla morte: lo tsunami con loro è stato più crudele, continuerà a mieterne un numero ancora maggiore il dopo.
L’arcipelago giapponese è più a rischio di tsunami di qualsiasi altra parte del mondo. Ma ha pochissime vittime quando colpiscono, non solo perché hanno migliori sistemi di avvertimento, ma perché un giapponese è 43 volte più "ricco" di un indonesiano. Ed è per la stessa ragione che un terremoto delle stessa potenza, in Iran o in Turchia fa decine di migliaia di morti, e procura solo un grande spavento a Kyoto o in California.
«Il terrore iniziale associato allo tsunami e al terremoto in sé potrebbero impallidire di fronte alle sofferenze più a lungo termine», ha avvertito il capo dell'unità di crisi dell'Organizzazione mondiale della sanità David Nabarro, dal suo quartier generale a Ginevra. Si cerca freneticamente di far qualcosa, l'ufficio delle Nazioni unite a Giakarta dice di aver inviato 175 tonnellate di riso, le hanno trasportate i militari indonesiani con gli stessi aerei con cui sino a qualche ora prima sbarcavano truppe per domare la provincia ribelle secessionista. Si promette e si offre assistenza da tutte le parti, e non solo per evacuare i propri turisti. Si mobilita persino il gigante economico Cina. Il Giappone ha promesso di "regalargli" un sistema di avvertimento per i maremoti. Gli australiani fanno sapere di avergliene già offerto uno. Ma perché gli avvertimenti funzionino occorre che ci siano sistemi di comunicazione, capaci di trasmetterli, organizzare evacuazioni. Quanti telefoni cellulari c'erano in funzione in quelle ore, se non altro in mano ai turisti occidentali, capaci di accogliere un Sms di allerta? Eppure a nessuno è passato per la mente di fare quello che più modestamente, aveva fatto Berlusconi ricordando su tutti i cellulari di andare a votare. Figurarsi se si tratta di avvertire gente che "non conta".
Ma più terrificante di quel che è già successo è la sicurezza con cui ci viene "matematicamente" preannunciato che altre 100.000 persone, forse molte di più, moriranno di colera, o di malaria, o di altre malattie e di stenti. Ma sino a che punto possiamo essere sicuri che il resto del mondo se ne accorgerà? In questa stessa settimana, nelle stesse aree colpite dalla calamità "naturale", un numero pari a questo di donne, anziani, bambini sarebbero morti "prematuramente" per malattie facilmente curabili. In Aceh la guerra contro i secessionisti ha provocato un numero molto maggiore di vittime, così come la lunga guerra contro i tamil nello Sri Lanka. Senza che il resto del mondo vi prestasse la minima attenzione. Così come non ha mai destato la minima attenzione la stima che, anche nel 2005, così come è avvenuto nel 2004, continueranno a morire "prematuramente", e senza che ci siano catastrofi naturali, di "semplice" malaria, acqua inquinata, mancanza di servizi sanitari elementari, almeno altre 120.000 persone, ogni settimana, una settimana dopo l'altra. Leggiamo che le assicurazioni tirano un sospiro di sollievo: queste vittime non si potevano permettere polizze. E che gli economisti stimano che il disastro non peserà probabilmente sul pil dei paesi interessati più di mezzo punto di crescita. Molto meno di quanto si temeva potesse pesare la Sars, che di vittime ne ha fatte appena qualche decina. Di più pesa all'Africa (1,2 punti di pil, 12 miliardi di danni) il semplice fatto che la malaria è fuori controllo, anche a causa del fatto che a suo tempo è stato bandito il DDT.
C'è un rimedio? Scuotere la “coscienza sporca” dell’Occidente può anche essere utile. Ma certo non basta. Qualcuno comincia a suggerire di perdersi meno in discussioni sui pro e sui contro della globalizzazione (il maggior numero di vittime si è avuto tra i meno "globalizzati", e quindi i più poveri), sulle mega-minacce tipo l'effetto-serra e i mutamenti subitanei del clima, e un po’ di più dello sviluppo economico, per chi non ce l’ha. Qualcuno in modo provocatorio, come Michael Crichton nel nuovo romanzo “anti-fondamentalismo ambientalista”, «State of Fear», che presto dovrebbe arrivare anche in traduzione italiana. Altri in modo più ragionato. Dire che «lo sviluppo salva vite» è superficiale quanto sostenere che tutto sarebbe colpa dell'effetto serra e della globalizzazione. Ma non può far male cominciare a ragionare meglio, senza preconcetti fondamentalisti di sorta, sull’argomento.


Fonte:www.unita.it

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