[cronologie di guerra] 28.03.03 nono giorno
si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.
28 marzo 2003 : nono giorno [fonti : quotidiani del 29 marzo 2003]
"Nel venerdì di preghiera si scatena dal cielo l'inferno su Baghdad 55 morti in un mercato bombardato, altre decine di vittime nella città Infuria la battaglia a sud. Bufera al Pentagono, Rumsfeld minaccia Siria e Iran Nella notte un missile iracheno su Kuwait City. Dirottato un aereo in Turchia" [MAN]
"Catturati sette giornalisti italiani Gli inviati fermati vicino a Bassora a un check-point iracheno. Saranno rimpatriati? Sette giornalisti italiani, tutti inviati al seguito delle truppe inglesi, risultano dispersi da quando, ieri pomeriggio, sono stati fermati a un posto di blocco della polizia irachena mentre cercavano di [...] " [MAN]
La notizia si rivelera' infondata, con i sette giornalisti in viaggio verso baghdad per regolarizzare il loro visto, senza gravi problemi. http://italy.indymedia.org/news/2003/03/236907.php http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/03_Marzo/28/giornalisti.shtml vedi anche la cronologia del 29 marzo
"I marines non sfondano Gli anglo-americani sconcertati dalla tattica e dalla resistenza degli iracheni, sprezzantemente definiti «squadre della morte terroriste». Nel nord i kurdi spazzano via l'Ansar al-Islam. Missile su Kuwait City M.M. Gli iracheni, almeno sul fronte sud, tengono inchiodati gli anglo-americani e gli anglo-americani tengono inchiodati gli iracheni. Almeno questo ha detto ieri il generale Mike Jackson, comandante militare inglrese. Sarà. Ma erano stati i pianificatori militari a Washington, Londra e al Comando centrale del Qatar, che avevano previsto e annunciato una passeggiata rapida e trionfale dal Kuwait fino a Baghdad. Invece la resistenza irachena, intelligente e tosta, ha sconvolto queste previsioni, costringendo a rivedere piani e tempi, provocando il malumore di Bush e Blair.
I generali americani e inglesi, oltre che i marines sul campo, si sono molto meravigliati e anche arrabbiati per le tattiche proprie della guerriglia - le uniche possibili - adottate dalla resistenza irachena. Il solito generale Usa Brooks, incaricato del quotidiano briefing ai giornalisti al CentCom della base di as-Sayliyah di Doha, nel Qatar, lamenta gli attacchi mordi-e-fuggi degli «irregolari», quelle che ha definito ieri «squadre della morte di tipo terrorista». Come dire: così non vale! Bastardi di iracheni, perché non vi fate sotto come dio e i trattati militari comandano e affrontate a viso aperto i nostri marines high-tech, i nostri super-carri, super-blindati, super-bombe - intelligenti, a grappolo, anti-bunker, all'uranio... -, super-elicotteri, super-bombardieri, super-missili, da uomo-a-uomo come nel vecchio West, anziché attaccare i nostri carri con le mitragliatrici montate sui pick-up Toyota o addirittura con i gloriosi kalashnikov e inchiodarvi nelle città che noi abbiamo già conquistato, anzi liberato: Bassora, Nasiriya, Samawah, Nayaf, Karbala?
