[cronologie di guerra] 26.03.03 settimo giorno
si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.
26 marzo 2003 : settimo giorno [fonti : quotidiani del 27 marzo 2003]
"Missili su un mercato, missili sulle case Strage a Baghdad, decine di morti e feriti Versione Usa: «Forse è stata la loro contraerea» In battaglia muoiono a migliaia i soldati Sanguinosa battaglia a Najaf, città santa sciita I parà partiti da Vicenza sono nell'Iraq del nord Colonna irachena contrattacca a sud di Bassora Altri trentamila marines americani in Iraq
7.00 (ora italiana) La televisione di stato irachena riprende a trasmettere, nonostante qualche ora prima sia stata bombardata Dall'esercito americano. Rimane «muto» il canale satellitare 7.46 I marine americani che da Nasiriya marciano verso Baghdad incontrano una forte resistenza da parte dell'esercito iracheno 9.00 Baghdad è di nuovo sotto bombardamento aereo 9.05 Il comandante in capo dell'esercito turco, generale Hilmi Ozkok, dichiara che Ankara si riserva il diritto di mandare un maggior numero di truppe nel nord dell'Iraq, ma solo dopo essersi consultata con gli Stati uniti 10.55 Anche la tv satellitare irachena riprende le trasmissioni 11.30 Il governo iracheno annuncia che almeno 14 civili sono rimasti uccisi e oltre 30 feriti, dopo che un missile angloamericano ha colpito un'area commerciale a nord di Baghdad 12.27 Riferendosi al massacro di civili nel centro commerciale di Baghdad, un portavoce dell'aviazione militare britannica si dichiara dispiaciuto per la morte di civili, afferma che Gran bretagna e Usa cercano di minimizzare le morti di civili e che sull'episodio verrà aperta un'inchiesta 12.55 Il ministro dell'informazione iracheno, Mohammed Saeed al-Sahhaf, dichiara che il porto di Umm Qasr non è caduto nelle mani degli angloamericani. Il ministro accusa Usa e Gran bretagna di usare cluster bomb, bombe a grappolo 14.00 Il primo carico di aiuti umanitari raggiunge la città di Safwan, nel sud dell'Iraq 14.10 Il generale Vincent Brooks, portavoce militare Usa, durante un briefing nel comando generale delle operazioni belliche nel Qatar, afferma che la coalizione contro l'Iraq sta crescendo: adesso sarebbe di 47 paesi 16.07 Il segretario generale dell'Onu Kofi Annan si dichiara fiducioso sulla possibilità che il Consiglio di sicurezza raggiunga un accordo sul programma «oil for food» per l'Iraq 16.27 Il network televisivo del Qatar al-Jazeera diffonde le immagini di due soldati morti e due prigionieri di guerra, dichiarando che si tratta di militari britannici 16.50 Parlando ai soldati nella base dell'aeronautica di Macdill, in Florida, il presidente degli Stati uniti George W. Bush dichiara che l'avanzata angloamericana sta «compiendo progressi», ma aggiunge anche che «la guerra è tutt'altro che finita» 17.30 Ancora bombardamenti aerei su Baghdad, nella parte meridionale della capitale irachena 17.43 L'esercito degli Stati uniti annuncia che sta per dispiegare in Iraq la IV divisione di fanteria, nota per le sue elevate potenzialità tecnologiche. La partenza delle prime truppe di questa divisione è prevista per il giorno seguente (oggi per chi legge) 18.05 Un convoglio di un centinaio tra carri armati e mezzi corazzati iracheni starebbe lasciando la città di Bassora, diretto a sud-est. Gli aerei angloamericani sarebbero pronti ad attaccarlo 19.21 Il convoglio militare iracheno è attaccato dagli aerei e dall'artiglieria pesante dell'esercito di Usa e Gran bretagna 19.38 Il comando centrale Usa nel Qatar dichiara di aver usato missili di precisione nell'attacco del mattino alle istallazioni missilistiche in un quartiere di Baghdad dove sono morte almeno 14 persone 21.12 Il centro di Baghdad piomba di nuovo sotto pesanti bombardamenti aerei 21.31 Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite apre una sessione d'emergenza sull'Iraq e il segretario generale Kofi Annan dichiara che molti nel mondo mettono in dubbio la legittimità dell'attacco militare contro l'Iraq 22.00 Le forze militari irachene lanciano un attacco con razzi a sud della città di Nasiriya - sull'attuale linea del fronte - nel corso del quale rimangono feriti circa venti marine americani" [MAN]
"Una guerra tutta in salita Cruente battaglie in tutto il sud iracheno. Bassora non si decide a cadere mentre l'attesa «rivolta sciita» non si vede. Ma anche Nasiriya, Nayaf e Karbala resistono. 1000 morti iracheni nelle ultime 72 ore. Quelli anglo-americani sono di più dei 45 ufficiali. La Guardia repubblicana aspetta di fronte a Baghdad M.M. Forse abbiamo sottovalutato la capacità di resistenza degli iracheni. Lo hanno detto ieri gli americani a più rirprese tirando il bilancio della prima settimana di guerra. Che abbiano sottovalutato quasi tutto lo dimostra l'andamento dell'aggressione. A quest'ora, secondo loro, doveva essere già tutto finito. Fuori Saddam, liquidato il regime, baci e fiori per i liberatori, rivolta generale della popolazione, in particolare gli sciiti del sud (perchè i kurdi del nord era meglio stessero fermi per evitare un attacco turco). Sette giorni dopo le cose sembrano andare in tutt'altra direzione.
