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L'UNIVERSITA' DAPPERTUTTO
by SAPIENZA PIRATA/POSSE Thursday, Dec. 19, 2002 at 11:00 PM mail:

Tavola rotonda sul diritto al sapere Dal fordismo al postfordismo ovvero: dal diritto allo studio al diritto al sapere.

L’Università dappertutto
Tavola rotonda sul diritto al sapere

Dal fordismo al postfordismo ovvero: dal diritto allo studio al diritto al sapere.

Alb. La questione che vorrei proporvi riguarda le trasformazioni del sistema formativo in relazione al passaggio tra due forme differenti di produzione. Si passa da un’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi di tipo fordista-disciplinare, ad una di tipo post-fordista e ascrivibile a quella che Deleuze e Foucault chiamano società di controllo. Si passa da un modello disciplinare in cui il momento formativo-scolastico e quello lavorativo-produttivo si presentavano come due momenti nettamente separati e in sé conclusi, ad un modello che li ibrida e li fa coincidere rendendoli talvolta irriconoscibili l’uno rispetto all’altro: i caratteri che prima tenevano distinte le varie attività lavorative si sono ibridati irrevocabilmente, ciò che intendiamo per intellettualità (comprese le componenti relazionali e comunicative) non è più solo appannaggio di una particolare categoria professionale, ma si è, diciamo così, diffusa e generalizzata in ogni mansione lavorativa. L’intellettualità è divenuta componente essenziale e trasversale di tutta la forza lavoro contemporanea. Non si apprende senza essere inseriti in un contesto di applicazione delle conoscenze, cosi come non c’è processo lavorativo che non presupponga e implichi la capacità di modulare continuamente il proprio bagaglio conoscitivo.

Pao. In questo nuovo quadro produttivo a me sembra centrale porre la domanda di che cosa sia oggi il lavoro vivo: che cosa è diventato infatti se non l’apprendimento? La riqualificazione della forza lavoro post-fordista è capacità di apprendimento, questo continuo riconfigurarsi diviene ad essere produzione di ricchezza. Cosa vuol dire oggi produrre ricchezza se non apprendere? Produzione e formazione si innervano l’uno nell’altro diventando indistinguibili.

Alb. In questo nuovo quadro, mi sembra che debba essere posta una questione politica, e cioè: quale orizzonte rivendicativo risulta essere adeguato a queste trasformazioni?
Inizierei con il mettere in crisi il concetto di “diritto allo studio”, e parlerei di “diritto al sapere”, diritto questo che non si oppone al diritto allo studio, ma lo estende e lo riconfigura come diritto alla mobilità, cioè alla capacità di non subire la variabilità delle richieste del mercato del lavoro in termini di ricatto e precarietà. Dire questo, mi sembra evidente, vuol dire assumere il sapere, come l’elemento che offre dinamicità (nonché una certa forza contrattuale) alla propria vita lavorativa.

Il 3+2 tra flessibilità e precarizzazione intellettuale

Fra. La questione del 3+2, ormai diventato l’acronimo della riforma che incombe sul sistema formativo universitario, è indicativo di una tendenza generale, poiché attiene a delle indicazioni di tipo europeo, dal libro bianco di Delors in poi, sul rapporto tra formazione permanente e lavoro. Questa riforma, parte dall’assunto dell’intellettualizzazione generale dei processi produttivi.
Il fatto che nel triennio si stabiliscano delle lauree dal carattere professionalizzante, con delle qualifiche e delle competenze più agili da apprendere, rimanda ad uno scenario (nel momento in cui nel processo produttivo si assiste ad una dinamica non certo di semplificazione ma di complessità delle competenze e qualifiche richieste) in cui da una parte ci sarà una produzione di intellettualità diffusa e di massa, vincolata a saperi professionalizzanti dotati, in negativo, di un ampio margine di precarietà.
Il biennio successivo, con tanto di master e di stage (per chi poi se li potrà permettere) serviranno a riprodurre quel quadro di preparazione più ampio e più generale che farà la differenza dentro a un processo produttivo di tipo post-fordista.
Le conoscenze, quindi, assumono un alto livello contenutistico, un alto livello di specificità, soprattutto nel triennio. In un nuovo quadro dove la professionalità ha bisogno di un alto livello d’autoinvenzione e autoriproduzione, avremo però, con la nuova riforma, da un lato un livello che pertiene ad una conoscenza d’orizzonte, a partire da una posizione culturale di conoscenze di saperi molto generale, ampia e critica; dall’altra invece c’è un università che produce conoscenze spicciole, spendibili immediatamente nel mercato del lavoro, ma la stessa rapidità con cui le spendi, perché facili e accessibili, perchè ben organizzate efficienti e così via, è la stessa rapidità con cui te le bruci. Questa è secondo me una contraddizione che si gioca a livello di organizzazione, al livello di didattica, al livello di relazioni tra formazione e lavoro, su cui andrebbe giocata la partita progettuale e politica più alta. Questa cioè è una questione che interessa tutti i piani, non è semplicemente un problema di didattica, è l’unica questione capace di avere una forza ricompositiva, di aprire battaglie sul diritto al sapere in senso lato, battaglie sul reddito per un pieno riconoscimento della soggettività studentesca, come soggettività immediatamente produttiva, non come spesa ma come investimento produttivo. L’esperienza in Germania mi ha insegnato proprio questo, li c’è qualcuno che ha capito che la produzione intellettuale è l’unica che paga, cioè le risorse intellettuali relazionali diffuse, sono l’unico motore della produzione in Europa.

