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La costante autonomistica sarda
by grazia deledda Thursday, Dec. 05, 2002 at 11:45 AM mail:

La Lega viene ascoltata sempre,e propongono il SECESSIONISMO;a noi invece ci ignorano sempre e proponiamo solamente l'indipendentismo !!!

La costante autonomi...
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Associazione tra gli ex Consiglieri Regionali della Sardegna


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GIOVANNI LILLIU

La costante autonomistica sarda

(Relazione svolta a Cagliari presso l’ITIS “Giua” il 26 febbraio 1999)


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1 - Dopo i lunghi tempi dell’indipendenza, la Sardegna ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere stata sempre dominata (in qualche misura ancor oggi), ma di avere sempre resistito. Un’isola sulla quale è calata per secoli la mano oppressiva del colonizzatore a cui ha opposto, sistematicamente, il graffio della resistenza.

In questa dialettica perenne i Sardi sono riusciti a mantenere, anzi a sviluppare, l’identità di popolo e, da ciò sostenuti, a percorrere, senza sosta, un cammino di autonomia, per il riscatto e per il ritorno alla libertà dell’origine.

Si discute, dagli storici, sul quando e sul come sia nato questo sforzo di organizzarsi secondo il proprio genio, corrispondendo a un diritto di natura e di gente sarda specificamente e diversamente connotata.

Vi è chi opina di riconoscere il punto iniziale della coscienza e del moto autonomistico nel periodo giudicale, quando in una vasta parte dell’isola – quella dell’Arborea – si era realizzata l’autonomia statuale, al punto che gli stessi dominatori stranieri della parte restante vi riconoscevano la nacion sardesca. Altri storici sono d’avviso che i presupposti della questione sarda, in termini di autonomia, stiano nel cosiddetto “triennio rivoluzionario sardo”, cioè nei fatti verificatisi in Sardegna dal 1793 al 1796. Ma vi è infine chi pensa – io tra questi – che il punto critico del riscatto autonomistico vada collocato già al momento in cui la Sardegna fu spaccata in due dall’imperialismo cartaginese, alla fine del VI secolo a. C., perdendo l’unità nazionale morale e reale: il più grande dramma storico dell’isola. Allora fu travolta la lunga e feconda stagione dell’autonomia del popolo sardo e cominciò la storia millenaria della dipendenza isolana. Il modello cartaginese ha funzionato attraverso tanti altri troni e dominazioni per tutto il percorso storico della Sardegna sino al nostro tempo.

Infatti dalla dipendenza, per quanto si vadano cogliendo annunzi e attese liberatorie, i Sardi non ne sono ancora usciti, interamente. In quella drammatica circostanza sono nate le due culture che ancora distinguono e tormentano l’isola e i suoi popoli, è nata la dicotomia continente – mare, lo scontro libertà – integrazione, la questione della Sardegna. Fu allora che gli indigeni fuggiaschi, diventati veramente barbaricini per spazio geografico e per psicologia, dovettero pronunziare per la prima volta, nella genuina lingua sarda del ceppo basco – caucasico, il detto barbaricino “furat chie venit da e su mare”, “ruba chi viene dal mare”.

A quel nocciolo storico può risalire la formazione del tessuto culturale, il contesto socio – economico, la struttura spirituale e l’ordinamento giuridico (non ancora del tutto spento) dell’attuale mondo sardo delle “zone interne”: un mondo, come tutti sanno (e meglio, dopo le indagini antropogiuridiche del compianto Pigliaru), antico, chiuso ma reattivo, carcerato (come in una “riserva”) ma resistente e sprigionatore di autonomia.

2 - Scorrendo le fonti classiche, i frammenti che ci sono rimasti di quel paesaggio umano remoto della Sardegna in conflitto perenne con Cartagine e Roma dal VI secolo a. C. sino al I d. C., indicano la ripulsa del dominio e la determinazione di tornare a “su connotu”, la stagione dell’autonomia. Gli autori greci e latini ci dicono di capanne sperdute dove i pastori si cibano soltanto di latte e carne, scrivono di loro tecniche militari difensive consistenti nel mimetizzarsi in boschi e caverne e di sortite improvvise per atti di guerriglia di tipo “partigiano”. Ci parlano dei modi repressivi usati dai Romani, volti a snidare i ribelli con i cani poliziotto, quasi antesignani di quelli moderni, adoperati, anni fa, dai “baschi blu” nelle operazioni contro i “banditi” del Supramonte e più in generale nel Nuorese non integrato e resistenziale.

Conosciamo, dalla letteratura antica, stragi feroci di sardi, azioni di brigantaggio (così definite dai Romani come i nazisti chiamavano “banditi” i partigiani italiani della Resistenza) che costrinsero Tiberio a inviare nel 19 d. C., quattromila liberti ebrei coercendis illic (cioè tra le tribù montane) latrociniis. Sappiamo delle “bardane” dei Galillenses, annidati nei boschi dell’Ogliastra, che occupano periodicamente per vim i praedia dei Patulcenses Campani (i sardi collaborazionisti africanizzati e semitizati, poi romanizzati, del Basso Sarcidano, della Trexenta e di Parte Dolia), sottraendo messi e greggi dal III a. C. al 69 d. C.

Forse è venuto il tempo di spiegare alcuni eventi storici isolani, anche del Medioevo e dell’età moderna oltre alcuni dell’evo antico e contemporaneo, tenendo presenti questi meccanismi resistenziali: del grande scontro delle due culture del VI secolo a.C., della subcultura violenta della legge della montagna che esplode se accerchiata (la “riserva” barbaricina”). Ciò significa moderare i metodi di ricerca della storiografia tradizionale della storia politica – diplomatica che è piena di falsità (è la storia dei vincitori, storia di parte) ed anche quelli di una storiografia che vuole spiegare la resistenza sarda soltanto con ragioni economiche – sociali, in una contrapposizione di classi, senza aver riguardo alle profonde cause della “storia che sta nel non averne”, cioè le cause etniche – etiche intime alla convinzione nei sardi nel valore della propria cultura “minore” o “minoritaria” (in senso di diversità). Si tratta di tener conto dell’importanza determinante dell’elemento “popolo”, dell’elemento “civiltà” nella grande contesa sarda tra le due culture, dove sta il nocciolo vero, il plafond necessitante della resistenza costante, della conflittualità permanente, di una compiuta autonomia che ancora non c’è.

3 - Sono motivazioni etniche ed etiche, il senso e la ragione dell’appartenenza, che, ancora nel VI secolo d.C., tengono salde e compatte le indomite popolazioni dell’interno dell’isola, per un terzo della sua estensione: le civitates Barbariae con a capo Ospitone dux Barbaricinorum. E’ uno stato indipendente e sovrano ancorato alle tradizioni di lingua, cultura e costume e legato dalla religione primordiale nel culto delle pietre e degli alberi. Nel 549 d. C., il papa Gregorio Magno scrive un’epistola al governatore bizantino dell’isola Zabarda, residente a Forum Traiani (Xrisopolis), per ringraziarlo di aver collaborato a concludere l’accordo con Ospitone con la clausola di lasciare libertà di propaganda per il cristianesimo ai missionari pontefici Felice e Ciriaco. Impotente a occupare con le armi il territorio saldamente in mano delle Civitates Barbariae, l’abile funzionario venuto da Bisanzio si era rivolto al papa romano per trovare una soluzione politica, per la via pacifica della religione, d’uno scontro che durava da settant’anni. In tal modo si sarebbe potuto rimuovere il pericolo costante alla frontiera del territorio isolano in possesso dei Bizantini, dovuto alle reiterate violazioni, sconfinamenti e aggressioni delle forze “barbaricine”, imprese ritenute “banditesche” che mettevano in forse lo svolgimento regolare della vita, della società e dell’economia dei possedimenti imperiali. Se Ospitone e la sua gente si convinsero di convertirsi alla nuova religione, non cessarono i conflitti, tanto che il limes venne rafforzato con presidi di milizie locali (limitanei), tutto intorno alla roccaforte della Barbargia di Ollolai, centro del potere indigeno. E il magister militum, il governatore bizantino, dovette ristare ancora al Forum Traiani, capo-saldo della frontiera, ancora per 49 anni, sino al 598, quando la sede, rasserenato il clima, fu trasferita a Cagliari. La conversione al cristianesimo non estirpò tradizioni, costumi e statuti. Si abbatterono le pietre sacre degli antenati, ma restò il “codice barbaricino” (ancora oggi non del tutto rimosso) che punisce il furto in casa propria ma lo considera atto di guerra in terreno altrui e lava le offese e tutela l’onore personale e di gruppo vendicandolo col sangue. Un autogoverno, che può rasentare l’anarchia, un’eguaglitarismo quasi “solidarismo” che non ha radici soltanto nell’effimero scambievole economicistico e volgare, ma anche nel vincolo etico d’un sistema creduto e sofferto sia pure a livello di comunità di villaggio, quando non di regione o di popolo nel comune denominatore dell’antica e comune difesa storica da tutte le dominazioni e colonizzazioni. Un cristianesimo, quello di Ospitone, “libertario” e intriso di paganesimo, che ha lasciato traccia, se non umore, in quello odierno dell’antica “riserva barbaricina”.

