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PRENDI I CREDITI... E SCAPPA!
by SAPIENZA PIRATA/LSD Thursday, Dec. 19, 2002 at 10:47 PM mail:

del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività… Goethe

Prendi i crediti e scappa


0. …del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività… Goethe
Vi è un’ipotesi che sta dietro l’idea dell’autoformazione, un’ipotesi non detta, che ci permette però oggi di considerare l’autorganizzazione della didattica, l’autogestione dei percorsi formativi come asse preminente della lotta politica nei luoghi della trasmissione del sapere, come progetto comune e potenzialmente generalizzabile.
L’ipotesi è la seguente: nei processi d’apprendimento, nello studio quotidiano, vi è sempre sottesa una certa inclinazione al rifiuto della trasmissione verticale e unidirezionale dei saperi, vi è sempre uno spontaneo risparmio di energie cognitive nell’immagazzinare stock di nozioni inutilizzabili a chi le apprende, perché troppo lontane dai contesti di vita e di azione degli studenti. Si può facilmente riconoscere nei comportamenti quotidiani di chi attraversa il mondo della formazione, un’attitudine quasi spontanea e largamente diffusa a rifiutare il sapere morto, ripetitivo, noioso ed ineffettuale che caratterizza la normale trasmissione dei saperi. Ma, come si sa, ogni fuga traccia una traiettoria verso un nuovo territorio ed è da li che bisogna partire. È dall’emergere selvaggio di nuovi saperi, dal desiderio implicito e taciuto, ma spesso solitariamente praticato, di sperimentare da sé nuove ipotesi di apprendimento, che qualsiasi progetto di autoformazione deve prendere le mosse.

1. Individualizzare e misurare

Le conoscenze, la comunicazione, l’elaborazione dei simboli, in una parola, il sapere, oggi figura come principale forza motrice dei processi produttivi: questo, ormai, lo sanno (quasi) tutti. Meno noti sono invece i meccanismi attraverso i quali non solo il sapere viene captato e messo a valore, ma anche diventa strumento di controllo, dispositivo di ricattabilità e di gerarchizzazione sociale. Per comprendere questi aspetti, che qui non possiamo che trattare sbrigativamente, bisogna passare per i luoghi della formazione. La ristrutturazione dei sistemi formativi perseguita con accanimento dai governi europei, ne è un esempio. Mettere mano alla formazione, al regime della sua distribuzione, alle modalità concrete di costruzione e trasmissione dei saperi, vuol dire, né più né meno, mettere mano alla capacità dei soggetti in formazione, cioè coloro che con quei saperi lavoreranno, di gestire autonomamente la propria flessibilità. Chi ha fatto inchiesta nell’università in questi anni ha potuto constatare che la ristrutturazione ha enormemente intensificato i meccanismi di individualizzazione e di misurazione dei percorsi formativi, attraverso l’obbligo di frequenza ha licealizzato la presenza alle lezioni e inoltre, l’attivazione dei moduli formativi ha contribuito non solo ad impoverire i saperi ma anche a gerarchizzarli. Tutto questo ha fondamentalmente due finalità: da una parte fare dei saperi appresi delle competenze scambiabili sul mercato, le riforme degli ultimi anni hanno avuto come obbiettivo quello di rendere intelligibili al mercato del lavoro le conoscenze e al tempo stesso di depurarle da tutti quegli elementi che non si adeguavano precisamente alle richieste del mercato stesso. Dall’altra parte la finalità era di rendere docili e ricattabili gli stessi possessori di quelle conoscenze, i saperi che devono essere immediatamente spesi nel mercato hanno vita breve, hanno cioè un bassissimo livello di convertibilità e chi li possiede sarà costretto ogni volta a trattare, senza forza alcuna, la loro riconversione. L’autoformazione in questo senso può presentarsi come un controdispositivo, bisogna cioè, di fronte ad una crescente individualizzazione dei percorsi formativi, sviluppare attività in grado di porre la cooperazione tra i cervelli come l’asse preminente della creazione di sapere, tanto più che la cooperazione rende i saperi stessi malleabili e convertibili, spezzare la dinamica verticale della trasmissione del sapere a favore di una costruzione collettiva ed autonoma vuol dire riprendersi lo strumento, riprendersi il cervello e rompere di conseguenza, i fili della dipendenza.