Alb. Il già citato 3+2, ma non è il solo dispositivo, segmentando l’offerta formativa segmenta anche il mercato del lavoro.
Se il problema non è più quello di internare il soggetto in una fabbrica, allora sarà quello di controllarne e regolarne i movimenti; per fare questo mi sembra che venga messa in campo una doppia strategia: da una parte controllare e gestire l’offerta formativa aumentando i criteri di selezione e organizzando i livelli di preparazione in termini gerarchici. Il modo in cui la formazione viene distribuita, i criteri d’accesso ai vari corsi e ai vari livelli, diventano una questione politica di grande rilievo. Non è un caso che le battaglie dei disoccupati si concentrino proprio su questo, individuando nella gratuità dei corsi di formazione professionale un obbiettivo politico di enorme importanza. L’altra componente di questa doppia strategia riguarda più da vicino il contenuto della formazione e non solo il regime della sua distribuzione: mi riferisco alla “precarietà intellettuale”, cioè a quel coefficiente di ricattabilità dei soggetti dovuto ad una preparazione e a delle conoscenze dotate di un basso livello di convertibilità e quindi, di conseguenza, un basso grado di autonomia.

Pao. Cerchiamo di definire allora che cosa vuol dire oggi “essere professionali”: se si è professionali quando una persona è in grado di autoconfigurarsi rapidamente, di manipolare i propri saperi, anche quelli specifici, allora tutto questo apre la questione della didattica: nessuno può più dire ad una persona cosa deve sapere e deve imparare a sapere. La didattica insomma, ancora proposta in termini gerarchici, tiene legato il soggetto ad una doppia dipendenza: da una parte per formarti devi partecipare ad un corso, dall’altra non hai nessun controllo di quello che impari, non riesci a metterlo in crisi. Si dovrebbe allora lavorare a costruire un nuovo patto comunicativo nel quale chi impara abbia a disposizione quegli strumenti in grado di renderlo capace della riconversione del suo sapere. Insomma nel postfordismo è difficile usare il termine professionalizzazione senza alcuna ambiguità.

Alb. Mi sembra che la discussione abbia chiarito una questione fondamentale: se il diritto allo studio è un diritto all’accesso ad un bacino formativo capace di collocare gli individui formati all’interno di un mercato del lavoro sostanzialmente stabile, oggi il problema per uno studente non è tanto un problema di collocazione (garanzia di stabilità) ma di come all’interno del mercato ci si riesce a muovere, non in termini semplicemente di posizionamento ma di capacità di movimento, di resistenza al ricatto, per questo dico che il diritto al sapere si configura come diritto alla mobilità, ma è bene specificarlo, ad una mobilità agita dal soggetto, non intesa in senso padronale come docilità alle esigenze del mercato.

Il reddito studentesco e l’autogestione dei servizi

Lor. Secondo me è interessante legare questo discorso alla questione del reddito. Parlare di diritto al sapere senza parlare del diritto al reddito rischia di diventare un ragionamento mozzo. Mi spiego: così come non rivendichiamo più il diritto al lavoro separato dalla sfera della vita, così cioè come si rivendica la produttività della propria vita attraverso il reddito di cittadinanza, così non possiamo rivendicare un diritto allo studio separatamente dal resto, dalla nostra esistenza, dal diritto ai saperi.

