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L'Islam, il petrolio e l'11 settembre
by George Caffentzis Wednesday, Dec. 25, 2002 at 4:44 PM mail:

L’Islam, il petrolio e l’11 settembre: un saggio rivolto al movimento antiglobalizzazione


Con questo saggio intendo partecipare al dibattito interno al movimento antiglobalizzazione sui fatti dell’11 settembre. Sono angosciato per le vite perse quel giorno negli attentati. Sono anche preoccupato per lo scenario che ci si prospetta:

- Bombardamenti massicci dell’Afghanistan e piani per il proseguimento della guerra contro una lista di paesi (circa sessanta, secondo il presidente Bush) che presumibilmente appoggierebbero il terrorismo o darebbero asilo a terroristi.

- L’aumento di xenofobia, soprattutto verso gli arabi, ma estesa a tutti gli immigranti.

- La demonizzazione del movimento antiglobalizzazione, accusato di essere nemico della "civiltà" e di mostrarsi indifferente o persino indulgente verso il massacro dell’11 settembre.

- Nuove restrizioni delle libertà civili, compresa la sospensione dell’habeas corpus per un’ampia fascia di persone e l’uso di tribunali militari per non-cittadini indicati come "terroristi".

- Cosa possiamo fare in questa situazione, noi del movimento antiglobalizzazione?

- Il nostro primo compito è certamente quello di fermare il dilagare della violenza, e di mobilitarci contro la guerra condotta dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan o contro qualunque altro paese l’amministrazione Bush scelga come bersaglio per la sua "guerra al terrorismo". Dobbiamo inoltre essere solidali con le comunità di arabi e di immigrati che negli Stati Uniti sono attualmente sottoposte a un attacco fisico e ideologico. Dobbiamo infine portare avanti la nostra battaglia per le libertà civili, per la libertà dello spazio pubblico e la libertà di movimento.

Queste reazioni a carattere generale contro la guerra, contro il razzismo, a favore delle libertà civili, sebbene legittime, non bastano. Dobbiamo capire meglio quanto è accaduto e perché, poiché ogni fraintendimento al riguardo potrebbe avere conseguenze gravissime per il movimento antiglobalizzazione. Anche se i dirottamenti e le stragi dell’11 settembre hanno avuto un effetto destabilizzante sull’amministrazione Bush, hanno deciso di sfruttarli come opportunità politica per trasformare il concetto stesso di dissenso e per spedire l’esercito statunitense nelle ex-repubbliche sovietiche, ricche di petrolio, dell’Asia Centrale. Una politica generalista è destinata ad avere un carattere reattivo in questa situazione storica, anche mentre cominciano a manifestarsi le mosse militari avventate dell’amministrazione Bush e le sue contraddizioni politiche.

Inevitabilmente la natura di questo mio saggio sarà congetturale e ipotetica, data la nostra attuale mancanza di conoscenze precise sui dettagli dei crimini in questione. Inoltre il mio scopo è quello di classificare e spiegare, non di diffamare. I fatti legali e morali che abbiamo davanti sono abbastanza eloquenti. Gli assassinii dell’11 settembre costituiscono uno dei peggiori massacri dell’ultimo decennio compiuti nell’arco di un solo giorno — probabilmente solo i primi giorni del genocidio dei Tutsi in Ruanda possono competere in termini numerici. Le migliaia di morti sono un crimine gravissimo contro l’umanità e anche se i suoi diretti esecutori sono morti, i loro complici, se ve ne sono stati, devono essere catturati e processati nei tribunali competenti, senza che il governo statunitense debba commettere analoghi crimini contro l’umanità in altri paesi. Il fatto che una simile affermazione sia in questo momento materia di controversia negli Stati Uniti, indica quanto siano pericolosi i tempi in cui viviamo.

Petrolio, globalizzazione e fondamentalismo islamico

Su un piano generale, i fatti dell’11 Settembre 2001 si possono ricondurre alle crisi economiche, sociali e culturali che si sono sviluppate nell’Africa del nord, nel Medio Oriente e nell’Asia occidentale in seguito alla guerra del Golfo e, prima ancora, a partire dalla fine degli anni Settanta, al processo sempre più rapido di globalizzazione (1). Il primo aspetto di questa crisi è stato l’impoverimento dei lavoratori urbani e agricoli delle aree in questione in seguito alle politiche di adeguamento strutturale (SAPs) e alla liberalizzazione delle importazioni, successivamente alle politiche egiziane della "porta aperta", che costarono la vita a Anwar Sadat e videro l’emergere del fondamentalismo islamico come nuova forza politica.(2)

