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grammatica della moltitudine
by Paolo Virno Thursday, Dec. 26, 2002 at 2:10 PM mail:

1. Popolo vs Moltitudine: Hobbes e Spinoza




Ritengo che il concetto di "moltitudine", da contrapporre a quello più familiare di "popolo", sia un attrezzo decisivo per ogni riflessione sulla sfera pubblica contemporanea. Occorre tener presente che l’alternativa tra "popolo" e "moltitudine" fu al centro delle controversie pratiche (fondazione degli Stati centrali moderni, guerre di religione ecc.) e teorico-filosofiche del XVII secolo. Questi due concetti in lizza tra loro, forgiatisi nel fuoco di contrasti acutissimi, giocarono un ruolo di prima grandezza nella definizione delle categorie politico-sociali della modernità. Fu la nozione di "popolo" a prevalere. "Moltitudine" è il termine perdente, il concetto che ebbe la peggio. Nel descrivere le forme della vita associata e lo spirito pubblico dei grandi Stati appena costituiti, non si parlò più di moltitudine, ma di popolo. Resta da chiedersi se oggi, alla fine di un lungo ciclo, non si riapra quella antica disputa; se oggi, allorché la teoria politica della modernità patisce una crisi radicale, la nozione allora sconfitta non mostri una straordinaria vitalità, prendendosi così una clamorosa rivincita.

Le due polarità, popolo e moltitudine, hanno come padri putativi Hobbes e Spinoza. Per Spinoza, la multitudo sta a indicare una pluralità che persiste come tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva, nella cura degli affari comuni, senza convergere in un Uno, senza svaporare in un moto centripeto. Moltitudine è la forma di esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti: forma permanente, non episodica o interstiziale. Per Spinoza, la multitudo è l’architrave delle libertà civili (cfr. Spinoza 1677).

Hobbes detesta – uso a ragion veduta un vocabolo passionale, ben poco scientifico – la moltitudine, si scaglia contro di essa. Nell’esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti, nella pluralità che non converge in una unità sintetica, egli scorge il massimo pericolo per il "supremo imperio", cioè per quel monopolio della decisione politica che è lo Stato. Il modo migliore per comprendere la portata di un concetto – moltitudine, nel nostro caso – è di esaminarlo con gli occhi di chi lo ha combattuto con tenacia. A coglierne tutte le implicazioni e le sfumature è proprio colui che desidera espungerlo dall’orizzonte teorico e pratico.

Prima di esporre concisamente il modo in cui Hobbes raffigura la detestata moltitudine, è bene precisare lo scopo che qui si persegue. Vorrei mostrare che la categoria della moltitudine (proprio qual è tratteggiata dal suo nemico giurato, Hobbes) aiuta a spiegare un certo numero di comportamenti sociali contemporanei. Dopo i secoli del "popolo" e quindi dello Stato (Stato-nazione, Stato centralizzato ecc.), torna infine a manifestarsi la polarità contrapposta, abrogata agli albori della modernità. La moltitudine come ultimo grido della teoria sociale, politica e filosofica? Forse. Un’intera gamma di fenomeni ragguardevoli – giochi linguistici, forme di vita, propensioni etiche, caratteri salienti dell’odierna produzione materiale – risulta poco o punto comprensibile, se non a partire dal modo di essere dei molti. Per indagare questo modo di essere, bisogna ricorrere a una strumentazione concettuale assai varia: antropologia, filosofia del linguaggio, critica dell’economia politica, riflessione etica. Occorre circumnavigare il continente-moltitudine, mutando più volte l’angolo prospettico.

Ciò detto, vediamo brevemente come Hobbes delinea, da avversario perspicace, il modo di essere dei "molti". Per Hobbes, il contrasto politico decisivo è quello tra moltitudine e popolo. La sfera pubblica moderna può avere come baricentro o l’una o l’altro. La guerra civile, sempre incombente, ha la sua forma logica in questa alternativa. Il concetto di popolo, a detta di Hobbes, è strettamente correlato all’esistenza dello Stato; di più, ne è un riverbero, un riflesso: se Stato, allora popolo. In mancanza dello Stato, niente popolo. Nel De Cive, in cui è esposto in lungo e in largo l’orrore per la moltitudine, si legge: "Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica e cui si può attribuire una volontà unica" (Hobbes 1642: XII, 8; ma cfr. anche VI, 1, Nota).