4 - Un passo della Vita Ludovici imperatori (MGH, II, 632) fa parola del conte Bonifacio, prefetto della Corsica nominato da Ludovico I e preposto alla difesa generale dei possedimenti franchi nel Mare mediterraneo. Nell’anno 828, allestita una piccola flotta cui si aggiunsero il fratello Bernardo e altri, dopo aver perlustrato il mare senza trovarli, Bonifacio Sardorum insulam amicorum appulit. L’amicizia datava da tredici anni prima, da quando nell’815 legati di Sardegna si recarono alla corte dell’imperatore dei Franchi e d’Occidente per offrire doni non disinteressati. L’interesse stava nella necessità dell’impero d’Oriente, ancora sovrano della Sardegna, di avere aiuto dai Franchi contro gli Arabi per difendere il debole possesso, minacciato anche dai Sardi che già levavano voci di autonomia. Lo sbarco di Bonifacio è una forma di questo aiuto. Ovviamente un soccorso di “amicizia”, non uno stato di dipendenza della Sardegna dai Franchi. D’altra parte, nel quadro delle notizie sardo – franche, si può ravvisare la tendenza dell’isola, se non a staccarsi, non potendolo, dall’Oriente, a orbitare nell’area della nuova grande potenza occidentale, in un sogno di lontana libertà.

5 - La caduta dell’Impero di Bisanzio e la perdita dei collegamenti con l’Occidente (con gli stessi Franchi) danno la speranza ai sardi del riemergere dell’antica nazione. Si forma appunto un governo autonomo, con a capo dei giudici, forse anche per suggerimento della Chiesa bizantina che, a differenza dell’autorità civile, non aveva perso del tutto l’influenza, mantenendo la presenza fisica e il potere spirituale coerente ai tempi e determinante nello sviluppo, per aver riflessi anche di natura economica. In questo libero e in certa misura indipendente periodo di storia sarda, si colgono i presupposti politici e istituzionali della formazione dei giudicati nel secolo XI.

Ha scritto Umberto Cardia che il carattere autonomo del regime giudicale deriva dal fondo etnico e da un senso comune sociale e culturale che tende a realizzare l’unità di popolo e nazione. Un ordine “sovrano”, con soggettività statuale, si realizza alla fine del secolo XIV, nell’ambito del libero Giudicato di Arborea. Il quadro normativo è contenuto nella Carta de Logu, scritta il lingua sarda del tempo. Si palesa come un Regno indigeno (Barisone d’Arborea viene incoronato Re di Sardegna, in Pavia, da Federico Barbarossa, nel 1166). La memoria di questo Regno è rimasta nell’immaginario collettivo dei sardi, come istituzione di autonomia e di soggettività autonomistica, sino ai nostri tempi. Questa di Regno è un’idea centrale, un’idea forza che nutre circa centocinquanta anni di guerra d’una parte dei sardi contro lo straniero nell’isola. Un’idea pervasiva e resistente al punto che lo stesso conquistatore aragonese deve riconoscere alla Sardegna le caratteristiche di Regno, come continuum nel tempo della statualità giudicale. Ne mantiene, infatti, la legge e gli ordinamenti propri nel quadro istituzionale della corona di Spagna: i Parlamenti e gli Stamenti. E’ un farsi dell’autonomia come autogoverno, sia pure entro più ampi e dinamici sistemi statuali, con i quali non si confonde in quanto proprio d’un popolo che si identifica con una nazione: la nacion sardesca (così la titola il conquistatore iberico).

6 - Già dopo la conquista catalana – aragonese nel 1324 si manifesta un atteggiamento di opposizione non solo tra stato indigeno e stato invasore, ma tra elementi della società sarda e agenti della potenza dominante che tende ad occupare con suo personale tutti i gangli della vita ufficiale, laici e religiosi. Il nuovo ordine politico e la svolta ideologica ispanica si manifesta nei provvedimenti dell’Infante Alfonso d’Aragona prima e poi di Pietro IV il Giovane (1335) che fanno divieto di residenza e dimora nelle città e dintorni ai frati dell’Ordine dei Minori e dei Predicatori che non siano catalani e aragonesi. Forte la reazione, sino all’ostilità, dei frati sardi e corsi, in un sussulto di identità.

Con la fine del regno giudicale e, poi, del Marchesato d’Oristano nel 1478, a fronte della feudalità spagnola si afferma una nobiltà indigena, in specie la Casata dei Marchesi di Laconi (i Castelvì e gli Aymerich). Si fa più robusta la polemica tra il clero locale e quello d’obbedienza ispanica. Nel secolo XVI si avverte una ripresa e maturazione della lotta autonomistica del popolo sardo, nel senso di riserva di cariche e di governo per i sardi.

7 - Nel mondo ecclesiale, il 13 dicembre del 1559, i frati dell’Osservanza del Convento di Santa Maria di Gesù a Cagliari reagirono a un editto pubblico dell’Arcivescovo spagnolo Mons. Antonio Parragues de Castillejo che imponeva a tutti i fedeli di accudire agli uffici divini nelle loro parrocchie, pena scomunica, e non nel Convento degli Osservanti, frati non affidabili nella formazione e nello studio e poco devoti al Re. Questi risposero al Parragues attraverso la voce dal pulpito di fr. Arcangelo Bellid, nella chiesa del monastero femminile di Santa Lucia in Castello, proprio il giorno della festa della Santa. Il frate tra l’altro esortò i fedeli della chiesa di non aver riguardi né di accogliere la censura intimata dall’Arcivescovo, che egli “si gettava dietro le spalle”. Il discorso incauto gli procurò la prigione e la ritrattazione in pubblico. Ma diciotto giorni dopo la predica nel convento di S. Lucia, la replicò nella chiesa del proprio convento con le stesse parole e tono, questa volta protetto dal Viceré D. Alvaro Madrigal, a spregio dell’Arcivescovo che si era opposto alla celebrazione d’un Parlamento straordinario.