Il generale William Wallace ha dovuto ammettereche «il nemico è diverso da quello che avevamo previsto nei piani militari, a causa delle forze irregolari». Il numero due del Pentagono, il falco Paul Wolfowitz ha detto ieri che forse i pianificatori militari dell'Operazione Iraqi Freedom hanno sottostimato un attimo la capacità e la determinazione a battersi degli iracheni, o meglio «la volontà di questo regime di commettere crimini di guerra» - ossia di difendere la propria terra da un'aggressione militare straniera. Dal Qatar il generale Tommy Franks gli ha risposto che loro non hanno sottostimato un bel niente e che le truppe della coalizione tengono sotto pressione - o «inchiodato» - il nemico iracheno «a nord, sud e ovest» infliggendogli, parole del generale Brooks, «colpi punitivi» su tutti gli scacchieri del fronte. In attesa del capitolo finale della guerra che si aprirà - anche se con un certo ritardo sulla tabella di marcia - dentro Baghdad o intorno a Baghdad se, come ha fatto capire ieri il ministro Rumsfeld, la sleale resistenza irachena consigliasse i liberatori a cambiare tattica e scegliere anziché di seppellire la città sotto un diluvio di bombe (sui mercati rionali), di stringerla in un lungo assedio demolitore. Ma Baghdad, come ha detto ieri il ministro della difesa iracheno, il generale Sultan Hashim, «diventerà il cimitero dove sarà seppellito il nemico e dove daremo agli Stati uniti e ai loro alleati una lezione che non si dimenticheranno mai». Prima potevano apparire solo spacconate senza senso reale. E' ancora così?
Sta di fatto che dopo 8 giorni di guerra, «nessuno degli obiettivi propostisi è stato raggiunto», come scriveva ieri l'autorevole e non-militarizzato Financial Times.
Ancora ieri, ottavo giorno, i nomi sono sempre quelli. A Bassora la situazione è sempre più drammatica dal punto di vista umanitario e bloccata dal punto di vista militare: le truppe inglesi circondano la città ma il colonnello Vernon ha detto che quanto al suo controllo «siamo ancora molto lontani». A Nasiriya i marines dicono di avere occupato le periferie nord e sud della città e di avere catturato un generale iracheno ma contemporaneamente si annuncia l'invio verso la città di «migliaia di altri soldati Usa per unirsi alla battaglia», la morte di un marine schiacciato da un tank amico mentre altri 4 o 12 marines sono dati per missing «nelle ultime ore».
A Samawah, fra Nasiriya e Najaf, è ancora in corso «una grossa battaglia» fra i marines e 1500 vili fedayn. A Najaf «forti combattimenti» sostenuti dai soliti 1500 fedayn, forse appoggiati da reparti della Guardia repubblicana, ritardano la marcia dei liberatori nonostante la notte su ieri sulla città santa sciita siano state scaricati missili e bombe (gli iracheni parlano di cluster bombs che avrebbero ucciso almeno 26 civili). A Karbala, l'altra città santa sciita, i due schieramenti si fronteggiano preparando la «battaglia decisiva» che dovrebbe scatenarsi entro 48 ore (ma lo dicevano anche giovedì).
Le cose sembrano, al momento, più facili al nord, nel Kurdistan iracheno, dove martedì i mille parà provenienti da Vicenza hanno aperto il secondo fronte. Ieri mattina all'alba migliaia di peshmerga kurdi dell'Upk e del Pdk, sostenuti dalle Special forces e dalla copertura aerea Usa hanno spazzato via dalle loro enclaves montagnose di Ansar al-Islam. Cittadine e villaggi sotto il controllo della milizia radicale islamica, a cominciare dalla loro «capitale», Biara, sono stati investiti. Una settantina i morti e gli altri in fuga sulle montagne. Bombardamenti Usa (con qualche sporadica risposta irachena sulle postazioni kurde) anche su Mossul e nei dintorni di Kirkuk, le due preziose e ambite gemme petrolifere dove si sono attestate le divisioni irachene in attesa dell'attacco.
Si contano i morti. Quelli iracheni sono centinaia, forse migliaia. Quelli anglo-americani sono 48 (iersi sera un altro inglese ucciso dal friendly fire). Ufficialmente. In realtà molti di più.
Si cominciano a sentire i primi effetti della guerra in Iraq fuori dall'Iraq?