Dalle "rivolte per il pane" del Cairo nel 1976, alle sollevazioni in Marocco e in Algeria del 1988, entrambe finite in un bagno di sangue, fino alle più recenti rivolte contro il FMI in Giordania e in Indonesia, le condizioni di semplice sopravvivenza dei lavoratori sono diventate sempre più drammatiche, determinando gravi divisioni tra le classi capitaliste, dal Marocco all’Indonesia, su come affrontare questa ribellione dal basso (Midnight Notes 1992). Un altro fattore di crisi è costituito dalla situazione palestinese. L’espulsione dei palestinesi dal Kuwait con la guerra del Golfo, la risposta israeliana alle richieste palestinesi con ulteriori insediamenti, il tentativo di usurpare Gerusalemme e una crescente repressione non potevano che intensificarne la crisi. A prescindere dalla loro attuale buona disposizione verso i palestinesi, questa situazione è stata motivo di grande imbarazzo per le classi dirigenti degli altri paesi, rivelando, di fatto, la loro doppiezza e la superficialità del loro impegno nella causa della solidarietà islamica.

Il ruolo egemonico degli Stati Uniti nella regione, esemplificato dalla devastazione dell’Iraq, dalle relazioni preferenziali del governo statunitense con la gestione delle risorse petrolifere in Medioriente , dalla costruzione di basi USA proprio in Arabia Saudita, la terra più sacra all’Islam, hanno rappresentato il principale fattore di crisi. Su tutti questi punti si sono sviluppate profonde divisioni all’interno delle classi dirigenti di quei paesi, contrapponendo governi filo-americani — spesso rappresentati nella penisola arabica da dinastie reali— e una nuova generazione di dissidenti che, in nome del Corano, accusano gli altri di corruzione, di dilapidare le risorse della regione, di essersi venduti agli Stati Uniti, di aver tradito l’Islam, offrendo costantemente alle classi lavoratrici del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Asia occidentale un "contratto sociale" alternativo, e servendosi della loro ricchezza per creare una rete multinazionale di gruppi che si estendono in ogni continente e spesso sviluppano una loro autonomia. Perché dobbiamo ricordarci che ogni classe dirigente capitalista, per quanto draconiana nella retorica, arriva al potere con un "piano" per dividere la classe dei lavoratori. Persino i Nazisti offrivano lavoro garantito e un lebensraum finalmente libero ai lavoratori "ariani" a patto che collaborassero all’oppressione di lavoratori loro simili. Le classi dirigenti del fondamentalismo islamico non fanno eccezione.

Quanto al programma sociale, il fondamentalismo islamico si è distinto, oltre che per il suo completo sostegno all’ordinamento patriarcale, per il tentativo di accattivarsi la popolazione urbana attraverso l’offerta di alcuni servizi di base quali istruzione, sanità, e un minimo di assistenza sociale. Queste iniziative sono state spesso adottate in risposta alla chiusura di sussidi e programmi statali imposta in queste regioni dalle SAPs (Politiche di Adeguamento Strutturale) messe a punto dai neoliberisti della Banca mondiale e dall’FMi. Così, per esempio, sono le reti del fondamentalismo islamico a provvedere alle cure mediche e all’istruzione nei "territori" palestinesi, presentandosi quasi come un governo alternativo all 'OLP.

Durante l’ultimo decennio, con l’acuirsi della crisi mediorientale e internazionale si è intensificato anche l’antagonismo delle reti del fondamentalismo islamico contro gli Stati Uniti e i suoi sostenitori presenti nei vari paesi islamici. Ma nei paesi chiave questo conflitto è arrivato ad una situazione di stallo. In Algeria, ad esempio, il Fronte di Salvezza Islamico, che dopo le rivolte anti-SAP del 1988 era rapidamente cresciuto e aveva quasi conquistato il potere nelle elezioni del 1991, è stato fermato da un colpo di stato militare. Nell’ultimo decennio, durante l’orrenda guerra civile in cui sono rimaste uccise tra le 60 e le 70 mila persone, il logoramento e la repressione militare hanno decisamente indebolito il fondamentalismo islamico algerino. In Egitto oltre alla repressione militare diretta, il regime di Mubarak ha adottato un sistema capillare di sorveglianza sociale per sconfiggere la "marea" fondamentalista. Infatti "il governo [di Mubarak] ha arginato il proliferare di moschee private e fondazioni mettendo fine alla loro autonomia extragovernativa" (Flask 1997: 54). Il fondamentalismo ha così subito una sconfitta decisiva in quello che è forse, per importanza, il secondo stato islamico.

Questi insuccessi non sono stati scossi significativamente dalla conquista del potere da parte dei fondamentalisti in Sudan e in Afghanistan, perché in entrambi i casi, infatti, hanno ereditato una situazione di guerre civili endemiche a cui non hanno saputo porre fine. La guerra civile in Afghanistan ha determinato la fine del regime fondamentalista non appena gli Stati Uniti e i poteri locali (Russia, Iran e Pakistan) si sono messi d’accordo sulla sua fine e hanno fornito all’opposizione armi (Russia) e sostegno aereo (Usa).