Il dissenso tra il Parragues (personaggio di vertice ecclesiastico e rappresentante della “grandeur spagnola”) e il Bellid che si oppone interpretando i sensi di “ribellismo” dei confratelli in maggioranza sardi e corsi, non si pone tanto a piano disciplinare quanto in polemica politica. E’ una contestazione che si colloca nel clima del secolo per così dire di “fibrillazione sardista”. Alto clero e autorità regia, per frenare l’egemonia del personale sardo dell’Osservanza, fanno ricorso a flussi di religiosi iberici. Filippo II procederà ad una progressiva e coercitiva desardizzazione socio culturale – ecclesiastica del contesto civile ed ecclesiale del Regno di Sardegna. E se da una parte lo Stamento militare sollecita il Re, in data 8 maggio 1565, ad imporre che gli Statuti Comunali antichi di Sassari, Bosa, e Iglesias, originariamente in lingua sarda e poi tradotti in lingua italiana, siano nuovamente resi, per decreto reale, “en llengua sardesca o catalana” “que los de llengua italiana sien abolits talment que non reste memoria de aquels”, dall’altra lo stesso Filippo II aveva proibito ai giovani sardi di recarsi, per motivi e ragioni di studi, alle Università italiane per costringerli a preferire quelle spagnole e sradicarli dall’area matrice culturale italiana. Ugualmente per il contesto ecclesiastico, e se, nelle chiese particolare o diocesi sarde, non c’era spazio per i prelati sardi e italiani, ma solo per quelli spagnoli, analogamente gli Ordini regolari dovevano essere totalmente integrati e assorbiti nel conteso spagnolo degli stessi Ordini.

Il trapasso dalla Provincia di Sardegna a quella Ultramontana e l’incorporamento e l’unione dei frati alla parte spagnola non furono senza una forte resistenza da parte sarda. Il tentativo di riforma, basata sulla sostituzione dei “sardos discolos” con frati spagnoli, ad opera di fr. Vincenzo Ferri, nel 1565, incontrò la ferma opposizione del gruppo di frati sardo – corsi. Non migliore accoglienza toccò al drappello dei trenta prima e quindici frati delle Provincie aragonesi, venuti al seguito del Commissario fr. Vincenzo Angles, nel 1575. A questo i frati corsi, in Sassari, negarono l’obbedienza e, per di più, levandoli contro falsi testimoni, lo accusarono nanti il Generale e Protettore dell’Ordine che lo esonerò dalla Commissaria di Sardegna. L’Angles, in spregio dell’ordine del Ministro Generale, continuò a mantenere l’ufficio, ciò che aumentò lo sdegno dei frati i quali insorsero in aperta ribellione al suo vice fr. Pedro Cortès. E’ verosimile che la ripulsa dei frati sardo – corsi ad essere agiti da superiori esterni per operare in autonomia, non fosse rimasta nascosta al popolo, data la consuetudine con i religiosi, predicatori d’ufficio e padri spirituali. Possibile, dunque, che si fosse ingenerata anche nella gente, una crisi di credibilità, il sospetto di essere suddita d’un potere estraneo e intruso e la voglia di eliminarlo, nel giusto momento, per fare da sé.

La rivendicazione “sardista”, nel senso di riserva di cariche o di ruoli di governo per gli indigeni in ogni campo, non viene meno nel secolo XVII. Ma costituì premessa ai moti angioyani della fine del ’700. Moti avversi al dominio piemontese che già all’inizio di secolo, nel 1718, aveva tradito l’impegno politico principale, assunto con il Trattato di Londra, di mantenere le leggi e gli statuti dell’isola, pattuiti con la Spagna; tra l’altro di avere Viceré indigeni.

8 - Il passaggio della Sardegna al Piemonte, frutto d’un baratto, dette occasione al costituirsi d’un partito “patriottico”, e luogo al formarsi d’un nuovo fronte di resistenza e di opposizione contro l’ultimo venuto. Questo era ritenuto un corpo alieno e repressivo, non meno dei precedenti, intento all’integrazione dei sardi e voglioso di istituire, come di fatto fu istituito, uno studiato rapporto di tipo coloniale. Il vantato riformismo del Ministro Bogino, a giudizio di storici di parte non piemontese, non può essere riferito ai quadri concettuali del vero riformismo settecentesco. Non procura una crescita dal basso né rimuove le incrostazioni del passato – soprattutto il feudalesimo – per il cambio democratico. Concesse talune realizzazioni positive (Università, Monti Granatici, pratiche agricole), il quadro strutturale risultò inefficace e tale da ingenerare credibilità nei così detti “riformatori”. Non ne sortì unione tra governanti e governati. La dissennata politica di “integrazione”, aprì un solco, creò un incompatibile dissidio tra le due parti. Era inaccettabile dal partito “patriottico l’inconsulto e incolto tentativo di piemontesizzare culturalmente e linguisticamente la Sardegna e di snazionalizzarla sottraendole quel che rimaneva ancora della propria identità con i diritti di autonomia, seppur “deboli”, acquisiti nel passato.

Dal passato rimaneva intatto il quadro negativo: problemi insoluti, le sofferenze del popolo e le angherie dei ceti elevati, l’economia stenta, lo sviluppo zero. Permanevano integri gli ordinamenti feudali, l’oppressione fiscale, l’espropriazione delle risorse del luogo, l’esclusione quasi totale dagli uffici dei “nazionali”. Il campo era tenuto dalle sopercherie del potere politico, civile e militare, da governatori forestieri corrotti e abbietti, circondati da cortigiani in prevalenza piemontesi e nizzardi non meno disonesti e corrotti, da ufficiali e soldati di ventura.

Tutto ciò non poteva non indurre i sudditi d’uno Stato tra i più “oscuri” d’Europa, tra i più piccoli ma più “assoluti” e “conservatori”, ad una avversione – specie nel cresciuto ceto borghese e nei pochi magistrati indigeni – e a uno stabile e diffuso sentimento antipiemontese che sfociò, di necessità, nell’azione rivoluzionaria di fine secolo.

9 - I fatti rivoluzionari del triennio 1794-1796, lungi da essere stati, come nell’interpretazione d’una certa storiografia di “palazzo”, jacqueries contadine, senza negare il carattere peculiare sardo, si spiegano nel quadro dei sommovimenti sociali che da Parigi si irradiavano in Europa e nel mondo nel segno repubblicano e autonomistico. La vittoria sui Franchi nel 1793, con azione congiunta e unità d’intenti di aristocrazia, borghesia, clero e popolani indigeni, fu un “trionfo” della volontà di indipendenza dei sardi, il risultato d’un popolo che si compatta nel segno e nella coscienza di appartenere a una nazione che si risveglia e insorge, vincendolo, contro lo straniero. I moti espressi dalla borghesia urbana – leader la magistratura indigena della Reale Udienza in uno ad elementi popolari, usciti alla espulsione di piemontesi e nizzardi della città di Cagliari e di altri luoghi dell’isola (in capo il Viceré Balbiano, nel 1794), trovano l’input nell’onda secolare della rivendicazione di autogoverno dei sardi. All’idea di autogoverno, riscatto dalla servitù al dominio, espressione di libertà democratica, si rifaceva la Carta dei diritti della Sardegna, elaborata e approvata dagli Stamenti quasi all’unanimità. Nell’evento di ribellione, esaltato sino alla cacciata del conquistatore di turno, è da vedere, secondo Umberto Cardia, la prima, per rimanere l’ultima, vendetta storica della nazione sarda.

Vendetta effimera in quanto l’unità degli anni 1973 e 1974 si ruppe già nella seconda metà di quest’ultimo anno con il colpo di forza termidoriano del Pitzolo e del La Planargia, circuiti da emissari del governo sabaudo, finito per loro in tragedia. Nel contempo vi fu la secessione della città di Sassari e del Capo di sopra, procurata dalla feudalità sardo-iberica, complice lo stesso governo sabaudo. L’ala moderata della borghesia cagliaritana (i Cabras, i Pintor, il popolano Sulcis), leaders della sommossa autonomista antipiemontese e gli esponenti dell’aristocrazia e della feudalità sarda arretrarono rispetto alle precedenti posizioni unitarie. Gli elementi della borghesia giacobina e repubblicana, fautori dell’indipendenza dell’isola e filofrancese (il Cilocco e il Mundula) si misero a capo dei moti di jacquerie rurale, del movimento popolare antifeudale delle villi del Capo di sopra che, nel 1975, si era concentrato nell’assalto e nel saccheggio di Sassari e concluso con la cacciata dalla città dei “realisti” (esponenti del governo, del clero e della feudalità conservatrice).