Come dimostrano la furia e le prime «sbavature» dei liberatori-aggressori: i missili sul mercato di Baghdad saranno stati un «errore», come ha detto ieri un generale americano al Comando centrale di as Sayliyah, a Doha, nel Qatar (che «può sempre capitare», ha aggiunto), o una reazione alla testardaggine degli iracheni? Ovvero come dimostrano anche le battaglie che infuriano, tutt'altro che vinte, in tutto il sud iracheno, ufficilamente «safe and open», sicuro e pulito.
Il porto di Umm Qasr, ad esempio, ieri doveva vedere l'attracco della prima nave carica di «aiuti umanitari». E invece qualche aiuto è arrivato ma (pericolosamente) via terra, dal Kuwait.
Ma tutto il sud è in fiamme. Da giorni i portavoce militari e la stampa militarizzata al seguito ci raccontano che Nasiriya è stata conquistata. Per poi dirci, il mattino dopo - è accaduto anche ieri - che le truppe angli-americane «sono entrate a Nasiriya».
Per non parlare di Bassora, seconda città irachena, roccaforte sciita. Ieri sera eravamo andati a letto con le notizie - regolarmente sparate dalla stampa internazionale e nostrana ieri mattina - della sospiratissima «rivolta sciita» contro il regime di Saddam e del suo partito Baath. Ma poi la rivolta è svanita e i portavoce dei militari inglesi - incaricati di conquistare la città - hanno dovuto col passare delle ore ridimensionare la rivolta generalizzata contro il regime in occasionali e limitati «disturbi». Confermati dagli stessi movimenti di resistenza sciita basati in Iran, come lo Sciri, il Supremo Consiglio della rivoluzione islamica in Iraq, e la Sairi, la Suprema Assemblea della rivoluzione islamica in Iraq. Anche i leader politici inglesi hanno dovuto - per il momento - abbozzare. Il premier Tony Blair, intervenendo per l'ennesima volta ai Comuni, ha parlato di «rapporti confusi» e di «qualche limitata forma di rivolta» che gli inglesi sono pronti a «sostenere» nel caso si sviluppi. Appare più attendibile la versione data dalla tv araba al-Jazeera, un cui reporter è andato in città e ha riferito di non avere notato - per il momento - alcun segno della grande rivolta.
Il disappunto degli anglo-americani è tale che ieri si è diffusa anche la notizia di un trasferimento, ordinato o autorizzato dal Pentagono, di 3000 combattenti sciiti parcheggiati in Qatar, a Bassora per dare fuoco alle polveri. Ma da Tehran, l'Iran ha condannato ancora una volta l'attacco militare contro l'Iraq e ha confermato, attraverso il portavoce governativo, che non sarà permesso ai membri dell'opposizione irachena di attraversare il confine. Per tutta la giornata si sono rincorse le voci di esponenti dell'opposizione e della resistenza sciita irachena circa l'atteggiamento da prendere a Bassora e nel sud dell'Iraq. Alcune versioni davano per scontato l'ordine della rivolta generale, ma altre - le più autorevoli - non solo smentivano quest'ordine (si ricordano benissimo, gli sciiti, del `91, quando Bush padre li incitò a ribellarsi a Saddam e poi li lasciò in balia della feroce reazione del Rais) ma, per bocca del loro massimo leader spirituale, l'ayatollah Mohammed Baqr al-Hakim, bollavano la sbandierata «guerra di liberazione» anglo-americana come una guerra di aggrressione e ammoniva che se, dopo la caduta di Saddam, pensassero di restare in Iraq ci sarebbe - allora sì - una rivolta generale, «con tutti i mezzi».
Sta di fatto che Bassora, ieri, non era ancora stata presa, nonostante sia stata dichiarata, il giorno prima, «obiettivo militare legittimo». E anche gli inglesi - oltre alla popolazione civile e ai combattenti iracheni - stanno pagando un prezzo pesante. Ieri al-Jazeera ha mostrato le immagini di due soldati britannici uccisi (probabilmente i due caduti nei giorni precedenti) e di altri due prigionieri.
Ma la situazione di Bassora si è ripetuta, in modo ancor più cruento, nelle altre città conquistate nella marcia accelerata (troppo?) verso Baghdad. A Najaf e Karbala, a nord di Nasiriya, la battaglia è infuriata e infuria da 48 ore. Le città resistono e una volta aggirate dalle colonne anglo-americane, i soldati e i convogli, specie quelli della retroguardia e della sussistenza, vengono attaccati con tattiche proprie della guerriglia, o peggio «dell'intifada». Nelle ultime 72 ore secondo i comandi alleati, almeno mille iracheni sono stati uccisi: uomini dell'esercito regolare insieme a quelli delle milizie paramilitari dei Fedayn di Saddam o di al Quds (Gerusalemme) e del partito Baath. Quelli che un colonnello inglese ha definito sprezzantemente «un mucchio di desperados» praticano la tattica del mordi e fuggi, preparano imboscate perfino contro i poderosi carri armati Abrams o i veicoli blindati Bradely. Ieri almeno un marine è stato ucciso nella battaglia intorno a Najaf, ma secondo l'opinione generale i morti e dispersi americani e inglesi sono molti di più - anche senza voler prendere per buone le cifre quotidianemente fornite dal ministro dell'informazione iracheno Mohammed Saeed al-Sahhaf - della cifra ufficiale (45 dall'inizio dell'attacco) e però sono per il momento tenute segrete per ovvie ragioni.