La moltitudine, per Hobbes, inerisce allo "stato di natura"; dunque, a ciò che precede l’istituzione del "corpo politico". Ma il lontano antefatto può riemergere, come un "rimosso" che torna a farsi valere, nelle crisi che scuotono talvolta la sovranità statale. Prima dello Stato vi erano i molti, dopo l’instaurazione dello Stato vi è il popolo-Uno, dotato di una volontà unica. La moltitudine, secondo Hobbes, rifugge dall’unità politica, recalcitra all’obbedienza, non stringe patti durevoli, non consegue mai lo status di persona giuridica perché mai trasferisce i propri diritti naturali al sovrano. Questo "trasferimento", la moltitudine lo inibisce già solo per il suo modo di essere (per il suo carattere plurale) e di agire. Hobbes, che era un grande scrittore, sottolinea con mirabile lapidarietà come la moltitudine sia antistatale, ma, proprio per questo, antipopolare: "I cittadini, allorché si ribellano allo stato, sono la moltitudine contro il popolo" (ibidem). La contrapposizione tra i due concetti è qui portata al diapason: se popolo, niente moltitudine; se moltitudine, niente popolo. Per Hobbes e per gli apologeti seicenteschi della sovranità statale, moltitudine è un concetto-limite, puramente negativo: coincide cioè con i rischi che gravano sulla statualità, è il detrito che può talvolta inceppare la "grande macchina". Un concetto negativo, la moltitudine: ciò che non si è acconciato a divenire popolo, quanto contraddice virtualmente il monopolio statale della decisione politica, insomma un rigurgito dello "stato di natura" nella società civile.



2. La pluralità esorcizzata: il "privato" e l’"individuale"

Com’è sopravvissuta la moltitudine alla creazione degli Stati centrali? In quali forme dissimulate e rachitiche ha dato segni di sé dopo la piena affermazione del moderno concetto di sovranità? Dove se ne avverte l’eco? Stilizzando all’estremo la questione, proviamo a identificare i modi in cui sono stati concepiti i molti in quanto molti nel pensiero liberale e nel pensiero democratico-socialista (dunque, in tradizioni politiche che hanno avuto nell’unità del popolo il proprio indiscutibile punto di riferimento).

Nel pensiero liberale l’inquietudine provocata dai "molti" è addomesticata mediante il ricorso alla coppia pubblico-privato. La moltitudine, che del popolo è l’antipode, prende le sembianze un po’ fantasmatiche e mortificanti del cosiddetto privato. Per inciso: anche la diade pubblico-privato, prima di diventare ovvia, si è forgiata tra lacrime e sangue in mille contese teoriche e pratiche; va tenuta, dunque, per un risultato complesso. Cosa c’è di più normale per noi che parlare di esperienza pubblica e di esperienza privata? Ma non è stata sempre scontata, questa biforcazione. La mancata ovvietà è interessante perché, oggi, siamo forse in un nuovo Seicento, ovvero in un’epoca in cui le vecchie categorie esplodono e altre bisogna coniare. Molti concetti che ci sembrano ancora stravaganti e inusuali – la nozione di democrazia non rappresentativa, per esempio – già tendono, forse, a ordire un nuovo senso comune, aspirando a loro volta a divenire "ovvie". Ma torniamo al punto. "Privato" non significa soltanto qualcosa di personale, che attiene all’interiorità di tizio o di caio; privato significa anzitutto privo: privo di voce, privo di presenza pubblica. Nel pensiero liberale la moltitudine sopravvive come dimensione privata. I molti sono afasici e lontani dalla sfera degli affari comuni.

Nel pensiero democratico-socialista, dov’è che troviamo un’eco dell’arcaica moltitudine? Forse nella coppia collettivo-individuale. O meglio, nel secondo termine, nella dimensione individuale. Il popolo è il collettivo, la moltitudine è adombrata dalla presunta impotenza, nonché dalla sregolata irrequietezza, dei singoli individui. L’individuo è il resto ininfluente di divisioni e moltiplicazioni che si compiono lontano da lui. In quel che ha di propriamente singolare, il singolo sembra ineffabile. Come ineffabile è la moltitudine nella tradizione democratico-socialista.

È bene anticipare una convinzione, che in seguito affiorerà a più riprese nel mio discorso. Credo che nelle odierne forme di vita, come pure nella produzione contemporanea (purché non si abbandoni la produzione – carica com’è di ethos, cultura, interazione linguistica – all’analisi econometrica, ma la si intenda come esperienza larga del mondo), si abbia percezione diretta del fatto che tanto la coppia pubblico-privato, quanto la coppia collettivo-individuale non reggono più, mordono l’aria, conflagrano. Ciò che era rigidamente suddiviso, si confonde e si sovrappone. È difficile dire dove finisce l’esperienza collettiva e dove comincia l’esperienza individuale. È difficile separare l’esperienza pubblica da quella cosiddetta privata. In questo appannamento delle linee di confine vengono meno, o comunque diventano ben poco affidabili, anche le due categorie del cittadino e del produttore, così importanti in Rousseau, Smith, Hegel e poi, sia pure come bersaglio polemico, nello stesso Marx.