Fra. Io vorrei aggiungere qualcosa sul problema del reddito: ritengo che questo possa essere posto non solo come riconoscimento monetario, ma come riqualificazione e ridefinizione di servizi allo studio, faccio un esempio proprio sul problema delle nuove tecnologia: in Germania l’accesso ad internet è materia comune e quotidiana, ma non solamente perché i finanziamenti sono di più, ma perché c’è un riconoscimento esplicito della rete come luogo di produzione e connessione di conoscenze, cioè uno strumento di lavoro bello e buono che qui in Italia viene riconosciuto come tale, ma che nessuno ti fornisce e ti garantisce! È evidente che non è solamente questo, qui in ballo è anche l’accesso a servizi culturali più ampi, il cinema per esempio.

Lor. Anch’io penso che questa dimensione indiretta del reddito vada rivendicata con forza, anche le occupazioni delle case in qualche modo fanno riferimento a questo contesto, lì dove il legame tra il lavoro e la vita diventa sempre più stretto. Però quando parliamo di autoformazione, autorganizzazione della didattica ecc. dovremmo ragionare molto sul fatto che non possiamo solo aspirare ad un ampliamento dei servizi, rischiando di farci rispondere: ok, pagate più tasse e avrete a disposizione ciò che volete! Allora il ragionamento deve cadere anche sulla capacità di autogestire il servizio…

Fra. Anche sulla gratuità però, altrimenti la battaglia è persa dall’inizio, rischiamo di fare le università americane.

Lor. Ovvio che devi puntare sulla gratuità, però devi essere anche capace di creare i meccanismi di autogestione di questi servizi, il problema è che i servizi sono direttamente impresa, all’università la produzione di servizi è direttamente produzione di impresa, tu devi avere la capacità adeguata al livello in cui sta il servizio in questo momento, capacità autorganizzativa. Nello specifico dell’accesso alla rete il problema si fa determinante perché si può accedere in modi diversi. Non è un caso che all’università, dentro le occupazioni questo ragionamento cominciava a circolare, la possibilità dentro le presidenze di usare in modo continuo e “sregolato” la rete ha posto la questione di ridefinire questo problema in termini politici… questo è un terreno molto fertile.
L’altra cosa importante è la questione delle tecnologie, cioè di come il lavoro cambia con l’utilizzazione delle nuove tecnologie, in questo senso il diritto al sapere riconfigura tutto il problema sull’inclusione/esclusione. Tu puoi avere anche una preparazione di alto livello ma poi sul mercato del lavoro, se non sei in grado di usare questi nuovi strumenti, sei ributtato indietro, sei cioè costretto a seguire e a pagarti a tue spese un corso di formazione in grado di darti la capacità di usare un P.C. la relazione con le tecnologie oggi, sul lavoro, è pressoché inevitabile. Anche in questo quindi deve ripiegarsi l’idea dell’accesso al sapere, intesa quindi anche come diritto all’accesso alle nuove tecnologie.
La questione anche qui va posta nei termini di diritto al reddito, la tua capacità di formarti anche autonomamente non può essere slegata dalla possibilità di accedere ad un reddito: un reddito sganciato dalla prestazione formativa.

Fra. Certo, partendo però dal discorso che stiamo facendo noi, cioè appunto un riconoscimento di positività dell’autonomia, se autonomia però significa possibilità di conflittualità interna, attraverso percorsi di autogestione e ribaltamento del rapporto università-territorio, produzione di formazione e autoformazione gratuita, costruzione di bacini di mercato inesistenti e così via, sul riconoscimento di una griglia di diritti che appunto riconoscano legittimità direttamente produttiva della figura studentesca, e quindi forma di reddito legate ai servizi, alla gratuità dell’accesso ecc…

Autonomia come uso antagonista del credito; autonomia come azione sul territorio.

