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Libano: le donne di Jalil
by IMC italy-Candida Tuesday, Sep. 10, 2002 at 2:39 PM mail:

E’ dal ‘48 che questo campo esiste. Qui ci sono circa tremila palestinesi, e' uno dei campi piu' poveri e piu' deboli di tutto il Libano.

Per la prima volta usciamo da Beirut.
E' stata Safiah a proporci una visita al campo profughi di Jalil nella regione di Beqaa, nel nord-est del paese. Lei nei campi ci lavora; aiuta le donne palestinesi a fare scelte indipendenti da quelle imposizioni religiose e politiche che le relegano ai margini di una comunita’ gia’ emarginata. Il minibus che ci carica non e’ dei piu’ moderni, ma il prezzo e’ conveniente e si puo’ fumare dentro, ci basta a rendercelo simpatico.

Fino ad ora avevamo sempre attraversato una Beirut perlopiu’ ricostruita, a cavallo fra modernita’ e tradizione, piena di cantieri, vetrine luccicanti e taxi rumorosi quanto scassati. Pur alloggiando vicino alla linea verde, in quella Place de Martyrs una volta teatro di guerra e ora landa desolata, intorno a noi solo banche e palazzi bianchi frutto di una speculazione edilizia ai nostri occhi fin troppo conosciuta. Qui invece, nella zona abitata da profughi palestinesi, immigrati siriani e poveri libanesi, i quindici anni di guerra civile e la seguente occupazione si vedono tutti.

Passiamo di fronte al campo di Chatila, nella periferia est, dove il 16 settembre di venti anni fa i falangisti, coperti e incoraggiati dal governo d’Israele, entrarono e uccisero 2000 persone, per lo piu’ donne e bambini: qui i turisti non ci vengono, quindi la ricostruzione non e’ necessaria.
L’ingresso del campo e’ brulicante di attivita’: auto, persone, venditori ambulanti si accalcano fra decine di bandiere e poster che ritraggono questo o quel leader locale, in una confusione di simboli che ci spiazza. Safiah ci aiuta a raccapezzarci, e mentre procediamo risulta chiara la predominanza delle bandiere gialle degli Hizbulla. Ad un incrocio troneggia una sagoma dell’ayatollah Komehini che non lascia dubbi sull’influenza che gli iraniani hanno su questa formazione politico-religiosa. Intorno al campo palazzi di setto otto piani. Fuori completamente crivellati di colpi, dentro il nulla; solo macerie, abitate nei piani inferiori da profughi coraggiosi quanto disperati. Non abbiamo mai visto costruzioni “decorate” da cosi’ tanti fori.

Il minibus inizia ad inerpicarsi sulle montagne che circondano Beirut, lasciando alle spalle l’afa e il denso smog che avvolgono la citta’. Ci troviamo ancora una volta davanti a dei check point , per fortuna non israeliani, che le truppe libanesi e siriane presidiano, generando uno stillicidio di controlli. Nel tragitto di due ore ne abbiamo contati una quindicina. Superate le montagne ci affacciamo nella grande valle di Beqaa. La vista e’ suggestiva, dopo la valle c’e’ la frontiera siriana. Sul minibus sale un soldato libanese dalla faccia simpatica. Si siede vicino all’autista e la sua presenza ci permette di passare indenni gli ultimi check point, fino a che il minibus, sbuffando, ci lascia davanti all’ingresso inconfondibile del campo palestinese. Siamo a Jalil.

Ad accoglierci e’ l’immancabile sciame di bambini che, visto il nostro aspetto occidentale, ci apostrofano pesantemente. Safiah spiega chi siamo e il loro atteggiamento cambia all’istante.
Un ragazzo ci prende in “consegna” e ci guida attraverso il dedalo di viuzze dove sicuramente Giuliano Ferrara non passerebbe (meno male).
Ci portano a casa di Nadyah dove ad acoglierci ci sono alcune donne con cui Safya aveva appuntamento. Ci offrono il primo di innumerovoli caffe’ e senza neanche aspettare una nostra domanda iniziano a parlare come un fiume in piena.
Quattro giorni fa trecento soldati e due tank dell'esercito libanese sono entrati nel campo da quattro parti diverse, sfondando tre muri. L'operazione e' iniziata alle 5 del mattino con l'ispezione casa per casa in cerca di fantomatici "terroristi" e di armi in un ufficio ormai chiuso da piu' di cinque anni. I soldati hanno perquisito tutto il campo sparando proiettili in aria e passando, la dove era possibile, con i tank. All'inizio le donne hanno pensato che fosse tornato l'esercito israeliano vista la violenza con la quale e' stata portata avanti l'operazione e l’arroganza con cui hanno bussato alle loro porte.
Nadyah continua, ci racconta che tutte le donne sono uscite dalle case e si sono messe davanti ai tank e ai soldati, i quali hanno sparato prima dei proiettili ai loro piedi, poi addosso alla gente, uccidendo due persone e ferendone 17 di cui due ancora in ospedale in condizioni gravi.
Prendiamo un altro caffe’ e gli chiediamo se hanno voglia di vedere il video che abbiamo girato ad Aprile in Palestina. Accettano con entusiasmo e mandano una ragazza a chiamare le altre. In pochi minuti la minuscola stanza si riempie di donne e bambini. Mentre scorrono le immagini tutte si commuovono. Le piu’ anziane piangono ricordando una terra che non vedono da 54 anni. E’ infatti dal ‘48 che questo campo esiste. Qui ci sono circa tremila palestinesi, e' uno dei campi piu' poveri e piu' deboli di tutto il Libano.
Finito il video riprendono il racconto, stavolta a piu’ voci; pensano che il governo libanese abbia voluto dare una dimostrazione agli americani della loro affidabilita’, per lasciare intendere che anche loro sono contro i "terroristi" ed e' per questo che, secondo loro, hanno scelto questo campo.
La gente qui e' ancora molto spaventata, visto che e' la prima volta in 54 anni che l’esercito libanese entra nel campo compiendo un vero e proprio raid, ed e' per paura di altre rappresaglie che, pur dimostrandosi molto cordiali, non ci hanno voluto rilasciare interviste, ne' audio ne' video. Nadyah continua ad offrirci caffe’ e frutta mentre sentiamo i bambini giocare con le miccette e i bidoni, colpi su colpi. Per un momento ci sembra di non essere mai andati via dalla martoriata terra di Palestina.
Cominciamo ad essere stanchi, e’ buio e improvvisamente la luce va via. E’ normale: il governo libanese non fornisce elettricita’ ne’ linee telefoniche ai campi profughi, si va avanti con costosi generatori che ogni tanto spengono facendo piombare nelle tenebre l’intero campo.

La visita e’ stata intensa, e solo dopo che promettiamo di ritornare a dormire li’ ci permettono di andare via. Il loro saluto e’ toccante e ci rendiamo conto che visite del genere le ricevono molto raramente; la distanza da Beirut fa di questo campo il piu’ isolato del Libano. Nadyah ci accompagna fuori e mentre usciamo dal campo ci si affianca una macchina della polizia. Vogliono sapere chi siamo e dove stiamo andando; gli diciamo di essere turisti e che torniamo a Beirut, si allontanano guardandoci con sospetto. Prima di ripartire la donna ci spiega che mentre eravano dentro a parlare i soldati libanesi hanno arrestato altri tre palestinesi che si trovavano fuori dal campo. Ci saluta calorosamente e si allontana di fretta. Restiamo perplessi, e sul minibus che ci riporta indietro scambiamo poche parole, ci aspettano ancora lunghe giornate e tante storie come questa.

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