2. prendi i crediti… e scappa

Capire cos’è l’autoformazione vuol dire anche definire cosa non è. Non è il tradizionale seminario autogestito, il dibattito contrinformativo che conosciamo e che spesso organizziamo. Non si tratta di promuovere circuiti alternativi di discussioni incomunicanti ed esterni al sistema accademico. L’autoformazione è altro, su un altro tavolo gioca la sua scommessa. La vera posta in gioco è quella di condizionare internamente e conflittualmente le dinamiche della riproduzione sociale del sapere che abitano le nostre università. Questo vuol dire sostanzialmente, da una parte, avviare laboratori di ricerca autogestiti, ma dall’altra, fare in modo che quei percorsi indipendenti siano riconosciuti in crediti formativi. Qui tuttavia si incorre in un paradosso: il riconoscimento in crediti non ripropone quel processo di misurazione e monetizzazione dei saperi che prima avevamo indicato come uno dei meccanismi centrali della ristrutturazione dei sistemi formativi? Il problema è infatti capire come pratiche di conflitto possano eccedere la misura dei saperi.
Negli anni ’60 e ’70, di fronte ad una sempre più pressante richiesta di aumenti salariali da parte degli operai, il sistema di fabbrica andò in tilt, la forma salario, vero asse della regolazione capitalistica nella grande industria, divenne via via inutilizzabile per controllare, segmentare, scambiare lavoro e sfruttarlo. Le lotte in fabbrica avevano “smisurato” il salario stesso, avevano cioè reso eccessivamente costoso il prezzo della misura del lavoro. La risposta a questa crisi è scritta nella ristrutturazione neoliberista dei vent’anni seguenti: desalarizzazione del rapporto lavorativo e esplosione dei contratti “atipici”. Questo esempio storico vale solo parzialmente al nostro ragionamento, ma al tempo stesso rende più comprensibile la questione dell’uso antagonistico dei crediti. Infatti quello dei crediti è un vero e proprio meccanismo di salarizzazione del “lavoro dello studente” (così viene chiamato l’apprendimento nella riforma Zecchino). Esso oltre a consentire un sistema di scambio dei saperi, ne definisce anche prescrittivamente i contenuti. Il credito elide le eccedenze dell’apprendimento, cioè prende tutte quelle componenti non immediatamente spendibili e le bolla come sprechi. Lottare per il riconoscimento in crediti dei percorsi autoformativi vuol dire precisamente, interagire conflittualmente contro lo stesso sistema di captazione dei saperi. L’autoformazione, in questo senso, può costituire un’arma per rendere “smisurato” il lavoro degli studenti, ma al tempo stesso per fare dell’autogestione della didattica una pratica che contamina internamente e attivamente la produzione sociale del sapere universitario.


3. sull’(in)utilità e il danno delle facoltà

Come si traccia il perimetro di un sapere? Come si definisce oggi la professionalità? E come la disciplinarietà? C’è ancora bisogno delle facoltà? Senza entrare nel merito di un superficiale dibattito sul relativismo culturale è cosa evidente che i saperi contemporanei non solo tendono a differenziarsi ma anche ad assumere un carattere di non auto-sufficienza. Comporre pezzi eterogenei di conoscenze è pratica consolidata della ricerca e della sperimentazione.
Anche il lavoro cognitivo non sfugge da questa trasversalità che declina anzi dentro la definizione di una nuova categoria di professionalità. Il 3+2 è stato il tentativo socialdemocratico di adeguare il sistema formativo universitario alle richieste, del resto del tutto inaffidabili, del mercato del lavoro. Questa illusione si basava sull’idea che la professionalità andasse a braccetto con la specializzazione e la settorializzazione e che fosse quindi definibile anticipatamente e in maniera ultimativa rispetto al percorso formativo. In verità la professionalità contemporanea ha a che fare con il problem solving e con la capacità di maneggiare l’imprevisto a mezzo di continua creatività. Per questo la professionalizzazione deve essere una specificazione variabile del percorso formativo e non il percorso formativo stesso e che quest’ultimo deve contare su un carattere ampio, critico, generale e multidisciplinare. Per questo riteniamo inattuale la divisione in facoltà dei nostri atenei e intendiamo superarla attraverso dei processi diffusi di autoformazione che facciano della relazione e della non autosufficienza dei saperi e delle competenze elemento centrale e decisivo.