Fra. Autoformazione e crediti come riconoscimento dei propri percorsi formativi: è il discorso dell’uso antagonista del credito, cioè di una pratica generalizzata di utilizzo dei crediti formativi, per moltiplicare le iniziative di autoricerca e conricerca dentro l’università… questo è un meccanismo formalmente possibile anche all’interno della stessa riforma universitaria, è un attacco dall’interno, se ci sono ricerche fatte autonomamente dagli studenti che possono essere riconosciute, possono funzionare come luoghi di produzione di valutazione, di crediti. Questo per gli studenti coinvolti nella ricerca vorrebbe anche significare riconoscimento e occasione di ricomposizione politica dentro l’università. Il credito potrebbe in questa ipotesi diventare un elemento di aggregazione e ricomposizione per gli studenti.

Alb. È precisamente questo il problema dell’autonomia didattica, di quale autonomia stiamo parlando? Oramai sappiamo che questa parola può assumere facilmente il significato opposto.

Alb. può ribaltare un anello fondamentale della riforma, il rapporto cioè tra l’università e il territorio: fino a adesso questo legame è stato vissuto solo nei termini negativi del comando d’impresa: l’università, come soggetto passivo che deve farsi carico del bisogno delle imprese di forza-lavoro qualificata, diventa niente di più che l’appendice di un processo di esternalizzazione della formazione professionale. Questo evidentemente va ribaltato nella capacità attiva del territorio di diventare vettore di innovazione e portatore di altri bisogni.

Fra. La dimensione di adattamento può infatti essere un’altra: l’università che produce mercato e non un mercato che produce conoscenza. Questa mi sembra un’ipotesi praticabile.

Lor. Sull’autonomia e il territorio, noi a Roma abbiamo una possibilità molto grossa, nel senso che, la Sapienza è un’anomalia enorme (per questo c’è caos, per questo c’è movimento alla Sapienza) perché rappresenta ciò che non c’è già più: una cittadella universitaria completamente esterna alla metropoli, chiusa nel suo recinto, l’idea fascista è ancora lì…

Pao. È un’università che si vede ancora! Roma Tre per esempio non si vede, è completamente ibridata col territorio, col suo bacino sociale e produttivo.

Lor. Certo, però la Sapienza è consapevole che così non funziona più, non è più competitiva. Si dovrà quindi ristrutturare sul territorio, si sta dislocando appunto sul territorio, secondo me quindi noi abbiamo la possibilità su alcune cose, anche simboliche e provocatorie, di correre più veloce, vista la sua lentezza burocratica, di intercettare i territori dove si dislocherà, non è possibile che l’università si apre al territorio e il territorio è unicamente quello delle imprese, perché non aprirsi a quello della cooperazione sociale, dell’associazionismo, il problema è quello di individuare altri tipi di referenti, stimolarli nei percorsi dell’autorganizzazione. C’è l’urgenza di anticipare questo ragionamento sul territorio, visto che poi è anche quello tuo proprio, i movimenti hanno scoperto il territorio prima, anche questo fa parte del solito rovesciamento, c’è bisogno di riprenderci ciò che è nostro.
Bisogna capire come questa formazione autogestita sia conflittuale dentro l’università ma anche come riesca a connettersi con la metropoli; in questa dinamica di fare e saper fare, strutturare progetti che abbiano anche una certa praticità è fondamentale. Su questa questione, le nuove tecnologie aprono un nuovo campo di potenzialità, la capacità di gestirle con un ampio margine di autonomia ti offre una contrattualità di un certo livello.

Sapere critico come sapere vivo.

Fra. Ristabiliamo un concetto di sapere critico che vogliamo costruire: forse il “la” che possiamo dare rispetto a questa nuova idea di sapere critico (ma dovremmo darci la possibilità nel tempo di avviare una ricerca seria su questo, laboratori di ricerca che problematizzano questo discorso) è quella di un sapere inteso come orizzonte specificabile e qualificabile all’interno di contingenze precise. Questo significa un sapere dotato di un alto grado di formalità e di generalità, che significa poi dotato di una costellazione di possibilità sempre qualificabili. L’avere relazioni di criticità con l’innovazione continua, con la continua mobilità, significa essere dotati di un sapere che in qualche modo può essere continuamente qualificabile, e al tempo stesso di qualificazioni sempre differenti, deve poter essere specificato nella contingenza, nel contesto pratico, in modo diverso, parliamo quindi di un sapere che ha un taglio formale come riferimento che però poi si esprime dentro il vivere, dentro i contenuti concreti, l’importante è che non li premetta in maniera specifica e settorializzata. Secondo me la battaglia grossa che va fatta è proprio questa, il sapere che per me non è critico, usando una definizione in negativo, è quello espresso da un’università tutta organizzata sulla definizione di qualificazioni settoriali, specifiche, sta lì la differenza. Questo è il potenziale di criticità che va rivendicato fortemente, è quella stessa generalità che rivendica il privilegio di una serie di studi, tolti dal loro livello di monumentalità, rispetto a percorsi preconfezionati. Rimanere prima del livello di professionalità, e fare in modo che questo livello di professionalità sia una specificazione, un’utilizzazione continua dei pezzi, penso sia un ipotesi di sapere critico.