In questi fatti si inserisce, come moderatore, Giovanni Maria Angioy, il personaggio più eminente (tale resterà anche nel ricordo storico) delle vicende del tempo alimentate dalle speranze di liberazione dell’isola viste in un quadro europeo. Angioy, nato a Bono, nella profonda regione montana di Sa Costera, nel 1751, da genitori nobili e possidenti, era uomo delle zone interne, quella generatrice, per natura, di “ribellismo” e di coscienza “resistenziale”, accetto dunque a un fiero popolo agreste. Uomo grato anche all’ambiente chiesastico; il fratello maggiore arciprete della Cattedrale di Nuoro, lo zio materno canonico della cattedrale di Sassari, per di più il padre fattosi prete in vedovanza. D’altra parte, laureatosi in giurisprudenza nell’Università turritana, aveva attinto in questa città di tradizioni repubblicane stimoli e umori culturali laici. Da ultimo, portatosi a Cagliari per la pratica forense, vi esercitava apprezzata avvocatura e, provvisto di profonda dottrina giuridica, toccava l’apice dell’accademia con l’insegnamento di diritto civile in quell’Ateneo. Impiego, quest’ultimo, parzialmente appagante ma non soddisfacente in pieno le sue ambizioni di soggetto attivo nella classe dirigente, da lui esplicata nel raggiungimento del grado elevatissimo di giudizio di giudice della Reale Udienza, braccio di giurisdizione e di governo in vacanza viceregia. Uomo, dunque, Angioy con radici e interessi negli ambienti culturali, economici e sociali, differenziati, dei due capi dell’Isola. Impegnato anche nella conduzione dei suoi possedimenti terrieri e nel mercato, realizzata secondo gli indirizzi in materia dell’illuminismo.

Agli inizi della carriera Angioy non era giacobino né repubblicano. Era un autonomismo, fiero di appartenere a una “nazione minore” e far parte d’un gruppo etnico ben definito: il sardo. Era fautore dell’abolizione del sistema feudale, ma per gradi, nella prospettiva dell’autogoverno da realizzarsi, nel tempo, all’interno della monarchia. A fondare e concretare il governo autonomo sardo avrebbero dovuto concorrere, in unità d’intenti, forze borghesi e popolari urbane, ma fondamentale sarebbe stata la sinergia del mondo rurale di tutta l’isola con le proprie risorse umane ed economiche attivate in un sistema di corretto capitalismo, come quello allora emergente nel contesto europeo. Questo era il progetto dell’Angioy, riformista e illuminista, atto al progresso integrale della Sardegna, quando il Viceré, d’accordo Stamenti e Reale Udienza, gli affidavano una delicata missione. Al giovane e intraprendente leader del partito democratico, a cui cultura e culture della terra sarda stavano in testa e in cuore, veniva dato l’incarico di pacificare il Capo del Nord turbato dalle jacqueries, e di governarlo e normalizzarlo, con titolo e carica di Alternos, munito di pieni poteri. Nel pieno vigore dei suoi quarantacinque anni, con la coscienza d’un grande dovere patriottico e d’una missione quasi salvificata in un certo senso della nazione sarda in attesa di tempi liberatori quali erano quelli che andavano compiendosi nel contorno europeo, l’Alternos partiva da Cagliari dove per un destino infausto quanto fausto l’inizio, non avrebbe fatto ritorno. Era il 13 febbraio 1796.

Un viaggio lungo il suo, esaltante, tra speranze e acclamazioni d’un popolo fiducioso del riscatto dopo tanto dominio di padroni esterni e mediatori interni. A Sassari l’Angioy entrava trionfante nella città, alla testa di oltre mille cavalli e uno stuolo di paesani a piedi, in variopinto corteo, per la porta di Sant’Antonio. Qui veniva accolto dai suoi fans con evviva, grida, lazzi contro i baroni feudali e i traditori “realisti” della nazione sarda di cui si osannava la libertà. Nel dare inizio al governo democratico, l’Alternos reintegrava il vuoto di potere adottando alcuni provvedimenti normativi al “nuovo”: atti rivolti alla pacificazione. Quanto all’anarchia e le ribellioni che si erano fatte più forti e organizzate nelle ville, inviava il personale di propria fiducia e vicino politicamente, a temperarne l’emozione. Ma dal contado rispondevano che egli in persona si recasse tra le comunità villatiche per ascoltare le impellenti volontà di riscatto e si ponesse alla guida del movimento. Dalla vasta confederazione antifeudale, formata da rappresentanti del clero, dei consiglieri comunitativi, dei prinzipales, venivano voci su sempre maggiori abusi e danni irreparabili procurati dal regime feudale.

Alfine, mosso dall’intento di indurre i rivoltosi alla moderazione e dalla duplice sollecitazione, quella dei vassalli e quella pressante e quasi minacciosa del Viceré, l’Angioy si partì da Sassari verso le ville in agitazione il 2 giugno 1796, con la scorta di miliziani, dragoni e amici. Ai vassalli egli fece balenare la speranza di ottenere dall’autorità preposta il riscatto dei feudi, quando questa fosse la ferma volontà popolare. Si trattava di far constatare al governo regio, del quale non si contestava la legittimità, rinnovando anzi il pieno sentimento di fedeltà al Sovrano sabaudo, la decisa intenzione dei villici di liberarsi dal giogo feudale. E ciò poteva essere reso visibile attraverso una marcia pacifica di popolo verso la sede viceregia guidati dall’Alternos. Pertanto i convenuti si accordarono di accompagnarsi con le loro milizie a cavalli e a piedi, al viaggio dell’Angioy.

Il viaggio si svolse non senza difficoltà, a causa di scontri con milizie della parte baronale e insinuazioni d’un sollevamento dei commissari governativi del Marghine e di Bosa. Giunto con i suoi a Oristano, l’Alternos si premurò di inviare un messaggio nel quale diceva di trovarsi colà a capo d’una schiera di vassalli del Logudoro in armi, i quali chiedevano un abboccamento col Viceré, o in sua vece, con una deputazione degli Stamenti in luogo da loro scelto allo scopo di esporre le lagnanze e l’indignazione per non aver avuto alcun riscontro circa provvedimenti atti a rimuovere l’oppressione feudale. La provincia logudorese rimaneva “fedele a Sua Maestà”, ma era altrettanto ferma e risoluta nel difendere diritti, interessi e privilegi della “Sarda Nazione”. La lettera dell’Alternos si incrociava con ben diverse determinazioni del Viceré, avvallate dagli Stamenti. Una missiva viceregia spedita ai ministri di giustizia delle singole comunità del Capo di sopra, li informava che l’Angioy era stato rimosso dalla carica di Alternos, e gli si ordinava di non prestare obbedienza, sotto pene gravi estensibili alla morte. Inoltre il Viceré radunava con urgenza gli Stamenti e le due Sale della Reale Udienza, denunziando il movimento dell’Alternos come rovinoso per la monarchia, al punto di dover essere represso con le armi. Si decideva, in conseguenza, di apprestare un corpo di esercito da mandare incontro alle milizie dell’Angioy prima che si muovessero da Oristano verso la capitale, attivandone la difesa.

