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La falsa euforia, la cruda realtà
by M.O. Sunday, Jan. 16, 2005 at 1:45 PM mail:

LUCIANA CASTELLINA

La bomba fatta esplodere giovedì sera al valico di Karni con la relativa uccisione di sei israeliani e quella che il giorno prima ha ucciso Gideon Rivlin, colono di Gaza, ambedue ancor prima che trascorressero 48 ore dall'elezione di Abu Mazen a presidente dell'Autorità palestinese, hanno rotto, prima del previsto, l'incantesimo costruito con arte dai media di tutto il mondo. Secondo cui, morto «l'estremista» Arafat, la pace fra Israele e Palestina sarebbe stata a portata di mano. Meno colpo ha fatto la notizia, contemporanea, di due ragazzi palestinesi ammazzati a nord di Ramallah, di un attivista di Al Fatah trucidato a Tulkarem (le cui case sono state conseguentemente demolite), di altri due che a Gaza accompagnavano una donna incinta all'ospedale. Nessuno scalpore non tanto, o non solo, per via della tradizionale contabilità dei morti in uso in Medio Oriente, ma perché, in effetti, gli eccidi non comportavano novità alcuna, i vantaggi della sparizione di Arafat consistendo solo nel cessate il fuoco palestinese che ne sarebbe prontamente derivato, non nella cessazione delle incursioni di Tsahal nei territori, mai promessa (anche perché nessuna autorevole istituzione glielo ha chiesto).

Sicuri di avere il nuovo presidente palestinese in tasca, i grandi pacificatori mondiali hanno alzato il ciglio, seccati: ma come, bombe ora che Abu Ammar è morto? Rattristato Gianfranco Fini, in spola fra Gerusalemme e le capitali arabe (l'uomo giusto al posto giusto), ha sagacemente osservato che nella zona «è in atto una corsa contro il tempo»: dopo i cinquantasei anni sanguinosi trascorsi da quando l'Onu approvò la nascita dello Stato d'Israele ora - insomma - c'è fretta, perché ci sarebbe finalmente l'interlocutore che prima era mancato. Bisogna approfittare dell'occasione, prima che si bruci.

A dirle, queste cose, non è purtroppo solo l'arianissimo allievo di Almirante, ma paludati e rispettati giornalisti e politici che hanno elargito a piene mani la convinzione che adesso tutto sarebbe stato risolto. Senza la decenza di ricordare che se Arafat, che pure aveva avuto il coraggio, e la forza, di accettare compromessi durissimi (fino a quello di Oslo in cui della vecchia Palestina veniva lasciato solo il 22%), è stato alla fine scavalcato da forze che hanno ritenuto l'azione militare più efficace del negoziato è perché la controparte non ha rispettato nemmeno il pochissimo che si era impegnata a dare. Per questo cinque anni fa è scoppiata la seconda Intifada.

Cosa potrà mai fare adesso Abu Mazen, un uomo ricco di esperienza e apprezzato dai suoi, ma che certo non ha il carisma e l'indiscusso potere di Abu Ammar; e che avrà dunque, rispetto al vecchio capo, assai meno forza per far accettare una mediazione? (Nel sondaggio del 31 dicembre pubblicato dall'Economist egli risulta fra l'altro parecchi punti più indietro di Marwan Barghuti che ha rinunciato a candidarsi in nome dell'unità).

Si parla ora di ripartire dalla Road Map, a suo tempo accettata dalle due parti, anche da Arafat. Benissimo. Ma c'è qualcuno che ricorda che quell'ultimo negoziato andò in fumo perché l'allora premier laburista Baraq aveva preteso un'ulteriore riduzione del 10% del 22% di territorio conferito ai palestinesi e aveva previsto un intrigo di strade che, per salvaguardare gli insediamenti, rendevano la nuova e agognata patria palestinese una invisibile pelle a macchia di leopardo? Da dove si dovrebbe ripartire ora? Cosa si intende in concreto proporre per quanto riguarda Gerusalemme, un minimo di continuità territoriale, il muro, i rifugiati: se non si vuole dare ciò di cui gli ebrei di tutto il mondo godono - il diritto di ottenere la cittadinanza d'Israele - dovrà essere pur offerta una qualche forma di compensazione per gli espropri subiti mezzo secolo fa. E, ancora, cosa si intende fare dei cinquemila palestinesi ancora nelle carceri israeliane? Gli israeliani, e con loro gli americani, hanno fatto l'enorme errore di bruciare, con Arafat, l'interlocutore con il quale avrebbero forse potuto arrivare alla migliore mediazione possibile.

Questi ultimi cinque anni di violenza e di drammi sono conseguenza del vuoto che hanno voluto creare rifiutando ogni dialogo con il leader palestinese. Se i benpensanti del resto del mondo continueranno a giocare con la stupida contrapposizione fra Arafat e Abu Mazen, illudendosi che il nuovo presidente potrà arrivare alla pace scavalcando i problemi reali sul tappeto, stimoleranno solo la crescita dell'infinita arroganza israeliana. E del numero delle vittime, da una parte e dall'altra.

http://ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/15-Gennaio-2005/art81.html

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