E' vero che la testa del corpo di spedizione anglo-americano è a meno di cento km da Baghdad ma intanto «la enorme ondata d'acciaio» è impatanata dalla tempesta di sabbia - «il mantello di Allah», secondo gli iracheni - che impedisce anche agli elicotteri di levarsi in volo (per cui tempi dell'attacco contro la capitale si sono allungati e le previsioni sono meno trionfalistiche). Poi subito a sud di Baghdad sono attesi dalle temuta Guardia repubblicana, le truppe d'élite che finora Saddam ha evitato di impiegare. Avrebbero minato i ponti di accesso alla capitale e li aspettano: sulle due sponde dell'Eufrate c'è la divisione Medina a nord di Karbala e la divisione Baghdad intorno a Kut.
A nord di Baghdad le cose sembrano più semplici per i liberatori. Sono arrrivati in forze nel Kurdistan iracheno controllato dei due principali gruppi kurdi, l'Upk di Talabani e il Pdk di Barzani, e hanno bombardato ieri «una postazione di al-Qaeda» (boom) presumibilmente in una delle enclave montagnose dove si trova il gruppo islamista radicale Ansar al-Islam; postazioni dell' esercito iracheno a Chamchamal, a 35 km da Kirkuk, e a Mosul, l'altra città-chiave petrolifera. Sotto lo sguardo interessato dei 60 mila soldati turchi appostati subito oltre il confine.
Probabilmente aveva ragione il presidente Bush, quando ieri mattina al comando generale di Tampa, in Florida, ha avvisato che «la guerra sarà lunga». " [MAN]
"Partiti da Vicenza, arrivati in Iraq Mille parà della 173esima in Kurdistan. E il Pentagono mobilita altri 30mila soldati Sono sbarcati ieri notte nella zona autonoma kurda del nord iracheno i parà americani partiti dalla caserma Ederle di Vicenza. Il tenente colonnello Thomas Collins, portavoce del comando americano per il Sud Europa, ha confermato la notizia. «Circa mille truppe sono entrate. Sono sul terreno», ha detto Collins. La 173esima brigata si era distinta per le operazioni condotte durante la guerra del Vietnam ed era stata poi sciolta nel 1972. Ricostituita nel 2000, era stata dispiegata nella base di Vicenza, da cui è partita ieri pomeriggio. In realtà, già nei giorni scorsi era stata segnalata la presenza di forze Usa sul terreno. Lunedì il colonnello americano Keith Lawless aveva detto a Salahuddin che militari statunitensi erano nella regione settentrionale, ma non aveva voluto specificare quanti erano e quale fosse il loro obiettivo.
Lo sbarco dei parà rappresenta tuttavia la prima presenza massiccia di forze Usa nel nord e lascia presagire una futura escalation delle operazioni nel fronte settentrionale, dopo la modifica dei piani determinata dal rifiuto della Turchia di concedere la proprie basi ai militari americani.
La notizia è stata in qualche modo confermata da alcuni testimoni locali, che hanno affermato di aver visto diversi aerei «con a bordo stranieri» atterrare a Bakrajo, dieci chilometri ad ovest di Suleimania, nella zona controllata dall'Unione patriottica del Kurdistan (Upk) di Jalal Talabani.
Parlando sotto la condizione dell'anonimato, un alto ufficiale kurdo ha detto che i parà potrebbero essere usati in un'offensiva per debellare il gruppuscolo islamista di Ansar el Islam, che controlla una piccola enclave nella zona orientale del Kurdistan, a poca distanza del confine iraniano. Il gruppo Al Ansar - di dimensioni ridotte e male armato - rappresenta l'unico ostacolo eventuale all'avanzata dell'esercito americano nel nord Iraq. La regione settentrionale è infatti controllata da due partiti kurdi - l'Upk di Talabani e il Partito democratico del Kurdistan di Massud Barzani - fedelissimi alleati di Washington.