Ieri notte, oltre all'aereo turco dirottato, la notizia di un missile arrivato ed esploso su Kuawait City, in uno shopping center nel quartiere centrale di Suk Sharq. Terrore, per ora infondato, di testate chimiche. Non si ha notizie - finora - di vittime. E' il primo missile arrivato sul Kuwait dall'inizio della guerra. Gli altri, una decina, erano stati intercettati dai missili Patriot." [MAN]
"01.59 Gli Usa fanno sapere che i bombardamenti hanno colpito i principali centri di comunicazione a Baghdad
05.00 Continuano i bombardamenti su Baghdad
07.07 Le migliaia di soldati Usa partite per unirsi alle truppe nel sud dell'Iraq e combattere a Nasiriya ripiegano per la controffensiva irachena
07.17 Gli Stati Uniti dichiarano di aver catturato un generale iracheno a Nasiriya,
07.50 Tony Blair annuncia che la guerra sarà lunga
09.00 Un portavoce britannico riferisce che le milizie irachene hanno sparato sui civili che tentavano di fuggire da Bassora
10.45 Il ministro dell'informazione iracheno denuncia che giovedì i bombardamenti su Baghdad hanno ucciso 7 civili e ferito 92 persone
11.10 I militari britannici tentano di inviare le autoambulanze a Bassora, ma sono bloccate dalla difesa irachena
12.15 La televisione irachena mostra le immagini di tre iracheni sospettati di essere spie americane
13.30 Arriva la prima nave britannica di aiuti umanitari nel porto di Umm Qasr
15.45 I militari britannici affermano che gli iracheni nel sud del paese sono «inchiodati»
16.40 Nel nord gli iracheni colpiscono Chamchamal, in risposta all'avanzata dei kurdi verso Kirkuk
17.45 Muore un marine in un incidente vicino Nasirya, altri quattro sono dispersi
18.45 L'Onu decide di ripartire con il programma «Oil for food», sospeso all'inizio dei bombardamenti
19.15 Ingenti perdite di civili durante i bombardamenti su Baghdad
19.30 Rumsfeld accusa la Siria di fornire equipaggiamenti militari all'Iraq, in quello che definisce «un atto di ostilità» " [MAN]
----------------- "AIUTI UMANITARI" -----------------
"Ripristinato l'inganno dell'«oil for food» Approvata all'Onu la risoluzione «petrolio in cambio di cibo». Una maschera per il dominio Usa dell'Iraq STEFANO CHIARINI Le Nazioni unite, invece di discutere della illegalità dell'attacco all'Iraq e della necessità di fermarlo, su pressione della Gran Bretagna e degli Usa desiderosi di mostrare il «volto umano» dell'impero, del segretario generale Kofi Annan e di molti altri membri del Consiglio di sicurezza, preoccupati della perdita di qualsiasi ruolo dell'organismo internazionale hanno approvato all'unanimità, nonostante le riserve di Russia e Siria, un'ambigua e politicamente pericolosa mozione per il «rilancio della oil for food» (la risoluzione «cibo in cambio di petrolio»). In realtà più che di un rilancio si tratta di un nuovo tentativo per dare all'opinione pubblica l'illusione di un protagonismo umanitario che non esiste, per pagare con i soldi stessi dell'Iraq gli aiuti alla sua stessa popolazione ormai denutrita da 12 anni di embargo e ora affamata dal crudele assedio angloamericano e per in qualche modo cercare di ridimensionare le differenze sulla guerra, che vengono così messe tra parentesi. La mozione delibera di utilizzare i 10 miliardi di dollari derivati dalle vendite del petrolio iracheno versati su un conto pegnato a New York e non utilizzati per il boicottaggio di Stati uniti e Gran Bretagna, per inviare aiuti di emergenza all'Iraq, senza che i responsabili del disastro sborsino un solo dollaro. La convenzione di Ginevra stabilisce infatti che