Alb. bisogna essere netti su questo punto: la criticità del sapere deve interagire all’interno dei processi produttivi, all’interno deve giocare la sua sfida sulla trasformazione, altrimenti si corre il rischio di dar vita ad un sapere condannato all’ineffettualità dell’opinione. Il problema, tornando su un campo politico, è quello del passaggio dall’autogestione all’autogoverno, parlo di questo in riferimento all’ipotesi dell’autoformazione. Non serve a niente costruire saperi buoni per una nicchia di persone, ma una formazione che sappia giocare al livello dei circuiti di riproduzione dell’intelligenza sociale, che dentro ristrutturi dal basso i circuiti produttivi, per questo dico che il discorso sul sapere critico o è interno a questi meccanismi riuscendo anche a destrutturarli, oppure è un sapere che a me non interessa, perché non è critico cioè non produce differenza, non trasforma.
Proprio su questo dovremmo stare più attenti a quello che spontaneamente avviene nelle nostre facoltà: parlo di tutte quelle fughe dal proprio percorso formativo, tutte quelle piccole strategie di resistenza al sapere accademico che tra gli studenti sono pratiche diffuse ma che rimangono irriconoscibili, perché sotterranee, informali e spesso vissute come individuali. Nella preparazione di un esame, per esempio, spesso si assiste ad un vero e proprio “rifiuto dello studio”: si tende a ridurre al minimo la fatica di immagazzinare un sapere appreso in modo trascendentale, che non produce nessuna effettualità positiva nel contesto di vita che mi vivo, vale a dire, non mi offre griglie di intelligibilità capaci di agire le situazioni in cui mi trovo, spesso a vantaggio di un percorso formativo più vicino alle forme di vita, che sia espressione collettiva delle diverse soggettività. In questa sottrazione d’intelligenza dai circuiti del sapere accademico a vantaggio di un sapere costruito collettivamente, è contenuta l’idea dell’autoformazione, meglio: l’autorganizzazione della didattica è il riconoscimento e l’espressione politica di questa tendenza diffusa.

Lor. Il fuori-corso da questo punto di vista è paradigmatico, che cosa farà mai in tutto questo tempo dentro l’università? In molti casi lavora per continuare a mantenersi l’università, forse magari lavora non solo per necessità di reddito ma anche per necessità formativa, ma sicuramente l’altra parte di tempo la impiegherà ad imparare cose che all’università non impara, perché ha capito benissimo che l’università così com’è, non gli servirà a molto, nemmeno per lavorare.
Un altra cosa riguarda ancora le tecnologie, in questo caso l’autoformazione, specie per gli studenti che non studiano direttamente l’informatica, diventa indispensabile, cioè acquisiscono vere e proprie capacità lavorative in campi non sempre connessi a quello che si studia. Tutta questa eccedenza formativa, che interseca il percorso universitario, non ti è in nessun modo riconosciuta, la criticità sta proprio qui: tu riesci a dare senso e criticità al tuo studio solo se lo contamini con altre modalità formative.

Pao. Bisogna riconoscere una nuova tecnologia del sapere. Il sapere così come ti viene offerto, dipende strettamente da dispositivi di misurazione e individualizzazione, altrimenti l’esame che cos’è se non una forfetaria misurazione della conoscenza, misurazione per di più individualizzante. Ora, una nuova tecnologia del sapere deve necessariamente rimandare ad un sapere collettivo, che ecceda l’esame… dall’esame all’evento, dalle aule ai corridoi, è lì che succede qualcosa. È nei piccoli incrementi collettivi e cooperativi che si realizza il sapere, no dentro il grottesco di un aula.