Mentre si prospetta un'imminente offensiva a nord per debellare al Ansar, anche nel sud il comando ha deciso di rafforzare la propria presenza nel Golfo. Trentamila uomini della IV divisione di fanteria dovrebbero partire nei prossimi giorni dalle basi del Texas e del Colorado. La IV divisione, che aspettava un ordine di spiegamento da più di due mesi, rappresenta un reparto di élite dell'esercito Usa, dotato di armi e equipaggiamenti ultra-sofisticati. " [MAN]
"Missili sulle case Strage a Baghdad Colpito Shaab, il «quartiere del popolo» abitato da sciiti. Almeno 15 morti, tutti civili. Il Pentagono: cercavamo la contraerea irachena. Bombardamenti notte e giorno. Le truppe di terra si avvicinano, la città si prepara a combattere" [MAN]
"Bassora, la rivolta fantasma Niente folle in festa per i «liberatori», la ribellione sciita è l'ennesima bugia di guerra. In compenso piovono le granate e mezza città è ancora senz'acqua MARINA FORTI Una battaglia duplice si sta giocando attorno a Bassora, la seconda città irachena, capoluogo meridionale. La battaglia militare si accompagna a un disperato tentativo di «conquistare gli animi e i cuori» degli iracheni, secondo l'espressione usata a ripetizione dai portavoce militari anglo-americani. E questo disperato tentativo è giocato sia sugli aiuti umanitari, sia sulla speranza di una rivolta popolare contro il regime di Baghdad. Per la coalizione anglo-americana dunque è vitale portare al più presto acqua e aiuti a Umm Qasr e nelle altre città del sud. Gli aiuti però tardano. Ieri un convoglio di 7 camion è arrivato da Kuweit City a Umm Qasr, il solo porto di mare iracheno, che martedì i britannici avevano dichiarato «sicuro» (dopo ben 4 giorni di combattimenti). Sette camion sono appena un gesto simbolico, e tale volevano essere: sono del governo kuweitiano, «ci tenevamo a essere i primi per dimostrare agli iracheni che non ce l'abbiamo con loro», ha detto il generale Ali al-Mumin, capo delle operazioni umanitarie dell'emirato.
Più importante sarebbe l'arrivo di una nave da carico britannica con 231 tonnellate di generi alimentari, acqua, medicinali e generi di prima necessità: doveva essere per martedì, poi ieri. In serata il braccio di mare che porta a Umm Qasr è stato sminato, ma l'attracco della nave non è atteso prima di un giorno o due." [MAN]
"E la rivolta?
Martedì sera la notizia era diffusa da fonti militari britanniche con grande sicurezza: in città è scoppiata una rivolta popolare contro il regime del Baath - il partito di Saddam Hussein, l'apparato del potere centrale. Anche la smentita del governo di Baghdad (che smentisce tutto quindi non è credibile) era data come indiretta conferma. Il corrispondente di Al Jazeera ieri mattina descriveva una città tranquilla, «non ci sono segni di rivolta, sentiamo solo lontane esplosioni nel sud-est, dove ci sono i combattimenti» tra le truppe britanniche e le forze irachene. Dalla capitale iraniana Tehran il Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq (uno degli organismi dell'opposizione sciita al regime di Baghdad, legato all'Iran) faceva sapere che non c'è nessuna rivolta: «Qualche tafferuglio c'è stato la notte scorsa (martedì, ndr) a Bassora, la gente cantava slogans contro Saddam, ma non era esteso e non era una intifada», una rivolta, ha detto un portavoce dello Sciri. Forse proteste della popolazione esasperata per la mancanza d'acqua. Nella giornata lo stesso Sciri ha diffuso due messaggi contradditori. Mohsen Hakin, anziano dirigente, ha detto che l'opposizione fa appello alla popolazione a «sollevarsi contro il regime dittatoriale del Baath». Più tardi Mohamed Bakr al Hakim (figlio del primo, e vero leader in carica dello Sciri) ha detto tutt'altro: «Gli americani hanno ordinato alle loro forze di attaccare la popolazione irachena come fece Saddam Hussein. Facciamo appello agli iracheni a combattere contro il regime dittatoriale e a resistere alla dominazione straniera».
Nessuna rivolta? E allora ieri mattina il ministro britannico della difesa Geoff Hoon ha detto che «non è chiaro cosa stia succedendo», «certo ci sono state proteste e il tentativo delle milizie del regime di attaccare i rivoltosi, la loro stessa gente». Ha però ammesso che le truppe britanniche attorno a Bassora non hanno visto con i propri occhi la presinta rivolta, ne hanno avuto notizia «da diverse fonti»." [MAN]
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"Un mese di guerra o un po' di sviluppo? Con i 75 miliardi di dollari che Bush ha chiesto al congresso per 30 giorni di guerra si potrebbe fare... GUGLIELMO RAGOZZINO Chiedendo al congresso Usa di fare un «atto rapido e responsabile» il presidente George W. Bush ha proposto una variazione di spesa di 74,7 miliardi di dollari per supplire alla costosissima guerra. Le fonti Usa mettono in evidenza che le cifre intendono coprire un mese di combattimenti, per lo meno per l'impegno principale: i 63 miliardi usati direttamente in armi e paghe per i soldati. Poi vi sono otto miliardi di dollari in varie forme di «assistenza» ai paesi che subiscono gli effetti della guerra, come Israele e Turchia (oltre a Giordania, Egitto, Afghanistan, Filippine e Colombia) compresi 2,5 miliardi di dollari di aiuti e ricostruzioni varie di ciò che nel corso del mese è stato distrutto in Iraq. Ma la distruzione del capitale -oggetti e persone - è un'attività che, secondo i classici, è indispensabile per aumentare il tasso di profitto. Gli ultimi quattro miliardi sono destinati a essere spesi per la sicurezza della madre patria, compreso mezzo miliardo di dollari per l'Fbi. 75 miliardi di dollari, quanto a dire una cifra che supera il prodotto interno lordo (o pil) di 113 paesi sui 152 esistenti, o almeno classificati dalla Banca mondiale. 75 miliardi equivalgono al pil della Malaysia o delle Filippine. Per una coincidenza, 75 miliardi di dollari erano la spesa annua prevista fino al 2015, proprio dalla Banca mondiale, per risolvere il problema dell'acqua nel mondo. Dopo le inconclusive giornate dedicate all'acqua a Kyoto, il conto si è impennato e per l'acqua (della Banca mondiale) servirebbero 180 miliardi di dollari all'anno.
