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Rafah, tra le macerie del «Blocco O» [il manifesto]
by MICHELE GIORGIO Tuesday January 21, 2003 at 11:48 PM mail:  

Reportage dalla zona-cuscinetto che Sharon sta costruendo a difesa delle sue colonie. Tra bulldozer, carri armati e volontari internazionali che si oppongono all'occupazione MICHELE GIORGIO

da "il manifesto" http://www.ilmanifesto.it
venerdi' 17 gennaio 2003
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/17-Gennaio-2003/art60.html

Rafah, tra le macerie del «Blocco O»
Reportage dalla zona-cuscinetto che Sharon sta costruendo a difesa delle sue colonie. Tra bulldozer, carri armati e volontari internazionali che si oppongono all'occupazione
MICHELE GIORGIO
INVIATO A RAFAH

Rabia, 9 anni, non ha mai visto un soldato israeliano. Anche i suoi compagni di giochi, Firas e Mazen, non conoscono il volto di un soldato. In qualche occasione hanno intravisto in lontananza la sagoma di militari che rapidi entravano ed uscivano dai blindati. Negli occhi di questi tre bambini del campo profughi di Rafah, al confine tra Gaza e l'Egitto, Israele è un bulldozer, che riduce tutto in polvere e pietre, protetto da carri armati che sparano raffiche di mitragliatrice sulle case. I soldati sono dentro quei giganti di acciaio impenetrabile. Per Rabia, Firas e Mazen, Israele arriva di notte annunciato dal suono metallico dei cingoli dei mezzi corazzati. «Quando sentiamo quel rumore, la mamma ci sveglia e ci dice di scappare da zio Abbas che vive dall'altra parte del campo», racconta Rabia circondato da altri bambini giunti a stormo e che ascoltano le sue parole in silenzio. Di giorno Israele invece è solo una bandiera che sventola sulle torrette militari di cemento armato che sorvegliano il confine. Una settimana fa Barbara Kingsolver, americana di Seattle, ha avuto il «privilegio» di vedere e parlare a quei soldati invisibili. Ha attraversato la distesa di macerie dove un tempo sorgevano centinaia di abitazioni del «Blocco O» del campo profughi, è avanzata, con le mani in alto, verso una postazione militare e, vincendo la paura, è salita su un carro armato. Dopo qualche secondo un soldato è sbucato dalla torretta del tank per invitarla ad allontanarsi, ma la giovane americana ha avuto il tempo di spiegargli che demolire le case di civili innocenti è un crimine di guerra. «Questa esperienza a Rafah mi ha arricchito molto, ma anche amareggiato - spiega Barbara - ho capito che qui la vita non ha lo stesso valore che in altre parti parti del mondo. I soldati non mi hanno sparato perché sono una occidentale, mi hanno persino permesso di salire sul loro tank. Un palestinese sarebbe stato ammazzato subito». Barbara Kingsolver da qualche settimana vive in una tenda - con la scritta Stop occupation - a pochi passi dalla distesa di macerie del «Blocco O», assieme a una dozzina di giovani pacifisti dell'International solidarity movement (Ism) tra cui tre italiani: Andrea Giudice di Palo del Colle (Bari), Stefano Orlando di Padova e Nicola Arboscelli della Val D'Ossola. «Cerchiamo di proteggere, con la nostra presenza, la popolazione civile palestinese - spiega Arboscelli - certo abbiamo paura, siamo sotto il tiro dei soldati ma sappiamo di essere utili a questa gente. Da quando abbiamo montato la tenda le incursioni e le distruzioni di case in questa parte del campo sono rallentate». Proseguono purtroppo in altre zone, nel campo di Brazil e a Yebna, ad esempio. «Ci vorrebbero tante tende, piazzate un po' ovunque per fermare i bulldozer e i mezzi corazzati israeliani. Ma ciò potrà avvenire soltanto se l'Ism riuscirà ad organizzare una campagna internazionale a difesa di Rafah», aggiunge Nicola. Il clima è sereno intorno alla tenda. Nicola e Andrea discutono della situazione nel campo e a Gaza con un gruppetto di adolescenti palestinesi. Qualcuno prepara il caffè, altri ascoltano in silenzio, senza intervenire. Su un edificio di tre piani sforacchiato dalle raffiche di mitra i giovani stranieri hanno scritto: «libertà per il popolo palestinese». Le famiglie locali li proteggono, sono contente della loro presenza. I combattenti palestinesi evitano di sparare da quella zona, per non fornire ulteriori pretesti ai raid israeliani. La gente del «Blocco O» spera che quella dozzina di ragazzi di vari paesi che parlano di globalizzazione, di internazionalismo, di solidarietà tra i popoli in lotta, tengano a freno l'avanzata distruttrice dei bulldozer. Ma fino a quando?