L’Angioy, avuto sentore delle determinazioni di guerra, decise di arretrare le sue truppe verso il villaggio di Massama, accampandovisi. Al ponte del Tirso venne lo scontro di fucileria tra i contendenti, alla pari per qualche tempo. Ma essendo poi caduto il capo dell’avanguardia angioyana, i restanti combattenti ripiegarono verso il campo di Massama, dove l’Angioy, constatata la situazione di disfatta, sbandati e dispersisi parte dei militari, ordinò la ritirata verso Sassari, con i resti! A Sassari venne ricevuto dal Mundula e dai suoi amici. La città lo accolse ancora con esultanza assiepandosi nelle vie e inneggiando alla libertà, persino col grido francese del ça ira. Un modo, questo, per mascherare la sconfitta e tenere in vita un sogno di futura rivincita. Ma la sera dello stesso giorno del festoso reingresso, Angioy lasciava silenziosamente la città, dirigendosi a cavallo con una piccola scorta armata a Portotorres. A notte, con i fidi amici di ideali e di battaglie democratiche, s’imbarcava su un veliero napoletano diretto ad Ajaccio. Era la prima tappa dell’esilio, per lui senza ritorno. Per la storia l’epilogo del triennio rivoluzionario. Si vanificavano gli empiti di libertà, di autonomia. di autodeterminazione, di orgoglio nazionale espressi con la vittoria sui Francesi, la cacciata dei Piemontesi, l’autogoverno stamentario dopo l’esecuzione popolare dei “realisti” Pitzorno e Paliaccio, i moti antifeudali, la marcia dei vassalli logudoresi per la difesa della nazione sarda. Tutti questi esaltanti avvenimenti, tesi alla liberazione nazionale, diventavano per i democratici rovello di memoria e pena per le battaglie perdute, per i reazionari un oggetto di fastidio da cancellare anche dal ricordo storico. Ancora una volta la Sardegna accumulava la storia delle occasioni perdute per effetto delle divisioni e per una sorta di accettazione d’un ruolo di martire del dominio secolare.

Non stupisce che, dopo tale tragica débacle, Giovanni Maria Angioy, nel definitivo esilio a Parigi, non fosse rimasto altro che una vendetta “virtuale”: quella di diventare giacobino e repubblicano e, nel 1799, nove anni prima della morte, di sollecitare il governo francese a procurare la liberazione della Sardegna, occupandola militarmente.

10 - Per effetto della dura repressione dei moti angioyani, nel primo ventennio dell’800 caratterizzato dalla cresciuta integrazione e subordinazione politica ed economica dell’isola al Piemonte, e, poi, dalla ambita e subito deprecata fusione del 1847 conclusa con la Costituzione albertina, gli antichi istituti di autonomia sarda decaddero e l’autonomia stessa, come sentimento, entrò in una grande zona d’ombra. Né valsero a restituire le sorti, i sommovimenti rurali contro le chiudende e il ritorno a su connotu (1832, 1868). Né, tanto meno, il revival romantico della più remota storia patria, l’orgoglio retorico di popolo e nazione, celebrati dagli autori delle false Carte d’Arborea.

La fusione aveva addormentato gli spiriti, ma non di tutti. Il senatore Giuseppe Musio, già mentre si costruiva (1848), parlava di “fusione” condizionata, avvertendo la non utilità della “non perfetta mischianza di tutto nostro e di tutto noi con i continentali”. Nell’anno medesimo il canonico Fenu vedeva la soluzione delle sperequazioni tra la Sardegna e il Piemonte nell’istituzione di un Parlamento sardo, il quale “darà ai sardi una capacità di iniziativa che non hanno mai potuto avere perché tutte le cose sono state decise dagli altri”.

Una quindicina di anni dopo la fusione, Giovanni Battista Tuveri annunciava una nuova questione, la “questione sarda” e invocava un’insurrezione antipiemontese del popolo sardo a favore dell’Inghilterra. Egli saldava tale questione all’idea repubblicana, democratica e federalista, dello Stato. A questa idea si riferiva anche Giorgio Asproni il quale, però, inclinava al moto di unificazione dello Stato italiano rivolto soprattutto al sostegno delle impoverite plebi meridionali contro lo sfruttamento del capitalismo settentrionale. In lui era la coscienza di una patria isolana con una precisa etnia e una particolare cultura. Ne difese e promosse gli interessi ed esaltò la libertà, tanto da incitare i sardi a “muovere” i loro “Vespri”.

Scriveva Giovanni Siotto Pintor che “in ogni tempo i continentali tennero le isole come colonie, come spugne da spremere e da succhiare. Con piede tardo arrivò il 1848 allorché, invasa la popolazione da quella mattezza collettiva della quale più esempi si vedono nella storia, gridò l’unione immediata, la quale contro ogni buon costume confuse le sorti di un infante con quelle di un popolo maturo. Quando sarà che le isole raggiungeranno il continente senza chiedere venia allo statuto, io risponderò che non mai. Dunque, non può essere col continente unione, anzi separazione. Ciò è sentito da tutti gli isolani di ogni parte dell’isola. Se vi si facesse un plebiscito, compresi i ragazzi, senza dubbio nessuno voterebbe per essere lasciati a sé”. Il Siotto Pintor nella Storia civile dei popoli sardi, celebra i moti antipiemontesi dell’ultimo decennio del Settecento e il tentativo di G.M. Angioy e dei suoi seguaci teso a fondare su nuove basi politiche e sociali l’autonomia della Sardegna. In pari tempo (1878), collega l’autocritica collettiva dei sardi alla fusione del 1848, al ricordo degli istituti di antica autonomia e del triennio rivoluzionario.

11 - Nell’ultimo ventennio del secolo XIX la questione sociale, determinata dai turbamenti del mondo rurale e dai moti in quello minerario e operaio urbano, si accomuna alla rivendicazione politica, sostenuta dai partiti socialisti; né mancano riflessi in queste istanze della specificità etnica, storica e culturale dell’isola. Ma gli auspici di liberazione della Sardegna si palesano, più espliciti, con accenti di protesta e di riscossa, nella poesia colta e popolare, nell’arte, nella narrativa a sfondo popolare.

La poesia popolare del su connotu, d’intonazione sociale con occhi volti ai valori del passato, prepara il clima culturale in cui produrranno Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo attinge l’ispirazione socialista negli anni di studio nell’Università di Sassari: un socialismo di natura “sardista” che non perde le implicazioni borghesi. Satta esalta il popolo sardo con una aggressione verbale di tipo sciovinista. Il suo indipendentismo socialista si alterna al desiderio della bara d’elce in cui porre la Sardegna per sprofondarla in mare . Nella Deledda, che non ha deviazioni socialiste ma non è immune dal positivismo, il “sardismo” è meno drammatico, non impegnato, perché il suo non è il sardismo politico. E’ il “sardismo” di coscienza della diversità. E’ un sardismo “enfatico”, ma sincero. La sardità autentica sta, per lei, nei valori che ripropone la forza fantastica e artistica dei suoi romanzi. Il “sardismo” è recuperato anche attraverso il folklore che non è di cornice ma si sostanzia di valori, è cultura sarda irrinunciabile senza di che i suoi romanzi non hanno senso.

12 - Le aspirazioni autonomistiche riemergono nel movimento di opinione antiprotezionista contro gli industriali del Nord, negli anni 1907 – 1909. Il movimento unisce nell’azione ambienti intellettuali, borghesi ed operai e si rispecchia anche nella stampa quotidiana e periodica del tempo. Nel foglio socialista “La Folla”, nel dicembre del 1907, si svolge un significativo dibattito sul “separatismo”. Altri fogli socialisti, nelle elezioni politiche del 1909, sostengono la candidatura del radicale e autonomista Umberto Cao. Sintomi interessanti di risveglio autonomistico si traducono, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, nell’intensa azione di propaganda svolta nel Sassarese e nel Logudoro, dal bonorvese Giovanni Antioco Mura. Egli tentò di sviluppare, operando nel mondo contadino, le idee del socialismo sindacalista con l’innesto di istanze autonomistiche e sardiste, nel solco nell’antico movimento angioyano.

Di notevole rilievo nella storia del “rinascimento” dell’autonomia, appaiono la visione teorica e l’attività politica del nuorese Attilio Deffenu. Di educazione anarco – socialista e antiprotezionistica, auspica la nascita d’una borghesia imprenditoriale sarda, autonoma, moderna, da porsi come nuova classe dirigente. Nel capitalismo endogeno e nell’economia liberista vede il “risorgimento” politico, sociale e morale. Dunque, un autonomismo di classe, avulso da un progetto istituzionale e territoriale di autonomia, fondamento di compiuto autogoverno.