Lasciando da parte il problema dell'acqua, senza soluzione qualora venga abbandonata nelle mani bucate della Banca mondiale, i 75 miliardi in questione aprono molti diversi interrogativi. Per la spesa annuale stimata dall'Onu come indispensabile (e in una certa misura sufficiente) per avviare lo sviluppo, ne occorrerebbero i due terzi, 50 miliardi di dollari. Con due terzi della spesa bellica aggiuntiva mensile degli Usa - una spesa dedicata alla distruzione allo spreco, alla morte - sarebbe promesso, o almeno possibile lo sviluppo della Terra. Una bella scommessa. Una scommessa che nessuno farà mai. Tra i 50 miliardi di dollari che mancheranno allo sviluppo, rendendolo impraticabile, almeno in questa fase, vi sono almeno due voci precise e ragionevolmente credibili.
La prima voce di uno sviluppo possibile se gli americani rinunciassero alla conquista dell'Iraq, è l'accesso universale all'istruzione primaria (di tutti i bambini, di tutte le bambine). Per ottenere il risultato potrebbero bastare 10 miliardi di dollari all'anno. Per quest'anno - tutti promossi tutte promosse! - basterebbe rinunciare alla guerra americana per una settimana, anzi meno ancora. Di certo la guerra è importante, gli americani pensano di ricavarne grandi vantaggi: la democrazia, come la chiamano loro, è senza prezzo. Per noi che siamo materialisti volgari, è il petrolio, invece, ad avere un prezzo importante. Basterebbero poi tre giorni di guerra in meno per risparmiare 7 miliardi di dollari abbondanti. Ed è quanto servirebbe, secondo Unaids, per far retrocedere per un anno, in modo efficace, l'epidemia dell'aids. Poi, l'anno prossimo, si vedrà; ma forse gli americani per debellare la malattia, potrebbero rinunciare, per tre giorni all'anno, a fare la guerra. Non basterebbe loro farla nel resto del mese, o dell'anno?
I sette miliardi per sconfiggere l'aids (oltre tutto questa è una guerra che vale la pena di combattere), i dieci miliardi per mandare a scuola bambini e bambine - o forse per mandare le scuole dove bambini e bambine ci sono già, e attendono in che arrivi la scuola, che qualche maestra si occupi anche di loro - sono suggeriti da Mani Tese e dall'AceA (Agenzia stampa per i consumi etici e alternativi) che elencano poi quanto costa una scuola in Burkina Faso (22 mila euro) oppure un pozzo nello stesso paese africano (8 mila euro), spiegando che il 71% della popolazione non ha accesso all'acqua potabile e il 76,1% non ha accesso all'istruzione primaria. Poiché la guerra americana, o meglio la spesa aggiuntiva, costa circa trentamila dollari o euro (fa poca differenza) al secondo, basterebbe rinunciare per un secondo alla guerra per avere una scuola e un pozzo in Burkina Faso.
75 miliardi di armi. Nel corso del 2000 - e non abbiamo dati più recenti a disposizione, all'insieme dei paesi in via di sviluppo sono arrivati 40 miliardi di dollari di aiuti da parte dei paesi industrializzati, impegnati da almeno trent'anni dalle Nazioni unite a versare un contributo allo sviluppo dello 0,7% del pil. Nello stesso anno i paesi ricchi affermano di aver pagato un po' di più: 54 miliardi di dollari scarsi, a partire dal Giappone, 13,5 miliardi, per passare agli Usa con 10 miliardi, a Germania, Regno unito e Francia, tutti tra 5 e 4 miliardi; per finire con l'Italia che raggiunge la stentata cifra di 1,4 miliardi di dollari. Tra il 1990 e il 2000 l'Italia è passata dallo 0,31%, già meritevole di critica, al vergognoso 0,13%. Solo gli Usa fanno peggio essendo passati nel corso degli stessi anni da 0,21 a 0,10%. Basterebbe una settimana di astinenza bellica e l'America potrebbe fare una figura molto migliore e comunque sarebbe molto apprezzata in giro per la Terra. Va notato di passaggio che due paesi soltanto, Svezia e Norvegia, rispettano l'impegno con un versamento per la cooperazione allo sviluppo dello 0,8%. Va ricordato che i 75 miliardi sono solo un incremento a un bilancio militare terrificante. La spesa militare degli Usa rivisitata nell'ultimo bilancio per il 2003 è prevista in 364,6 miliardi di dollari, cui deve essere aggiunta i 75 miliardi di marzo-aprile e tutto il resto, per i mesi seguenti, per le guerre seguenti. Per l'anno seguente, 2004, il bilancio della difesa (si fa per dire) è ancora maggiore: raggiungerà infatti 379,9 miliardi di dollari, destinati a crescere negli anni successivi. Gli Usa rappresentano solo la metà di tutti gli stanziamenti militari del mondo, per cui non gli mancherà qualcuno da combattere quando avranno finito con i paesi canaglia, cui si stanno dedicando con tanta solerzia e capacità pedagogica. Un ultimo aspetto