spetta alle potenze occupanti provvedere alla sopravvivenza della popolazione nelle zone occupate. Un piano Marshall umanitario con cui fare bella figura pagato con i soldi di Baghdad. La ripresa e la gestione del programma «oil for food» , bloccato dal ritiro, non certo onorevole, da parte dell'Onu di tutto il personale umanitario presente in Iraq (che in teoria dovrebbe servire più in guerra che in pace) viene affidata interamente al segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan che però ha messo subito in guardia sui tempi lunghi dell'operazione. Una delle differenze fondamentali tra la nuova risoluzione e la Oil for food originaria sta nel fatto che il documento approvato ieri sembra voler tagliare fuori completamente dalla gestione del programma il governo iracheno che sino ad oggi lo aveva portato avanti nelle zone da lui controllate sulla base di un protocollo firmato con le Nazioni unite. E poi chi esporterà il petrolio dal terminale di Umm Qasr occupato dagli anglo-americani o dai pozzi attorno a Kirkuk sui quali puntano le milizie kurde dei marines? Gli uomini del gnerale Franks? Per ottenere l'unanimità la nuova mozione dell'Onu fa genericamente riferimento al fatto che Kofi Annan dovrà gestire il tutto «con le autorità competenti». Le truppe di occupazione o il legittimo governo iracheno? In realtà il tutto sembra prefigurare una sorta di mandato coloniale internazionale sull'Iraq. In pratica si delinea un ritorno alla situazione politico-istituzionale che c'era alla fine della seconda guerra mondiale quando le grandi potenze coloniali discutevano tra loro confini e forma istituzionale del futuro Iraq.
Mentre la guerra infuria in tutto il sud e il centro Iraq, l'immondo macello anglo americano si sta trasformando in una operazione benefica. La «battaglia umanitaria» ha così avuto inizio anche in Iraq e alle Nazioni unite. Qui, una volta approvata la risoluzione, il braccio di ferro di sposterà sui modi di attuazione della risoluzione e sul riconoscimento o meno della sovranità irachena. Per quanto riguarda gli aiuti la «oil for food» continuerà ad essere in realtà una «oil for nothing». L'embargo e la «oil for food» costituiscono infatti una delle pagine più nere, nella storia delle Nazioni unite. Dal 1991 il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha rinnovato l'embargo all'Iraq, già imposto subito dopo l'invasione del Kuwait, nonostante l'emirato fosse stato ormai «liberato». L'embargo è divenuto così, provocando oltre un milione e mezzo di vittime, un vero strumento di guerra. L'embargo riguardava naturalmente sia le esportazioni di petrolio iracheno sia ogni tipo di importazione, cibo e medicinali ne sarebbero stati esclusi ma in realtà spesso venivano bloccati anch'essi dal veto di Stati uniti e Gran Bretagna alla commissione delle sanzioni del Consiglio di sicurezza.
Nel 1996, di fronte allo sdegno, anche se minimo dell'opinione pubblica, entrò in funzione la risoluzione «oil for food»: l'Iraq può vendere parte del suo petrolio ma ogni singolo contratto di vendita dell'oro nero e soprattutto di importazione di qualsiasi merce essenziale andava approvato dalla Commissione per le sanzioni. I lavori della Commissione sono segreti e né l'Iraq né la società che chiedeva di importare una certa merce in Iraq potevano difendere le loro ragioni. Si trattava di una sorta di parziale mandato coloniale sul petrolio e quindi sull'economia irachena. I fondi derivati dalle entrate petrolifere vanno a finire su un conto pegnato presso il banco di Parigi a New York.