Nel V° Congresso socialista sardo, governato da Angelo Corsi e Alberto Figus, emerge forte la richiesta d’un regime di autonomia politica, da realizzare con l’istituzione di un Parlamento sardo legiferante; dirigente la classe operaia. Nel 1918, anno di celebrazione del Congresso socialista, Umberto Cao, che ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende politiche cagliaritane del primo decennio del secolo, promosse un Manifesto per l’autonomia istituzionale e territoriale della Sardegna.

13 - Nel solco di questa tradizione, finito il conflitto mondiale 1914 – 1918, il movimento autonomistico e sardista fece un grande balzo in avanti. Diventò movimento di massa. Nacque dall’esperienza della guerra che vide “uniti” oltre centomila soldati, proletari e piccoli borghesi, reclutati nell’isola. L’istanza autonomistica fu raccolta dapprima appunto dall’Associazione di militari e reduci fondata nel 1918 da Camillo Bellini e Arnaldo Satta Branca. L’Associazione non fece suo l’appello del Cao per la creazione di un “Partito autonomista sardo che proclami la necessità dell’autonomia, già rivelata nella germinazione improvvisa e vigorosa d’un sentimento comune”. Un partito autonomista, come “Partito sardo d’azione”, dopo l’elaborazione teorica dovuta ai suoi più eminenti rappresentanti (C. Bellieni, E. Pilia, E. Lussu, U. Cao, Fancello e altri), nacque e si costituì nel congresso di fondazione, tenuto a Oristano il 16/17 aprile del 1921.

Motivo ideale del Partito era la “conquista dell’autogoverno e della sovranità per il popolo sardo e per il popolo italiano”. Partito di popolo inteso a “dare coscienza di sé al proletariato”. Autonomia regionale da esplicare nelle forme della libertà doganale, del libero mercato e scambio, in regime sociale di uguaglianza economica, da realizzarsi attraverso la costituzione di sindacati. La produzione che ne deriva “sarà tutta dei lavoratori e per i lavoratori”. Il maggior teorico – C. Bellieni – auspica uno Stato federale di Regioni-Stato con potestà d’imperio, con poteri primari nei campi di competenza riservati all’Ente-Regione, espresso dal basso, dall’ambito delle province. Nel Partito trovano rispondenza le aspirazioni di un mondo in prevalenza rurale e pastorale, ma non estraneo alle città e alle zone minerarie, diretto da intellettuali della piccola e media borghesia urbana e delle campagne. Nel Partito sardo d’azione si distingue, sebbene in minoranza, un’ala di sinistra, che fa capo a Emilio Lussu, nella quale l’autonomismo acquista una duplice valenza. Vuole rivendicare un nuovo quadro istituzionale federale o regionale a livello alto di “potere” e, insieme, riscattare le masse lavoratrici sarde indirizzate ad assumere ruolo e funzione di autogoverno. Con l’andare del tempo, nel 1972, Lussu diventa federalista, socialista e internazionalista. D’altronde, lo stesso Bellieni, nel 1925, quattro anni dopo la nascita del Partito, a fronte della crisi dello Stato democratico, affermava l’esigenza di riprendere il contatto con le masse proletarie d’accordo con quei partiti che le rappresentano, e che in questo ritorno alle masse stava il vero significato della parola “autonomia”.

14 - Se il maggior riferimento di appartenenza etnica, cementata dal sentimento unitario autonomistico, va al partito che assume significativamente il nome di sardo, nondimeno l’autonomismo regionale tocca, seppur con minore intensità, altre forze politiche di massa di ampio spettro nazionale.

Su d’un moderato autonomismo si fonda il Partito popolare italiano, di derivazione giobertiana e sturziana, con base larghissima nel mondo rurale e nei ceti medi urbani. Un grande partito di contadini, scriveva A. Gramsci nel 1920. In Sardegna attrasse a sé parte dell’aristocrazia post – feudale di tradizione piemontesizzante e sabauda e i transfughi dal coccortismo e dal democratismo radicale. Essenzialmente municipalista, incline alla conciliazione tra Stato e Regione, tendenzialmente monarchico, il partito sturziano è orientato a una semplice riforma dello Stato. L’Ente elettivo, rappresentativo, autarchico e legislativo previsto da Sturzo, non esclude poteri dell’apparato burocratico statale. Nel popolarismo entra pure il meridionalismo come suggestione salveminiana e l’interesse per la classe rurale ha preoccupazioni economiche e religiose a sé stanti.

Anche l’ala federalista e municipalista del Partito italiano d’azione propone un discorso autonomista. Rivendica l’indipendenza dell’ente – Regione dallo Stato per tutte le funzioni di natura economica e sociale con potestà d’imperio primario nella propria sfera di competenza determinata dai limiti posti dalla sovranità dello Stato federale costituito dalle Regioni.

All’interno del Partito comunista italiano risalta l’ipotesi gramsciana di autonomia. Già nel 1922 Gramsci avanza la parola d’ordine sulla trasformazione dell’Italia in una “Repubblica federale di operai e contadini” e suggerisce l’opportunità di dialogare in Sardegna, a tal fine, con il Partito sardo d’azione. La questione sarda è da risolvere a partire da una rivendicazione etnica – territoriale e dalla remota, diffusa e insistita aspirazione all’autonomia e all’autogoverno, con ripetuti tentativi, peraltro mai riusciti, di sottrarsi al dominio straniero e di darsi proprie istituzioni. Questo storico anelito al riscatto si rifletteva anche nel sovversivismo elementare, sino a forme deviate, delle masse contadine e popolari sarde e nel loro istintivo sentimento anti-continentale. Occorreva, dunque, riunire e organizzare queste forze matrici, implicitamente, dell’autonomia in un insieme di forze regolari da imporsi a guida del riscatto dall’oppressione secolare. Più nettamente, questa questione, di sardismo e autonomismo, è posta fa Gramsci, nel 1936, nello scritto Alcuni temi della questione meridionale. Qui la “questione” da sarda diventa meridionale e nazionale insieme. Il sardismo, cioè il Forza paris dei sardi, viene assunto come forza classista e omogenea dell’intellettualità libera dalla conservazione borghese, in alleanza con i ceti rurali e operai. La “questione” è posta in termini di un “quasi sardismo” che passa alle tesi del socialismo scientifico. C’è, in effetti, il superamento del sardismo e del regionalismo tradizionale e una svolta polemica con quest’ultimo, come nella questione meridionale Gramsci entra in polemica con le tesi salveminiane.

15 - Già all’inizio del formarsi di questo schieramento autonomistico di differente estrazione ideologica, preludio di una felice età dell’autonomia e del conseguente progresso democratico e civile dell’isola, irrompe il fascismo. Il fascismo tentò di attrarre nella sua orbita lo stesso Partito sardo per un confronto sulla base della comune matrice combattentistica e con richiamo ai contenuti meridionalistici e rinnovatori.

La trattativa, nel 1923, fu posta sul terreno della concessione alla Sardegna d’un regime di autonomia regionale legislativa e amministrativa in materia economica e non solo economica. Su ciò poteva configurarsi uno schema di patto di fusione del P.N.F e del P. s. d’azione. La risposta di Mussolini fu negativa. Si ruppe la trattativa e si spaccò anche il P. s. d’azione in una destra filofascista o sardofascista e il grosso del personale dirigente e della base di massa del partito, passato all’opposizione, fermo sulle posizioni originarie dell’autonomismo regionale, in aperto e schierato antifascismo.