4. Money, Geld, Dinero, Sous, Soldi
Quando finisce lo studio e inizia la produzione, il lavoro?

Trent’anni fa la risposta sembrava chiara un po’ a tutti: l’università da una parte, la fabbrica dall’altra, ma anche, che è la stessa cosa, la progettazione e la decisione da un parte e l’esecuzione dall’altra. È opinione diffusa che il modo di produrre contemporaneo ha sovrapposto e reso coincidente sapere e produzione, ideazione ed esecuzione, sentimenti, etica e lavoro. Tanto più la creatività e l’innovazione sono il cuore della produzione di merci a mezzo di linguaggio e di conoscenze, tanto più i percorsi formativi divengono strutturalmente permanenti ed interminabili, pena la rapida obsolescenza delle competenze.
La formazione poi in quanto produzione invisibile e quindi non riconosciuta come lavoro, finisce per diventare vero e proprio vettore dello sfruttamento. I contratti di formazione lavoro, apprendisatato ecc. ne sono solo un esempio.
Non è una novità poi che stage e prestazioni di ricerca mettono immediatamente a lavoro gli studenti all’interno del nuovo percorso universitario convenzionale. Tutto questo ci fa pensare, con sempre maggiore radicalità, che la formazione va retribuita e che l’università e la ricerca devono smettere di essere considerate spese dello stato, quanto investimenti della società per intero, e che gli studenti hanno poco a che fare con il terreno separato dell’accademia, sono invece sempre più coincidenti con le figure ibride del lavoro atipico, cognitivo e relazionale.
Per questo riteniamo che la battaglia per un reddito deve affiancarsi alla richiesta dei servizi tradizionali e che gli studenti devono richiedere diritti nuovi nelle metropoli che attraversano.
Soldi e case per vivere in maniera autonoma dalle proprie famiglie durante la permanenza all’università. Accesso gratuito alle tecnologie informatiche (internet, formazione informatica). Accesso gratuito alla cultura ( teatri, cinema, musei, mostre, mediateche) perché sono i talenti e la formazione culturale in genere, con i suoi elementi di accumulazione tacita ad essere messi a valore.

5. Per una rete dell’autoformazione

L’università della riforma è un’università senza comunità. O meglio a venir meno sono le trame consolidate di socializzazione e di incontro che cedono il passo di fronte alla frequenza obbligatoria, a una ridefinizione complessiva del modo di abitare lo spazio, di organizzare i tempi. L’attività e la prassi politica che si inserivano a pieno nella povertà della socialità “ufficiale” (…ho meglio da fare che seguire le lezioni…) e negli spazi di libertà garantiti nella scelta dei propri tempi di studio e di frequenza, vengono ormai messe al margine da orari massacranti e da una socialità tutta addensata nelle classi e nei tempi di studio. Fare una assemblea diviene fatica, far sopravvivere una continuità di militanza altrettanto, praticare libera ricerca e discussione una rarità, almeno nello statuto formale della nuova università.
In verità anche se vengono meno le forme tradizionali di comunità, di socializzazione e di aggregazione politica la miseria contraddistingue anche la formula efficientista della fast-university. A maggior ragione dentro la crisi dei saperi critici, della libera ricerca, nell’azzeramento di tempi e di forme di vita consolidate, l’incursione virale (“dentro e contro”) di percorsi di formazione autogestita che chiedono crediti praticando conoscenze e linguaggi cooperativi può essere strumento utile di ricostruzione di comunità politica e di tessuto relazionale qualitativamente nuovo. L’apprendimento nelle sue forme non verticali, la ricerca sui temi messi al bando dalla didattica ufficiale quanto deboli nella politica delle assemblee e delle vertenze (non che di queste non ce ne sia bisogno) può essere, a nostro avviso, esperienza nuova di socialità, di incontro, di relazione laddove, quest’ultima, è rimasta confinata in trame neo-liceali e forsennate.

Per questo è necessario provare a costituire una rete dell’autoformazione che metta assieme i progetti sparsi, sperimentali e provvisori già praticati in diverse facoltà e università romane e nazionali.













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