Alb. Non basta cioè ricordare che c’è una parte sommersa dell’iceberg formativo, ma comprendere come funziona, quale tendenze porta con se, qual è l’elemento caratterizzante di questo sapere vivo… (ecco forse sarebbe più appropriato parlare di sapere vivo e non di sapere critico)… afferrare in ogni sua manifestazione, l’elemento paradigmatico e innovativo, perché solo attraverso questo si riesce a riprodurlo, portare il sapere vivo che si esprime all’interno dell’università ad un alto livello di riproducibilità sociale. Proviamo a dire quindi quali potrebbero essere questi elementi paradigmatici: da una parte, lo dicevamo prima, “l’effettualità”, cioè appunto questo legame vitale tra la conoscenza l’espressione e l’azione, dall’altra la “cooperazione”, cioè la composizione creativa degli elementi e dei soggetti. Cominciamo cioè a dire che il termine innovazione e il termine cooperazione sono due sinonimi: l’innovazione deve essere pensata come un processo sempre circolare che s’incrementa collettivamente attraverso sequenze di micro-innovazioni continue, in questo senso la condivisione del sapere e la circolarità della comunicazione ne diventano le condizioni fondamentali. L’individualizzazione dei percorsi formativi, così come la limitazione dell’accesso ai flussi informativi, devono essere visti come elementi distruttivi di innovazione.

Lor. Si, è proprio su questo rapporto cooperazione-individualizzazione che poi nasco le grandi questioni sulla proprietà intellettuale, questioni sulle quali all’università abbiamo anche cercato di formulare un ragionamento.

Il diritto al sapere come diritto di cittadinanza.

Alb. Penso che il primo impegno politico di un universitario è di superare continuamente il proprio contesto, superarlo in tutte le direzioni. Non è più il tempo di fare alleanze stile ‘68 con qualche altra fantomatica classe operaia, il problema è casomai capire come la propria esistenza universitaria sia gia in se una molteplicità di esistenze concatenate. Questo a mio parare introduce il tema della cittadinanza, tema su cui noi all’università dovremo lavorare molto. Il problema grosso che hanno i movimenti globali, è che mi sembra rimangano schiacciati sulla dimensione del consumo, cosicché ci si percepisce semplicemente come terminali passivi di devastanti processi economici, senza rintracciare in questi, gli elementi soggettivi della produzione generale dell’intellettualità di massa, questa dimensione diffusa e massificata appunto, dove il consumo e la produzione sono due elementi di una stessa soggettività molteplice. Questo carattere trasversale alle vecchie categorie della sociologia politica, viene ben espresso dal concetto di cittadinanza, concetto che deve essere riempito ancor meglio di contenuti. Non è un caso, che il nuovo dibattito sui diritti appunto di cittadinanza abbia origine da quello sul reddito, infatti il reddito di cittadinanza ha l’ambizione di essere rivendicazione all’altezza della composizione di queste nuove soggettività che eccedono continuamente i confini del lavoro e del consumo, meglio è espressione e riconoscimento di un concetto ampliato di produzione. Se pensiamo all’università, e alla formazione in tutte le sue forme, possiamo individuare questo come un terreno fertile su cui costruire un ragionamento politico sulla cittadinanza: il diritto al sapere così come lo abbiamo configurato, rientra a pieno titolo nei diritti della cittadinanza, perché non è un diritto studentesco, né un diritto della massa, ma un diritto agito da una molteplicità di soggetti ibridi.

Fra. Bisogna tenere insieme questi aspetti, se ci pensiamo bene pensiamo cosa vuol dire parlare di reddito di cittadinanza e farlo in qualità di studenti, cioè di soggetti che producono quei modelli epistemici che informano il tessuto produttivo: oggi si parla di modelli epistemici prima di descrivere i modelli di funzionamento delle imprese, prima di fare analisi sociologiche o descrizione delle soggettività del lavoro, questi modelli stanno a monte delle figure lavorative. Il biopolitico è questa capacità ti tenere insieme questioni relative alla cittadinanza che è un tema che appartiene ai paradigmi politici e giuridici, con la questione del reddito che attiene ad una dimensione più economica, fino al sapere che si riferisce a problemi legati alla produzione dei tessuti connettivi dell’economia

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per dvd quello che ti ha dato del coglione Friday, Dec. 20, 2002 at 12:43 PM
dvd dvd Friday, Dec. 20, 2002 at 12:08 PM
dvd dvd Friday, Dec. 20, 2002 at 12:07 PM
mah... demo Friday, Dec. 20, 2002 at 8:04 AM
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