Ma situazione di stallo non vuol dire sconfitta, e non c’è dubbio che il fondamentalismo islamico continui ad esercitare un’ascendente sui gruppi al potere nei paesi islamici più ricchi. Questa contraddizione interna ha creato un intricata catena di conseguenze che si rivelano adesso imbarazzanti e pericolose per molti componenti del governo statunitense e di quello di paesi mediorientali. Infatti costoro hanno finanziato e formato quella stessa generazione di dissidenti che ora gli si rivolta contro con tanta violenza. Da un lato, una parte del reddito petrolifero medio-orientale è stata utilizzata per finanziare assalti ai simboli del Nuovo Ordine Mondiale, a causa della spaccatura interna nelle classi dirigenti medio-orientali; dall’altro, il governo statunitense ha finanziato e addestrato molti elementi di questa frangia dissidente delle classi dirigenti medio-orientali, nel tentativo di destabilizzare il potere sovietico in Afghanistan.

Il sostegno ufficiale e informale, militare e finanziario, ai fondamentalisti islamici armati non si è interrotto con il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan nel 1989. Costoro hanno svolto un ruolo economico, militare e ideologico importante nel promuovere la politica statunitense contro la Yugoslavia (in Bosnia e Kosovo) e contro la Russia (in Cecenia, Dagestan, Uzbekistan) fino al 10 settembre 2001. Il patto, a quanto pare, era: fate il lavoro sporco, combattete e destabilizzate i regimi secolari comunisti, socialisti e nazionalisti in Europa Orientale, nel Caucaso e in Asia Centrale e sarete ricompensati. Questi militanti "fluttuanti" hanno fatto il lavoro sporco degli Stati Uniti per vent’anni, ma, com’è ovvio, si sono progressivamente convinti che gli Stati Uniti non avrebbero mantenuto il loro impegno. Non avevano ricevuto la ricompensa pattuita: ottenere il potere nel cuore del mondo islamico, nella penisola araba.

Questa complicità e questi patti spiegano forse perché l’amministrazione Bush sia così restia a fare quello che sarebbe più naturale dopo il completo fallimento dei servizi di intelligence e di sicurezza dimostrato dai crimini dell’11 settembre: cacciare gli incompetenti. Difficile farlo, perché molti di coloro che sono tornati al potere nell’amministrazione di George W. Bush erano gli stessi che, durante la presidenza di suo padre, sono stati responsabili dell’addestramento e finanziamento di quelle stesse organizzazioni ora perseguite come "terroristiche". Perciò le dinastie governative sia degli Stati Uniti che dell’Arabia Saudita devono preoccuparsi di quei "membri della famiglia" che, per i loro passati legami, si sono compromessi con le reti che adesso indicano come responsabili dei fatti dell’11 settembre. Questo vale anche per la famiglia del Presidente. Il Wall Street Journal (28/9/01) riferiva ad esempio che il padre del presidente come pure altri appartenenti alla sua stretta cerchia, come l’ex Segretario di Stato James Barker, curavano gli interessi della famiglia bin Laden in Arabia Saudita tramite il gruppo Carlyle, una società di consulenza internazionale.

I tentativi rozzi e disperati degli ideologi dell’amministrazione Bush di collegare in modi sempre più contorti il movimento anti-globalizzazione al fondamentalismo islamico sono alimentati dal desiderio di distrarre l’attenzione pubblica e nascondono l'ansia – riassumibile nella domanda: quando verrà alla luce il lungo elenco dei veri rapporti tra la "rete terroristica" cui l’amministrazione Bush dà la caccia e il personale stesso dell’amministrazione? È probabilmente questo il motivo per cui il presidente Bush ha riesumato dai suoi ricordi infantili i manifesti "Wanted dead or alive" (con l’accento su "DEAD") nel parlare di Osama bin Laden e dei suoi compagni. Ed è inoltre la ragione per cui i dispositivi militari utilizzati per la "caccia" a bin Laden, come i "Daisy Cutters" lanciati in prossimità di grotte sospette, sono concepiti per seppellire i criminali ricercati piuttosto che per portarli alla luce. Perché se mai essi dicessero la verità, la legittimità dell’amministrazione sarebbe minacciata.

Questa "ansia dell’influenza" spiega inoltre l’enfasi sulla segretezza dei procedimenti giudiziari prevista in caso di soggetti classificati come "terroristi" prima che siano processati nelle corti amministrative del Servizio immigrazione e naturalizzazione (INS) o nei tribunali militari. L’amministrazione Bush si premura di giustificare questa segretezza adducendo motivi di "protezione" verso il personale governativo che ha avuto rapporti da chiarire con i "terroristi" sotto processo. Ma in parte ciò che si vuole proteggere è la frequente cooperazione tra la "rete terroristica" del fondamentalismo islamico e i responsabili della politica estera statunitense degli ultimi due decenni.



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Osama Bin Bush rum Wednesday, Dec. 25, 2002 at 9:11 PM
E se il contratto non fosse stato rotto il 10 settembre? Sbancor Wednesday, Dec. 25, 2002 at 5:41 PM
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