Ma i fondi dell'Oil for food non andavano e non vanno certo, in gran parte, a comprare generi alimentari e «beni essenziali». Un 30% era destinato a pagare di danni di guerra, stimati in oltre 360 miliari di dollari che l'Iraq dovrà pagare per i prossimi cento anni. L'entità e la legittimità delle richieste per i danni di guerra veniva decisa anch'essa da un'altra Commissione del consiglio di sicurezza, sotto egemonia americana, di fronte alla quale l'Iraq non poteva neppure presentare le proprie ragioni o sottolinearne la non fondatezza. Un'altra parte andava e va a pagare le spese dell'Onu in Iraq e un'altra l'affitto dell'oleodotto turco per portare l'oro nero. Alla fine alla popolazione non rimaneva che poco più del 50% del totale. Ma solo teoricamente. Con il veto alla commissione delle sanzioni Stati uniti e Gran Bretagna hanno infatti impedito l'importazione di gran parte dei pezzi di ricambio destinati a rimettere in piedi l'economia del paese. Soprattutto per le proteste internazionali e le dimissioni degli stessi responsabili delle operazioni umanitarie in Iraq, Dennis Hallyday e Hans Von Sponeck (che hanno a più riprese affermato di non voler «essere complici di un genocidio chiamato embargo sotto la copertura dell'Oil for food») si sono inventati, a partire dal 2000 le «sanzioni intelligenti». Un modo per rendere permanente l'embargo che, secondo la risoluzione 687 del 1991, doveva essere rimosso una volta realizzato il disarmo non convenzionale.
La risoluzione sulle sanzioni intelligenti toglie ogni limite alle esportazioni di petrolio iracheno, stabilisce una «procedura veloce» per esaminare i contratti di importazioni di alcune merci essenziali ma in realtà lascia ogni potere decisionale su una immensa lista di prodotti, di pezzi di ricambio e di merci alla Commissione per le sanzioni dove Stati u niti e Regno unito continuano ad avere diritto di veto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dal dicembre del 1996, l'Iraq ha esportato oltre 64 miliardi di dollari di petrolio e ha ricevuto prodotti e merci essenziali per solamente 27 miliardi di dollari. Il resto è andato a pagare i danni di guerra o sta ancora nel conto pegnato a New York pronto ad essere rapinato dalla banda di Bush e Blair." [MAN]
--------- ITALIETTA ---------
"L'ira americana del premier Berlusconi ai ministri: «Il comando americano ha il diritto di mandare le sue truppe dalle basi italiane in siti non indirettamente coinvolti nella guerra». Prodi: «La presidenza italiana della Ue arriva in un momento delicatissimo» Romano Prodi. Contro Pera sulla guerra: «Sarebbe stato meglio se non fosse cominciata affatto» ANDREA COLOMBO ROMA Uno sfogo rivelatore quello a cui si è abbandonato ieri Silvio Berlusconi, in sede di consiglio dei ministri. «L' opposizione - ha detto ai suoi ministri il premier - vuole solo attaccare me e il governo. Sono sempre più lontani dal paese e non pensano affatto all'interesse nazionale». Non era un discorso generico quello del Cavaliere. Alludeva al più grosso tra i tanti guai che lo affliggono da quando i suoi alleati di Washigton hanno scatenato la guerra irachena, al pasticcio dei parà americani arrivati in Iraq dritti dalla base italiana di Vicenza. «Le basi - ha assicurato il capo del governo - non saranno punti di partenza per i bombardamenti, per attacchi diretti, ma se poi, in autonomia, i comandi statunitensi decidono di trasferire alcune truppe da una base italiana a un altro sito, anche non indirettamene coinvolto in operazioni militari, si tratta di un loro diritto». Da notare quel «non indirettamente coinvolto in operazioni militari» che dice tutto sullo stato d'animo in cui versa il premier. Quella formula contorta e involuta adoperata persino con i suoi ministri si traduce con un secco «direttamente coivolti nella guerra»: quel che il premier non può e non vuole riconoscere. Non lo farà neppue la settimana prossima, quando il governo riferirà prima in aula al senato martedì, poi di fronte alle commissioni esteri congiunte delle due camere, mercoledì. Insisterà nel negare l'evidenza. Si affiderà a bizantinismi ellittici come quello usato ieri di fronte al governo. Tenendo le dita ben incrociate nella speranza che la tempesta passi presto.