La moltitudine contemporanea non è composta né da "cittadini" né da "produttori"; occupa una regione mediana tra "individuale" e "collettivo"; per essa non vale in alcun modo la distinzione tra "pubblico" e "privato". Ed è proprio a causa della dissoluzione di queste coppie così a lungo tenute per ovvie che non si può parlare più di un popolo convergente nell’unità statale. Per non intonare canzoncine stonate di stampo postmoderno ("il molteplice è il bene, l’unità la sciagura da cui guardarsi"), occorre però riconoscere che la moltitudine non si contrappone all’Uno, ma lo ridetermina. Anche i molti abbisognano di una forma di unità, di un Uno: ma, ecco il punto, questa unità non è più lo Stato, bensì il linguaggio, l’intelletto, le comuni facoltà del genere umano. L’Uno non è più una promessa, ma una premessa. L’unità non è più qualcosa (lo Stato, il sovrano) verso cui convergere, come nel caso del popolo, ma qualcosa che ci si lascia alle spalle, come uno sfondo o un presupposto. I molti devono essere pensati come individuazione dell’universale, del generico, del condiviso. Così, simmetricamente, occorre concepire un Uno che, lungi dall’essere un che di conclusivo, sia la base che autorizza la differenziazione, ovvero che consente l’esistenza politico-sociale dei molti in quanto molti. Dico questo solo per sottolineare che una riflessione odierna sulla categoria di moltitudine non sopporta semplificazioni ebbre, abbreviazioni disinvolte, ma ha da affrontare problemi aspri: anzitutto il problema logico (da riformulare, non da rimuovere) della relazione Uno/Molti.



3. Tre approcci ai Molti

Le determinazioni concrete della moltitudine contemporanea possono essere messe a fuoco sviluppando tre blocchi tematici. Il primo è molto hobbesiano: la dialettica fra paura e ricerca di sicurezza. È chiaro che anche il concetto di "popolo" (nelle sue articolazioni seicentesche, o liberali, o democratico-socialiste) fa tutt’uno con certe strategie volte a sventare il pericolo e a ottenere protezione. Sosterrò però (nella esposizione di oggi) che sono venute meno, tanto sul piano empirico che su quello concettuale, le forme di paura e i corrispondenti tipi di riparo cui è stata connessa la nozione di "popolo". Prevale invece una dialettica timore-riparo affatto diversa: essa definisce alcuni tratti caratteristici della moltitudine odierna. Paura-sicurezza: ecco una griglia o cartina di tornasole filosoficamente e sociologicamente rilevante per mostrare come la figura della moltitudine non è tutta "rose e fiori"; per individuare quali specifici veleni si annidino in essa. La moltitudine è un modo di essere, il modo di essere oggi prevalente: ma, come tutti i modi di essere, esso è ambivalente, ossia contiene in sé perdita e salvezza, acquiescenza e conflitto, servilismo e libertà. Il punto cruciale, però, è che queste possibilità alternative hanno una fisionomia peculiare, diversa da quella con cui comparivano nella costellazione popolo/volontà generale/Stato.

Il secondo tema, che tratterò nella successiva giornata seminariale, è la relazione tra il concetto di moltitudine e la crisi dell’antichissima tripartizione dell’esperienza umana in Lavoro, Politica, Pensiero. Si tratta di una suddivisione proposta da Aristotele, ripresa nel Novecento soprattutto da Hannah Arendt, incistata fino a ieri nel senso comune. Una suddivisione che ora, però, è andata in pezzi.

Il terzo blocco tematico consiste nel vagliare alcune categorie in grado di dirci qualcosa sulla soggettività della moltitudine. Ne esaminerò soprattutto tre: principio di individuazione, chiacchiera, curiosità. La prima è una austera e, a torto, trascurata questione metafisica: che cosa rende singolare una singolarità? Le altre due riguardano invece la vita quotidiana. È stato Heidegger a conferire alla chiacchiera e alla curiosità la dignità di concetti filosofici. Il modo in cui ne parlerò, pur giovandosi di certe pagine di Essere e tempo, è però sostanzialmente non-heideggeriano o anti-heideggeriano.





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