da considerare è che la spesa militare Usa, oltretutto nella particolare forma aggressiva e terroristica adottata con la richiesta dei 75 miliardi per fare la guerra per un mese, provoca un disastro ambientale che peggiora l'insieme della Terra comune. Non sono in Iraq, in Medioriente, ma ovunque i mari, i fiumi, l'aria, il suolo saranno più inquinati, a guerra conclusa. Ci saranno nuovi veleni, maggiore quantità di anidride carbonica, di gas da serra; ci saranno quantitativi incontrollati di uranio impoverito e di radiazioni sconosciute. Generazioni di bambini si troveranno con malattie nuove e dovranno fronteggiare, nel Burkina Faso e dovunque, altre pesti sconosciute. E' la guerra, bellezza. " [MAN]
"Affare Iraq, costi e profitti Gli Usa pagano da soli la guerra, ma partono appalti «multinazionali» (non solo Halliburton) MANLIO DINUCCI «Il presidente Bush si sta confrontando con i costi della guerra in Iraq, sia in vite che in dollari», scrive The New York Times. Non si sa che cosa lo preoccupi di più: le vite americane perse in questa guerra (altrettanti colpi alla sua immagine politica), o i miliardi di dollari più del previsto che essa verrà a costare. Il presidente sta chiedendo al Congresso 75 miliardi di dollari, ma è appena un anticipo. Solo per inviare le forze nel Golfo - hanno specificato funzionari dell'amministrazione - sono stati spesi 30 miliardi di dollari, più 5 miliardi al mese per tenervele. Questi «fondi aggiuntivi» si sommano ai 399 miliardi del budget del Pentagono (di cui 17 per l'arsenale nucleare), ai 40 per i militari a riposo, ai 36 per il dipartimento della sicurezza della patria, agli almeno 35 per i servizi segreti, portando la spesa militare e paramilitare annua a circa 585 miliardi di dollari: oltre un quarto dell'intero bilancio federale. La guerra è però più lunga del previsto: se durerà un mese, stima l'organizzazione Taxpayers for Common Sense, si spenderanno nel 2003 oltre 110 miliardi di dollari. Molto più costosa sarà anche l'occupazione del paese, in quanto gli Usa, vista l'attuale resistenza irachena, vi dovranno mantenere più forze di quanto prevedessero. Inoltre, mentre nel 1991 gli alleati si addossarono circa l'89% del costo della guerra (80 miliardi al valore attuale del dollaro), è quasi impossibile che l'attuale «coalizione» sia in grado di fare altrettanto. Tutto questo, mentre il congresso prevede per il bilancio federale 2004 un deficit di 320 miliardi di dollari, che saliranno ad almeno 400 con il costo della guerra: un record storico che eclissa quello di 290 miliardi del 1992. L'amministrazione ha deciso, con un atto che non ha precedenti dopo la seconda guerra mondiale, di confiscare proprietà irachene negli Usa per 1,5 miliardi di dollari, ma è ben poca cosa: solo a Israele vengono dati, nel quadro del «massiccio budget per la guerra», 10 miliardi di dollari.
A tutto questo si aggiunge il costo dei contratti, per un valore di almeno 100 miliardi di dollari, che diverse agenzie governative, nel momento stesso in cui le prime bombe cadevano su Baghdad, hanno cominciato a stipulare per «la ricostruzione dell'Iraq del dopoguerra» (The Washington Post, 21 marzo). Da essi sono escluse le società non-statunitensi, poiché solo il personale di quelle statunitensi è autorizzato da Washington a «prendere visione dei documenti classificati» relativi ai lavori di ricostruzione. I primi sette contratti, stipulati dall'Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), riguardano «la riparazione di infrastrutture, tra cui strade e ponti, e la gestione di porti e aeroporti iracheni». Ad accaparrarseli è «un piccolo gruppo di gigantesche multinazionali statunitensi, alcune delle quali strettamente legate all'amministrazione Bush: tra esse figura una affiliata della Halliburton, la società già diretta dal vicepresidente Cheney», il quale continua a ricevere dalla società un «compenso differito» (una sorta di pensione) di un milione di dollari l'anno, che si aggiunge alla «liquidazione» di oltre 20 milioni di dollari in azioni che ha avuto quando ha lasciato l'incarico. Altre società beneficiarie dei contratti per la «ricostruzione dell'Iraq» sono il Bechtel Group, nel cui consiglio di amministrazione siede l'ex-segretario di stato George Shultz, e la Fluor, che lo scorso aprile ha assunto Kenneth Oscar, già vicesegretario del settore dell'esercito addetto all'acquisto di armamenti (35 miliardi di dollari annui), e ha nel suo consiglio di amministrazione l'ammiraglio a riposo (ma sempre attivo) Bobby Inman, già direttore dell'Agenzia della sicurezza nazionale e vicedirettore della Cia.
