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Università - Quindici anni dopo
by dal manifesto Saturday, Oct. 15, 2005 at 12:47 PM mail:

Quindici anni dopo.

Non accadeva da 15 anni. Tanti ne sono trascorsi dall'ultima volta in cui il più grande ateneo d'Europa, «La Sapienza» di Roma e altre università italiane (Firenze, Bologna, per ora) furono investite da una vasta mobiltazione studentesca, assistendo all'occupazione di numerose facoltà. Sembrava che il percorso di trasformazione dell'università, avviato dal riformismo di centrosinistra e condotto alle sue estreme conseguenze dalla riforma Moratti, avesse cancellato per sempre quel tessuto relazionale studentesco, quel tempo, almeno parzialmente autogovernato, nel quale erano cresciute, politicamente e culturalmente, le precedenti generazioni e la cultura del paese. Che avesse insomma trionfato la menzogna di una «professionalizzazione» spiccia e passiva, destinata a colmare il divario tra istruzione e mercato del lavoro, sopprimendo sprechi ed eccedenze, vale a dire ogni libertà nella scelta dei percorsi e nella composizione della propria formazione culturale. Una nuova, variegata leva studentesca sembra ora rompere questo maleficio, facilitata certamente dal malcontento generale del mondo accademico e dalla mobilitazione del precariato della ricerca contro il ddl Moratti, ma già proiettata a superarne le istanze sindacali e i limiti politici. Intanto nella percezione della propria figura di studenti, come figura di valore generale, come una condizione che riguarda l'intera società: quella di una precarietà del lavoro mentale non semplicemente dovuta alle oscillazioni del mercato, ma programmata secondo la sua stessa struttura gerarchica e autoritaria. Precarietà, dunque, non solo della condizione di vita dei singoli, ma del sapere stesso che viene loro trasmesso. Segmenti di formazione circoscritti e aleatori, da acquistarsi in rapida successione e a caro prezzo sul fiorente mercato dell'istruzione pubblica e privata, dal 3 più due, alla Y rovesciata, dalla grande truffa dei master al proliferare inconsulto di corsi e apprendistati semiservili. Laddove il principio democratico della formazione permanente viene rovesciato in una continua coazione al consumo di cultura prêt a porter.

La miseria di questa condizione, i suoi caratteri ideologici e arbitrari, cominciano a essere percepiti con crescente nitidezza. E a essere percepiti come un problema politico che investe la qualità della vita di una intera società e ne ipoteca il futuro. La partita sull'Università ha un'enorme posta in gioco e di questo tutti sembrano avere precisa percezione.

Le occupazioni, meglio ancora di altre forme di lotta, mettono pienamente in scena quella riconquista di un tempo proprio, tempo di libertà e di crescita, di riflessione e di scoperta, di reciproca conoscenza e azione comune, che la razionalizzazione aziendalista degli atenei ha taglieggiato con la pervicacia del peggior taylorismo. La sofferenza, il malessere, l'isolamento e la tristezza, che i ritmi e l'arida contabilità della «fabbrica del sapere» hanno imposto come percorso senza alternative, stanno suscitando tra i più giovani, e non a caso a partire dalle facoltà scientifiche, una sorprendente reazione.

Come ogni esordio, anche questo movimento rivela al tempo stesso baldanza e incertezza, radicalità e disorientamento, né è facile prevedere la sua tenuta e la sua evoluzione, nondimeno l'incantesimo della passività e della normalizzazione è rotto, producendo, in primo luogo, un nuovo, autonomo piano di realtà e poi anche un segnale non solo per l'algida ideologia di Letizia Moratti, ma anche per quei pessimi riformatori che la hanno preceduta e che forse la seguiranno.

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