Con le leggi eccezionali del novembre 1926, la dittatura fascista spense tutte le voci libere, interrompendo, per un ventennio, il percorso della stagione felice dell’autonomia diffusa e del sardismo partitico e generalizzato. Ma non cessò il desiderio di autonomismo e di libertà. Nello stesso piccolo mondo del sardofascismo rimase qualcosa del programma del Partito sardo d’azione. Nel terreno economico Paolo Pili, diventato da sardista deputato e segretario del fascio cagliaritano, creò la Federazione delle latterie sociali della Sardegna per sottrarsi al giogo del capitale caseario privato continentale e procurò canali autonomi di credito e commercializzazione in primo luogo negli Stati Uniti d’America. Impresa fatta fallire dal grosso capitale italiano che aveva in prima linea promosso e sostenuto il regime dei fasci. A Pili non toccò migliore sorte all’interno del partito perché fu sostituito in tutti i suoi incarichi economici e politici, riducendosi, alla fine, a vita privata. Uomo retto, rimase nell’animo “sardista”. Egli cadde nell’errore di voler conciliare contenitori di libertà quali l’autonomismo e il sardismo con una espressione di tirannia. Per il resto, il sardismo – autonomismo si ritrasse nella coscienza, nella ricerca e negli atti in favore dell’identità e dei valori isolani da parte degli storici (C. Bellieni, R. Carta Raspi, B.R. Motzo)) degli artisti (Carmelo Floris), di letterati (Egidio Pilia) del diritto (Antonio Marongiu) e in riviste di storia, cultura e tradizioni popolari sarde.

16 - E’ nell’approssimarsi alla fine dell’ultima grande guerra che si risveglia l’istanza sardista e autonomista di segno antifascista, nel tentativo di liberazione della Sardegna. In concomitanza con la guerra civile di Spagna, E. Lussu promosse una cospirazione, cercando di coinvolgere antifascisti sardi (popolari e sardisti residenti nell’isola) e volontari (anarchici, comunisti, sardisti e senza partito combattenti nelle brigate internazionali repubblicane in terra iberica) per uno sbarco in Sardegna che avrebbe dovuto provocare un’insurrezione e un colpo di Stato. Progetto andato a monte a finito con l’arresto di alcuni cospiratori del Nuorese.

Il ritiro spontaneo delle truppe tedesche (la 90° divisione corazzata) dall’isola nel 1943, il vuoto di fascismo nella maggior parte del territorio sardo, oltre che la pronta occupazione delle forze anglo – americane al comando del generale Webster, tolse l’occasione al manifestarsi in Sardegna, se non in forme sporadiche senza risonanze, del movimento di liberazione nazionale che, nel 1945, pose fine al conflitto internazionale e alla guerra civile nella penisola italiana. Il potere reale fu assunto dal comando militare alleato. Si formò un Comitato regionale con una giunta consultiva. Il 27 gennaio 1944 il governo fu affidato a un Alto Commissario nella persona del generale di squadra aerea Pietro Pinna, con la somma del potere politico e civile.

17 - Si ricostruirono i partiti dell’antiguerra, con i programmi più o meno variati, ma tutti con l’intento di dotare i sardi di più ampi poteri rispetto al passato.

Con l’Appello del Partito comunista di Sardegna nacque il Partito comunista sardo, di orientamento federalista, in tono con i motivi e le parole d’ordine gramsciani presenti già nel programma approvato nel 1920 dal congresso comunista di Lione. Il Partito comunista di Sardegna si dichiara autonomo ma direttamente collegato con l’Internazionale comunista. Ma nel primo congresso del Partito comunista italiano, tenuto a Iglesias l’11/12 marzo del 1944, fu sciolto per averlo ritenuto separatista. Soltanto nel 1947 il P.C.I si incammina sulla via dell’autonomismo di ispirazione gramsciana.

Il risorto Partito sardo d’azione, a parte una frangia iniziale separatista con segrete simpatie filoamericane e filobritanniche, nei congressi del 1944 e 1945, fedele al principio d’uno Stato federalista repubblicano italiano, continua a rivendicare un autonomismo regionale forte e radicale, con poteri legislativi sovrani e piena competenza nei settori finanziari ed economici di base liberista. Rispetto al passato emerge l’attenzione a un programma di riforma sociale.

Nel partito della Democrazia cristiana, erede del Partito popolare sturziano, si avverte un più attento interesse alla “questione sarda”. Antonio Segni, anticipando le decisioni del Consiglio nazionale sulla necessità d’un ordinamento regionale autonomo del Paese, prese per primo e risolutamente posizione per l’autonomia regionale della Sardegna. L’isola, - scrive – al pari della Sicilia, è una regione prima ancora di qualunque argomentazione politica. E’ regione per aspetti peculiari geografiche, storici, aspirazioni e atti intesi a governarsi da e stessa. Segni, nel maggio del 1944, sostiene le necessità di istituire una Camera delle Regioni in luogo del vecchio Senato. Il gruppo della D.C di Pozzomaggiore, paese nativo dell’Alto Commissario Pinna, rasentava posizioni di radicale autonomia per la Sardegna, ai limiti della secessione.

Autonomisti erano nell’isola, pure nelle differenti ideologie, repubblicani, azionisti e persino i liberali radicali del giovane Francesco Cocco Ortu, di orientamento “gobettino”.

18 - Era, questo, il clima politico nel 1945, così che Gonario Pinna, allora militante nel Partito sardo d’azione, poteva affermare che “tutti ammettono la necessità dell’autonomia per l’isola” e il suo correligionario Luigi Battista Puggioni osservava “l’impressionante fenomeno che tutti i partiti, qualunque sia la loro tendenza o colore, si professano autonomisti”.

Ma si tratta di puro sentimento, per così dire virtuale, che non porta a una coscienza e a un’azione comune, ad unità reale.

Da queste ambiguità e contraddizioni non poté sorgere un compatto movimento sardo per l’autonomia, un fronte unico di sostegno e di realizzazioni, pur auspicato da talune parti. Infatti, non usciranno a buon fine la “Giornata unitaria dell’autonomia” celebrata a Cagliari nel giugno del 1947 per l’emanazione dello Statuto sardo poco dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della riforma regionalistica dello Stato, né il successivo “Convegno per l’economia” a Macomer, presenti sardisti, democristiani, socialisti, comunisti e repubblicani. Infine, le divisioni dei partiti in campo nazionale indussero gli stessi partiti in Sardegna a separarsi sino a confliggere.

19 - Di questo clima politico incostante soffrì la prima Costituente sarda insediatasi nell’aprile del 1945 e successivamente rinnovata nei suoi componenti nel giugno del 1946, per esprimere, alla fine, un testo statutario approvato a maggioranza il 20 aprile del 1947. Nel corso dei lavori, assai travagliato, si confrontarono vari progetti di Statuto, di diversa misura e peso autonomistico, né si volle accogliere il modello dello Statuto siciliano già approvato dalla Consulta nazionale nel 1946, uno Statuto con ampi poteri di autonomia, a base quasi federale. Ne sortì, al termine dei lavori, uno Statuto sardo già in partenza mutilato e svuotato di poteri, privo d’imperio. Per di più, il testo statutario, trasmesso all’Assemblea costituente nazionale per l’approvazione che si sollecitava immediata, fu rimessa da questa al Governo con l’invito a provvedere un disegno di legge costituzionale che tenesse conto anche del progetto di Statuto elaborato dalla Costituente sarda. Dopo tanta pena, il progetto fu approvato, a larga maggioranza, in extremis, proprio nell’ultima seduta dell’Assemblea costituente, il 31 gennaio del 1948. Diventò legge costituzionale il 26 febbraio 1948, col n. 3, pubblicata nella G.U. n. 58 del 9 maggio di quell’anno. Il 28 maggio del 1949, si insediò il primo Consiglio regionale della Sardegna. Si badi, “Consiglio”, non “Parlamento” come si titola l’Assemblea siciliana.