L'amministrazione Bush sta dunque facendo, con il denaro pubblico, un enorme investimento sull'Iraq. E' evidente quindi che voglia recuperarlo. Per questo respinge seccamente ogni richiesta che sia l'Onu ad amministrare il paese nel dopoguerra, quando, secondo i piani di Washington, saranno riportati a pieno regime i pozzi petroliferi e ne saranno attivati altri per sfruttare quelle che sono le maggiori riserve petrolifere del mondo, quando si costruiranno sul territorio iracheno le basi destinate a rafforzare la presenza militare statunitense nell'area strategica del Golfo. Questo, in sintesi, è lo scopo della guerra. Scopo che l'amministrazione Bush cerca di nascondere in vari modi. Tra questi, l'ordine impartito alle unità corazzate, prima di iniziare l'invasione dell'Iraq, di «non esporre sui carri armati le bandiere dei reggimenti e neppure quella americana» (The New York Times, 20 marzo), perché «la bandiera darebbe ai cittadini iracheni la falsa idea che siamo un esercito di conquista, che vuole la terra e la ricchezza irachena per gli Stati uniti, e non una forza di liberazione»." [MAN]
"Londra, la guerra costa La guerra all'Iraq potrebbe costare più del previsto alla Gran Bretagna. Secondo quanto anticipato dal cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown, quanto già è stato accantonato per questo conflitto - ovvero 1,75 miliardi di sterline - non potrebbero più bastare e la spesa immediata potrebbe salire a 2 miliardi di sterline. Sempre se la guerra rimane di breve durata e l'impegno a terra delle truppe angloamericane avrà un esito favorevole. Questo scenario comporta per Tony Blair anche la revisione del budget statale per il 2003, che il governo inglese si prepara a stilare entro il mese di aprile. Complessivamente per la difesa, l'anno passato, la Gran Bretagna ha stanziato 25 miliardi di dollari. Nel 1990-1991, l'impegno nella guerra del Golfo era costato a Londra circa 2,5 miliardi di sterline, corrispondenti agli attuali 3,3 miliardi di sterline; per questo molti esperti pensano che il cancelliere Gordon Brown dovrà chiedere al governo un ulteriore stanziamento fino forse ad un massimo di 4 miliardi di sterline. Considerato che questa volta servono molti più soldi per sostenere l'attacco di terra delle truppe. I soldati abbisognano di maggior supporto logistico (trasporti e carburante) ed un'assistenza tecnologica avanzata. Al governo Blair sono anche piovute le critiche di autorevoli quotidiani (vedi per tutti, il «Financial Times«) che contestano l'esclusione subita dall'industria inglese alla torta della ricostruzione dell' Iraq. Infatti, le maggiori commesse se le sono già accaparrate le società statunitensi amiche del presidente George W. Bush (ad esempio, Bechtel e Halliburton)." [MAN]
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"La «benevola neutralità» dell'Italia Il governo conia una nuova formula giuridica per definire la posizione italiana ma tace sulla destinazione delle truppe americane che partono dalle basi italiane. Il ministro Giovanardi: «Non possiamo mica recintarle». Proseguono le polemiche sulla formula «né con Bush né con Saddam» usata e poi corretta da Epifani ANDREA COLOMBO ROMA Sabato mattina la commissione esteri della camera si riunirà in sessione straordinaria. All'ordine del giorno le «comunicazioni del governo sulla crisi irachena». La richiesta era stata avanzata ieri dall'opposizione e appoggiata dal presidente Casini. Bisognerà vedere però cosa il governo intenderà comunicare, e a chi affiderà il compito. Perché ieri, di fronte alle commissioni difesa ed esteri congiunte del senato, l'esecutivo aveva piuttosto l'intenzione di «comunicare» il meno possibile, e soprattutto di non rispondere a domande imbarazzanti. La riunione è iniziata con una mezza rissa, uno scontro verbale tanto violento da spingere il presidente Contetabile, forzista, a ordinare un'interruzione. La scintilla era stato il solito paragone del ministro dei Rapporti con il parlamento Giovanardi tra la situazine attuale e quella della guerra del Kosovo: «Noi abbiamo le carte in regola rispetto all'art.11 della Costituzione perché non impieghiamo un uomo né un mezzo in attività belliche, mentre nel '99 il parlamento e il governo di allora ritennero legittimo l'intervento armato diretto dell'Italia senza autorizzazione dell'Onu». Stavolta non c'era D'Alema, che non è senatore, e a scattare è stato Massimo Brutti, all'epoca dei fatti sottosegretario alla difesa: «C'è un limite al diritto del governo di dire sciocchezze».