Sarà compito dell'opposizione evitare che il governo riesca a nascondersi ancora. L'ipotesi di una mozione unitaria di tutte le opposizioni per impegnare il governo a chidere un cessate il fuco umanitario, che consenta di arginare il disastro di Bassora, è tutt'altro che peregrina. In quel caso Silvio Berlusconi non potrà fare a meno di affrontare di nuovo il parlamento e il paese. E anche per Carlo Azeglio Ciampi sarà più difficile restare in silenzio, come fa da giorni. Non che il capo dello stato non si pronunci e non faccia capire come la pensa. «Il ruolo dell'Onu - ha detto ieri - è oggi più che mai fondamentale e irrinunciabile. L'Onu ha bisogno di aggiustamenti e modifiche, ma che lo rafforzino, non che lo indeboliscano». Però sull'ambiguità del governo italiano, Ciampi ha deciso di tenere la bocca cucita, in nome probabilmemnte dell'«interesse nazionale», e fino a che gli sarà possibile rispetterà l'impegno.
Il comune interesse ha cementato ieri anche l'accordo tra il premier e Prodi. Il presidente europeo ha passato a Roma una giornata fitta di incontri, conclusa dal summit con il capo dello stato. Ma il momento decisivo è stato il vertice con Silvio Berlusconi. Sulla guerra il presidente della commissione europea e quello italiano non la pensano affatto allo stesso modo. Prodi lo ha dimostrato in modo clamoroso nel corso dell'incontro con il presidente del senato, ieri mattina. Pera si era appena augurato che «la guerra finisca presto», quando Prodi lo ha interrotto seccamente: «Sarebbe stato meglio se non fosse cominciata affatto».
Ma il semestre di presidenza italiana Ue è alle porte, la situazione non potrebbe esere più difficile e Prodi, come Berlusconi, ha tutto l'interesse nell'invertire la tendenza, nell'assicurare un successo, al momento assai improbabile, della presidenza italiana. L'incontro tra i due leader è stato quidi davvero cordiale, almeno nel senso che i due perseguono lo stesso obiettivo: impegnarsi perché «l'Europa superi le attuali divergenze e parli con una voce sola sulla scena internazionale». Pieno accordo anche sulla necessità di non rallentare l'allargamento della Ue in seguito alla spaccatura sulla guerra e sul ricucire al più presto la lacerazione con gli Usa. Obiettivi sui quali si pronuncia anche il presidente della camera Casini, con una proposta concreta: che la Ue abbia in futuro un seggio stabile nel consiglio di sicurezza dell'Onu.
Sono buoni propositi, che Prodi e Berlusconi condividono realmente. Ma sul come realizzarli nessuno dei due ha idee chiare ed è lo stesso Prodi ad ammetterlo: «Il semestre italiano è di importanza enorme in un momento delicatissimo. Negare le difficoltà è inutile, ma c'è una volontà comune di ricucire e ricostruire subito quanto è possibile».
L'appoggio, imposto dalle circostanze, di Ciampi e di Prodi garantisce a Berlusconi un po' di respiro in un momento per lui difficilissimo. Alla necessità di sfuggire al confronto con il parlamento e con il paese sulla guerra, si è aggiunta ieri la divisione interna alla maggioranza sui profughi, di cui riferiamo in altra parte del giornale e chepotrebbe diventare clamorosa nelle prossime settimane." [MAN]
------------ NUOVI INDIZI ------------
"Le bombe di Camp Darby Partono da Talamone gli ordigni destinati a Baghdad. E da Roma decollano tre aerei al giorno ALESSANDRO MANTOVANI ANGELO MASTRANDREA Il comando statunitense di Camp Darby (Pisa) potrebbe cominciare già domani a imbarcare circa duecento container, carichi di bombe, su una nave da guerra al largo del porto di Talamone (Grosseto). Si tratterebbe di armamenti destinati agli aerei che stanno bombardando l'Iraq, forse «forniture» supplementari legati cambiamenti nei piani d'attacco anglo-americani. Alcune fonti, rigorosamente anonime, segnalano che i container verrebbero trasferiti dalla base Usa di Camp Darby al porticciolo dell'Argentario a bordo di tir e di camion, che non viaggerebbero incolonnati ma ben separati l'uno dall'altro. In genere gli americani spostano i materiali da imbarcare su navette marittimo-fluviali, lungo il canale dei Navicelli e fino alla rada di Talamone, ma stavolta cambierebbero sistema per ragioni di sicurezza. Poi, come è già accaduto a Talamone, le operazioni di carico sulla nave avverrebbero al largo, dove i container arriverebbero su piccole imbarcazioni e chiatte. Secondo le segnalazioni raccolte, cominceranno già fin da domenica notte e nelle notti seguenti. I container sarebbero 184. Da Talamone arriva anche una conferma piuttosto attendibile, ma purtroppo parziale. Proprio una settimana fa il comando di Camp Darby aveva chiesto alla locale compagnia portuale l'uso di una banchina in cui poter stoccare «circa duecento container», il cui carico è rimasto avvolto nel mistero perché non è mai arrivato. I lavoratori del porto, a quanto pare, hanno rifiutato di lavorare per i militari Usa, come era già successo ai cantieri navali di Livorno dove una nave militare americana ha ripreso il mare giorni fa senza aver ottenuto le riparazioni richieste.