20 - Questo Statuto, nato zoppo, di parziale autonomia, non consacrava le aspirazioni e le lotte secolari dei sardi per vedere riconosciute ed esaltate, in una solenne Carta costituzionale, la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale d’un popolo distinto, risorto a nazione. Nei suoi limiti e nelle sue mutilazioni era implicito che sarebbe stato faticoso e aspro il cammino per realizzare un sistema efficace e moderno di autogoverno. In uno Statuto “incompiuto” era in nuce una “autonomia incompiuta”, una nazione sarda “dimidiata”. Una Carta con poteri “deboli” rendeva impari il confronto tra la Regione e lo Stato, la prima “suddita” del secondo. Difatti la Regione sarda non aveva le “radici” statutarie, la forza intrinseca costituzionale per agire in proprio, secondo il proprio “genio”, in modo “eccentrico” rispetto allo Stato, bizzarra, fantasiosamente creativa. Non poté farsi e tanto meno mantenersi continuamente in “giro” autonomo e autonomistico. Invece ha dovuto mimare il sistema e gli schemi dello Stato, duplicando competenze, seguendone pedantemente legislazioni e ordinamento. Si è introdotta (o costretta a introdursi) nella morsa d’un ingranaggio “copernicano”, in un sistema di anelli concentrici dove il cerchio minore (la Regione) gira perfettamente concentrico al cerchio maggiore (lo Stato), per cui lo Stato gira in maggiore e la Regione gira in minore, in un rigoroso e astratto sistema matematico. Impigliata nella tela del ragno statale, la Regione finisce col diventare succursalista dello Stato.

Si credette di poter soddisfare le antiche passioni e pulsioni di riscatto autonomistico per il progresso, introducendo all’articolo 13 dello Statuto, unico fra tutti gli Statuti di autonomia speciale, un “Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna, da predisporre e attuare con concorso della Regione”. E’ vero che l’articolo 13 si rifà a una logica di sussidiarietà, ma anche di corresponsabilità, di compartecipazione, di solidarietà. Ma nel processo dell’attuazione è rimasto mero enunciato giuridico formale, perché non vi hanno corrisposto le garanzie e gli atti delle politiche del governo nazionale. Del resto, le ragioni dello scarso successo del Piano, denunciato già nella relazione generale che introduce il progetto del quarto programma esecutivo del Piano di Rinascita per gli esercizi 1967 – 1969, stanno in realtà nella natura degli interventi previsti dalla legge attuativa del Piano (la n. 588), che si riferisce a intervento straordinario. La legge n. 588 è una legge di “riforma” e della sfera “economica e sociale” generale (per il contenuto politico, l’indirizzo ideologico, le conseguenti forme e tecniche d’attuazione). Perciò lo Stato può richiamare (come più volte ha richiamato suscitando contestazioni e conflitti) l’interesse nazionale, con tutti i vincoli, i limiti e le ingerenze sull’attività regionale che ciò comporta. Sebbene sembri una legge “motoria” dell’attività autonomistica regionale sarda, in quanto legittima la Regione ad essere soggetto e rappresentante degli interessi generali emergenti nell’ambito locale e determinati dalla programmazione autonoma, e la delega anche all’attuazione, in sostanza la legge stessa prevede una serie di blocchi per cui sembra piuttosto doversi parlare di una programmazione e di una attuazione condizionate. Può dirsi, questa, una programmazione autonomista, dinamica, effettivamente (non soltanto verbale) democratica, sinceramente regionalista? Si tratta d’una pianificazione “arbitraria”, di vertice, non di base, senza controllo sociale né all’origine né per i risultati. Se poi si guarda al rapporto tra la programmazione regionale sarda (nella specie della legge 588) e la programmazione macroeconomica nazionale, la prima è stata egemonizzata e condizionata dalla seconda alla quale – volente o nolente – si è dovuta arrendere nella logica del sistema centralistico e autoritario dello Stato.

Circa la sfera di attuazione del Piano, i blocchi non sono stati meno cogenti. La progettazione è conformata su schemi fissi, su “modelli nazionali”. L’assistenza tecnica in agricoltura delegata delle Regioni agli organi burocratici della Cassa del Mezzogiorno, senza che possa intervenire nelle direttive e nel controllo in quanto si interferirebbe su organi e direttive riservate allo Stato. L’Ente di sviluppo, strumento “estraneo alla Regione”, un tabù dello Stato dal quale dipende in orientamenti e forme di intervento tecnico (e non soltanto tecnico). Dove e come possono dunque manifestarsi la capacità politica, la volontà autonomistica, la responsabilità direzionale e di controllo, in definitiva l’autodeterminazione e l’autogoverno che sono caratteri fondamentali e obiettivi finali delle autonomie regionali?

Nell’articolo 13 dello Statuto ne è contenuto e consacrato il logos, la ratio, ma, nello stesso tempo, ne risaltano i limiti e l’incompiutezza. Vi appare un’indicazione della “specialità”, dell’autonomia esclusivamente economica. Si tende a raggiungere una parità economica e di condizioni di vita con il resto del Paese, ma non un vero e proprio autogoverno. Si ignora che la storia d’un popolo non progredisce soltanto con i fatti economici e che lo sviluppo non si riduce a una semplice crescita economica. Dunque una “Rinascita” materialistica, senza anima, senza identità, senza il supporto di valori immateriali (di stirpe, di lingua, di costumi). Un’attenzione volta soltanto al plafond strutturale, senza la base etnico – etico – culturale, non avrebbe potuto realizzare progresso, emancipazione, protagonismo, il “fare da sé” in libertà pur senza chiudersi al respiro del mondo. A parziale discolpa di questo Statuto “moderato”, va detto che nasceva come una sorta di acquisizione ereditata, un punto di arrivo, un passato, quasi la definizione politica d’un processo concluso. Radici, ma non ali. Per di più si usciva da una guerra perduta, da macerie, da lacerazioni dei partiti riemersi, dalla presenza nella Costituente di esponenti d’un tessuto sociale polimorfo, prevalentemente piccolo borghese, con dirigenza costituita in maggior parte da elementi di borghesia intellettuale e professionale, e da rappresentanti, tutt’altro che coesi, del mondo contadino e operaio; l’insieme, se non impreparato, scarsamente attrezzato a realizzare il sogno ambizioso dell’autogoverno.

21 - L’attenzione dei primi governi regionali fu indirizzata alla valorizzazione delle tradizionali risorse locali, agro-pastorali e miniere. Non poté esperirsi, per opposizioni del governo nazionale e interne, l’offerta americana della Fondazione Rockfeller, in tecnici, attrezzature e liquidità per concorrere a realizzare in certi settori il Piano di Rinascita. Ci vollero dodici anni per l’evento di questo Piano, col disegno di legge del Consiglio dei Ministri del 17 giugno 1961, modificato con legge del 17 giugno 1962. Il Piano fu accolto con favore, nonostante gli obiettivi si appiattissero sui contenuti generali della politica meridionalistica, fossero troppi e scarsamente coordinati gli organi che vi avevano parte e fosse dislocato il potere decisionale locale riguardo al tipo di industrializzazione rivolta in modo prevalente se non esclusivo alla monocoltura chimica e petrolchimica, chiusa in alcuni “poli di sviluppo”. Altri erano gli enunciati originali del Piano che teneva conto dell’equilibrio tra il comparto industriale e quello agricolo ora penalizzato, come limitata a poche aree l’occupazione, ipotizzata diffusa. La Regione non risultava preminente soggetto di attuazione né completi erano gli strumenti attuativi, scarso il decentramento, insiti nell’organizzazione i pericoli di burocratizzazione e lunghi (venti anni) i tempi di realizzazione.

Nel modello dei “poli” petrolchimici, calato dall’alto e dall’esterno, senza l’accertata congruità ambientale e culturale, il sottosviluppo che si voleva nelle intenzioni eliminare, non poteva uscire dalla sua condizione in quanto antitesi necessaria dello sviluppo. Difatti, acquisite le relazioni della Commissione speciale per il Pi

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