Negli ultimi mesi le demolizioni si sono intensificate, ci spiega Paul McHan, il portavoce dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi. «Israele sta costruendo una barriera, un muro, tra il "Blocco O" e il confine con l'Egitto», ci dice nel suo ufficio di Gaza. Ieri altre cinque abitazioni sono state distrutte nel campo di Brazil, otto case invece sono rimaste danneggiate. «Dall'inizio dell'Intifada fino all'8 gennaio - prosegue McHan - 672 famiglie di profughi palestinesi hanno avuto la casa distrutta dall'esercito israeliano. Altre 3662 abitazioni sono state danneggiate, molte non possono essere riparate. Soltanto a dicembre sono state ridotte in macerie 93 case, 27 nella prima metà di gennaio». L'Unrwa sta ultimando la costruzione di alcune decine di appartamenti in aree di Rafah lontane dal confine ma i profughi resistono all'idea di allontanarsi dal campo. E' allettante vivere in un appartamento nuovo, migliore di quello distrutto dagli israeliani. Ma andare via, per questa gente, significa accettare ciò che l'esercito di occupazione vuole imporre con la forza. Molti senzatetto chiedono perciò che le loro case vengano ricostruite proprio dove sorgevano fino a qualche mese o solo qualche giorno prima. Il portavoce militare israeliano, in più occasioni, ha giustificato le demolizioni delle case a Rafah come una misura di sicurezza volta ad impedire ai combattenti palestinesi di aprire il fuoco sulle postazioni dell'esercito e sulle colonie ebraiche. Ma è una versione che non regge. Sono sempre più rare le raffiche di ak-47 sparate contro gli avamposti militari mentre le demolizioni di case non solo proseguono ma, come ha sottolineato l'Unrwa, si intensificano. E' una «zona-cuscinetto» quella che sta sorgendo lentamente, tra i centri abitati palestinesi e le colonie ebraiche sulla costa. Una lingua di terra che da Rafah dovrebbe congiungersi a nord con l'area industriale di Erez fino a Dugit e Elei Sinai, alle porte della striscia di Gaza, unendosi al territorio israeliano. Un'altra «zona-cuscinetto» sta nascendo sul lato est della linea di demarcazione tra Gaza e Israele mentre nuove strade e un cavalcavia all'altezza di Khan Yunis, permetteranno ai coloni di Gush Qatif e Kfar Darom di entrare e uscire da Gaza passando a distanza di sicurezza dai centri abitati palestinesi. L'esercito israeliano inoltre sta completando la costruzione di postazioni di controllo lungo la strada tra la colonia di Netzarim, sulla costa, e il valico di Karni (ad est) e intorno al transito di Kissufim dove i palestinesi hanno compiuto agguati a danno dei convogli di coloni e distrutto tre carri armati.

L'occupazione quindi si rafforza e strangola le città di Gaza. Abu Saud Samadana, muratore disoccupato, ha indossato il suo completo grigio, l'unico che possiede, per incontrare gli ospiti stranieri. La sua casa è a rischio. Le prossime incursioni dell'esercito israeliano potrebbero costringerlo a scappare e a vivere con la moglie e nove figli in una tenda, come tante altre famiglie. «Perché gli israeliani ci fanno tutto questo - chiede Abu Saud - noi non chiediamo altro che vivere qui a Gaza, nella nostra terra». A pochi metri una dozzina di giovani stranieri tra le macerie del «Blocco O» spiegano che i palestinesi non sono soli, non saranno mai soli.

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