Conferme ufficiali non ce ne sono. Di certo a Camp Darby sono arrivati armi e mezzi militari in gran quantità, a fine febbraio, a bordo dei famigerati treni che facevano zig-zag tra i blocchi pacifisti, ma gli ufficiali della base pisana non diranno mai che fine hanno fatto o faranno. E del resto a Vicenza, nel giorno in cui i suoi uomini partivano per l'Iraq, il comandante dei parà Usa dichiarava a un gruppo di «deputati-ispettori» che quei soldati si preparavano ad «esercitazioni»: 48 ore dopo quel contingente decollato da Aviano (Pordenone) veniva scaricato nei cieli del Kurdistan iracheno, per aprire il nuovo fronte. Anche in queste ore in tutta Italia i movimenti di uomini e mezzi destinati alla guerra prosegue in gran segreto, «protetto» in larga parte dalla decisione del governo di concedere lo spazio aereo, l'uso delle basi Usa e Nato con il solo limite dell'esclusione di missioni dirette d'attacco (basta insomma che facciano scalo altrove) e la disponibilità dell'infrastruttura di trasporti.
A Vicenza la caserma dei parà sembra quasi svuotata e fonti americane confermano che tutti gli uomini sono partiti, però in città non tutti ci credono e anche ieri alcuni giornali davano notizia di contingenti che non avrebbero ancora lasciato la caserma Ederle ma lo faranno presto. E all'aeroporto di Roma Fiumicino si ripetono quotidianamente arrivi e decolli di aerei privi di insegne o delle compagnie Delta Airlines, World, Usair, diretti quasi sempre nel Kuwait dove portano, a seconda dei casi, militari oppure armamenti e materiali. DC10, qualche volta jumbo.
Alcuni arrivano in Italia dagli Stati Uniti, altri raggiungono il Golfo Persico, dopo lo scalo a Roma, direttamente dai campi di battaglia delle ultime imprese, dall'Afghanistan. A Fiumicino basta sistemarsi in via Coccia di Morto, poco oltre l'intersezione con via Lago di Traiano che segna la punta sudorientale dell'aeroporto Leonardo Da Vinci, per vedere nell'area merci la sagoma bianca dei misteriosi Dc10, con il timone azzurro e la scritta World. Decollano, in questi giorni, la mattina tra le 11 e le 13. E quei voli sono iniziati a gennaio, come ha riconosciuto giorni fa in parlamento il ministro Carlo Giovanardi, dunque ben prima del 21 febbraio quando il collega della difesa Antonio Martino ha informato le camere della concessione del via libera agli Usa per la rete infrastrutturale civile. Fiumicino è un aeroporto militarizzato, nel quale le denunce dei sindacati Filt-Cgil e Sulta non hanno ottenuto alcuna risposta. Nemmeno sulla natura dei carichi trasportati." [MAN]
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