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Sull’(in)utilità e il danno delle facoltà
by Sapienza Pirata Monday, Feb. 24, 2003 at 11:40 PM mail:

-



Come si traccia il perimetro di un sapere? Come si definisce oggi la professionalità? E come la disciplinarietà? C’è ancora bisogno delle facoltà? Senza
entrare nel merito di un superficiale dibattito sul relativismo culturale è cosa evidente che i saperi contemporanei non solo tendono a differenziarsi ma anche ad assumere un carattere di non auto-sufficienza. Comporre pezzi eterogenei di conoscenze è pratica
consolidata della ricerca e della sperimentazione.
Anche il lavoro cognitivo non sfugge da questa trasversalità che declina anzi dentro
la definizione di una nuova categoria di professionalità. Il 3+2 è stato il
tentativo socialdemocratico di adeguare il sistema formativo universitario alle
richieste, del resto del tutto inaffidabili, del mercato del lavoro. Questa
illusione si basava sull’idea che la professionalità andasse a braccetto con la
specializzazione e la settorializzazione e che fosse quindi definibile
anticipatamente e in maniera ultimativa rispetto al percorso formativo. In verità la
professionalità contemporanea ha a che fare con il problem solving e con la capacità
di maneggiare l’imprevisto a mezzo di continua creatività. Per questo la
professionalizzazione deve essere una specificazio
n
e variabile del percorso formativo e non il percorso formativo stesso e che
quest’ultimo deve contare su un carattere ampio, critico, generale e
multidisciplinare. Per questo riteniamo inattuale la divisione in facoltà dei nostri
atenei e intendiamo superarla attraverso dei processi diffusi di autoformazione che
facciano della relazione e della non autosufficienza dei saperi e delle competenze
elemento centrale e decisivo.
4. Money, Geld, Dinero, Sous, Soldi
Quando finisce lo studio e inizia la produzione, il lavoro?
Trent’anni fa la risposta sembrava chiara un po’ a tutti: l’università da una parte,
la fabbrica dall’altra, ma anche, che è la stessa cosa, la progettazione e la
decisione da un parte e l’esecuzione dall’altra. È opinione diffusa che il modo di
produrre contemporaneo ha sovrapposto e reso coincidente sapere e produzione,
ideazione ed esecuzione, sentimenti, etica e lavoro. Tanto più la creatività e
l’innovazione sono il cuor
e
della produzione di merci a mezzo di linguaggio e di conoscenze, tanto più i
percorsi formativi divengono strutturalmente permanenti ed interminabili, pena la
rapida obsolescenza delle competenze.
La formazione poi in quanto produzione invisibile e quindi non riconosciuta come
lavoro, finisce per diventare vero e proprio vettore dello sfruttamento. I contratti
di formazione lavoro, apprendisatato ecc. ne sono solo un esempio.
Non è una novità poi che stage e prestazioni di ricerca mettono immediatamente a
lavoro gli studenti all’interno del nuovo percorso universitario convenzionale.
Tutto questo ci fa pensare, con sempre maggiore radicalità, che la formazione va
retribuita e che l’università e la ricerca devono smettere di essere considerate
spese dello stato, quanto investimenti della società per intero, e che gli studenti
hanno poco a che fare con il terreno separato dell’accademia, sono invece sempre più
coincidenti con le figure ibride del lavoro

atipico, cognitivo e relazionale.
Per questo riteniamo che la battaglia per un reddito deve affiancarsi alla richiesta
dei servizi tradizionali e che gli studenti devono richiedere diritti nuovi nelle
metropoli che attraversano.
Soldi e case per vivere in maniera autonoma dalle proprie famiglie durante la
permanenza all’università. Accesso gratuito alle tecnologie informatiche (internet,
formazione informatica). Accesso gratuito alla cultura ( teatri, cinema, musei,
mostre, mediateche) perché sono i talenti e la formazione culturale in genere, con i
suoi elementi di accumulazione tacita ad essere messi a valore.
5. Per una rete dell’autoformazione
L’università della riforma è un’università senza comunità. O meglio a venir meno
sono le trame consolidate di socializzazione e di incontro che cedono il passo di
fronte alla frequenza obbligatoria, a una ridefinizione complessiva del modo di
abitare lo spazio, di organizzare i tempi. L’attivitE
0 e la prassi politica che si inserivano a pieno nella povertà della socialità
“ufficiale” (…ho meglio da fare che seguire le lezioni…) e negli spazi di libertà
garantiti nella scelta dei propri tempi di studio e di frequenza, vengono ormai
messe al margine da orari massacranti e da una socialità tutta addensata nelle
classi e nei tempi di studio. Fare una assemblea diviene fatica, far sopravvivere
una continuità di militanza altrettanto, praticare libera ricerca e discussione una
rarità, almeno nello statuto formale della nuova università.
In verità anche se vengono meno le forme tradizionali di comunità, di
socializzazione e di aggregazione politica la miseria contraddistingue anche la
formula efficientista della fast-university. A maggior ragione dentro la crisi dei
saperi critici, della libera ricerca, nell’azzeramento di tempi e di forme di vita
consolidate, l’incursione virale (“dentro e contro”) di percorsi di formazione
autogestita che
c
hiedono crediti praticando conoscenze e linguaggi cooperativi può essere strumento
utile di ricostruzione di comunità politica e di tessuto relazionale
qualitativamente nuovo. L’apprendimento nelle sue forme non verticali, la ricerca
sui temi messi al bando dalla didattica ufficiale quanto deboli nella politica delle
assemblee e delle vertenze (non che di queste non ce ne sia bisogno) può essere, a
nostro avviso, esperienza nuova di socialità, di incontro, di relazione laddove,
quest’ultima, è rimasta confinata in trame neo-liceali e forsennate.
Per questo è necessario provare a costituire una rete dell’autoformazione che metta
assieme i progetti sparsi, sperimentali e provvisori già praticati in diverse
facoltà e università romane e nazionali.

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