E' vero che alla parola Kosovo i nervi dell'opposizione comprensibilmente vibrano. Ieri però i motivi di tensione erano tutt'altri, e ben più attuali. Già la scelta di inviare in commissione un ministro pochissimo competente in materia di guerra indicava infatti la volontà del governo di puntare ancora una volta sulla reticenza. Le parole di Giovanardi hanno abbondantemente confermato. Sullo schieramento dell'Italia il ministro dell'Udc si è affidato a una figura giuridica tra le più ambigue: la «neutralità qualificata o benevola». Vuol dire che «l'Italia non partecipa direttamente al conflitto ma sostiene politicamente Usa e Gran Bretagna». Politicamente in guerra, ma senza soldati, e non si vede la differenza dalla posizione spagnola, che pure non invia uomini e mezzi (se non, ovviamente, nel maggior coraggio di Aznar). Sui profughi, nonostante le insistenti pressioni dell'opposizione e, nella maggioranza, del suo stesso partito, Giovanardi è altrettanto ineffabile: «Se ci sarà un'emergenza l'Italia farà la sua parte per dare una risposta positiva alla stesa emergenza». Colleghi senatori, ci risentiamo in data da destinarsi.
Il punto dolente però riguardava l'uso che gli Usa fanno delle basi italiane. In particolare, l'opposizione chiedeva chiarimenti sui 1800 parà americani partiti dalla caserma Ederle, a Vicenza, e sulla destinazioni delle navi che salpano dalle basi navali di Gaeta e della Maddalena. La risposta di Giovanardi è stata un capolavoro. «Il governo - ha detto - ha escluso che dall'Italia possano partire attacchi, e siccome l'Italia è coerente questo non accade». Purtroppo a decidere dell'invio delle truppe non è la coerente Italia ma il comando anglo-americano. «E cosa possiamo fare? Eecintare le basi? La tesi che i militari americani non pssano lasciarle non sta in piedi». Come dire, sia pure con con formula contorta, che sulla destinazine dei militari in partenza dalle basi italiane, l'Italia nulla sa, e nulla può né vuole fare.
A rispondere non è un antiamericano di professione ma il solito Andreotti: «Se però si è dovuta far partire da una base italiana una divisione aviotrasportata, quei soldati, per essere coerenti con quanto deciso dal governo, non possono tornare in una base sul nostro territorio nazionale». Non arriva risposta. Così come non ne arrivano sulle altre questioni sollevate dall'opposizione. La richiesta di contrastare l'ingresso in armi della Turchia nell'Iraq del nord, posta inutilmente al ministro della difesa Martino che ieri, alla camera, si è limitato a ripetere quanto detto il giorno prima al senato. Preoccupazione tanta e proclamata, ma in sostanza semaforo verde per le truppe turcrhe. L'invito, avanzato ancora una volta da Andreotti, di prendere in considerazione il piano dell'Arabia saudita. Le insistenze e le mozioni parlamentari che chiedono al governo di impegnarsi direttamente pr garantire gli aiuti umanitari, e per sponsorizzare un cessate il fuoco momentaneo che permetta di soccorrere la popolazione irachena.
La risposta, quando non è risibile come nel caso di Giovanardi ieri, è un gelido silenzio. In compenso fioccano commenti e polemiche sulle parole del segretario della Cgil Guglielmo Epifani, colpevole di aver detto, per poi correggersi, «né con gli Usa né con Saddam». La fondazione Di Vittorio, cioè Cofferati, concorda con la versione originale: «Epifani non ha perso la bussola. Sa discernere tra Bush e Saddam e per questo non sta con nessuno dei due». Identica linea quella asdi Bertinotti e Agnoletto. La destra invece carica scandalizzata. Il riformista, a cui difetta il senso del ridicolo, «si dimette dalla sinistra del né-né». Come se, in questa situazione, detta formula fosse un problema, anche solo di quart'ordine. " [MAN]
"I paracadutisti americani partiti da Vicenza hanno aperto ieri sera l'offensiva nel nord dell'Iraq. E subito , qualche minuto dopo mezzanotte italiana, il verde Paolo Cento è tornato a chiedere spiegazioni al governo: «La notizia che un migliaio di paracadutisti americani sono scesi sull'Iraq settentrionale conferma quanto avevamo denunciato nei giorni scorsi. Se davvero sono partiti dall'Italia siamo in aperta violazione delle decisioni del parlamento oltre che della costituzione. Il governo - ha concluso - riferisca subito alle camere». E' una richiesta che le opposizioni stanno facendo da tre giorni. Da quando lo stesso Cento, la collega verde Luana Zanella, la diessina Lalla Trupia, Elettra Deiana e Tiziana Valpiana (Prc) avevano visitato la caserma Ederle di Vicenza, quartier generale della 173a brigata aviotrasportata dell'esercito Usa. Lì avevano visto con i loro occhi i preparativi per la partenza di un certo numero di parà, che sono 1800 in tutto e formano un'unità speciale superaddestrata. Da martedì, peraltro, fonti del Pentagono ammettono che una parte della 173a brigata sono giunte dal nord dell'Iraq. Secondo le opposizioni, il decollo di paracadutisti destinati a missioni d'attacco dal nostro paese, a quanto pare dalla base di Aviano (Pordenone), rappresenta una violazione della mozione parlamentare della maggioranza che escludeva la partenza di attacchi dal territorio italiano. Il governo fin qui non ha risposto, anche ieri pomeriggio il ministro della difesa Antonio Martino ha taciuto, così come il ministro per i rapporti con il parlamento Carlo Giovanardi. Solo oggi Martino (o un sottosegretario al posto) dovrebbe rispondere all'interpellanza dei parlamentari ispettori." [MAN]
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