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[cronologie di guerra] 28.03.03 nono giorno
by blicero Sunday, Mar. 30, 2003 at 1:39 PM mail:

[cronologie di guerra] 28.03.03 nono giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.

28 marzo 2003 : nono giorno
[fonti : quotidiani del 29 marzo 2003]

"Nel venerdì di preghiera si scatena dal cielo l'inferno su Baghdad 55
morti in un mercato bombardato, altre decine di vittime nella città
Infuria la battaglia a sud. Bufera al Pentagono, Rumsfeld minaccia Siria
e Iran Nella notte un missile iracheno su Kuwait City. Dirottato un
aereo in Turchia" [MAN]

"Catturati sette giornalisti italiani
Gli inviati fermati vicino a Bassora a un check-point iracheno. Saranno
rimpatriati?
Sette giornalisti italiani, tutti inviati al seguito delle truppe
inglesi, risultano dispersi da quando, ieri pomeriggio, sono stati
fermati a un posto di blocco della polizia irachena mentre cercavano di
[...] " [MAN]

La notizia si rivelera' infondata, con i sette giornalisti in viaggio
verso baghdad per regolarizzare il loro visto, senza gravi problemi.
http://italy.indymedia.org/news/2003/03/236907.php
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/03_Marzo/28/giornalisti.shtml
vedi anche la cronologia del 29 marzo

"I marines non sfondano
Gli anglo-americani sconcertati dalla tattica e dalla resistenza degli
iracheni, sprezzantemente definiti «squadre della morte terroriste». Nel
nord i kurdi spazzano via l'Ansar al-Islam. Missile su Kuwait City
M.M.
Gli iracheni, almeno sul fronte sud, tengono inchiodati gli
anglo-americani e gli anglo-americani tengono inchiodati gli iracheni.
Almeno questo ha detto ieri il generale Mike Jackson, comandante
militare inglrese. Sarà. Ma erano stati i pianificatori militari a
Washington, Londra e al Comando centrale del Qatar, che avevano previsto
e annunciato una passeggiata rapida e trionfale dal Kuwait fino a
Baghdad. Invece la resistenza irachena, intelligente e tosta, ha
sconvolto queste previsioni, costringendo a rivedere piani e tempi,
provocando il malumore di Bush e Blair.

I generali americani e inglesi, oltre che i marines sul campo, si sono
molto meravigliati e anche arrabbiati per le tattiche proprie della
guerriglia - le uniche possibili - adottate dalla resistenza irachena.
Il solito generale Usa Brooks, incaricato del quotidiano briefing ai
giornalisti al CentCom della base di as-Sayliyah di Doha, nel Qatar,
lamenta gli attacchi mordi-e-fuggi degli «irregolari», quelle che ha
definito ieri «squadre della morte di tipo terrorista». Come dire: così
non vale! Bastardi di iracheni, perché non vi fate sotto come dio e i
trattati militari comandano e affrontate a viso aperto i nostri marines
high-tech, i nostri super-carri, super-blindati, super-bombe -
intelligenti, a grappolo, anti-bunker, all'uranio... -,
super-elicotteri, super-bombardieri, super-missili, da uomo-a-uomo come
nel vecchio West, anziché attaccare i nostri carri con le mitragliatrici
montate sui pick-up Toyota o addirittura con i gloriosi kalashnikov e
inchiodarvi nelle città che noi abbiamo già conquistato, anzi liberato:
Bassora, Nasiriya, Samawah, Nayaf, Karbala?

Il generale William Wallace ha dovuto ammettereche «il nemico è diverso
da quello che avevamo previsto nei piani militari, a causa delle forze
irregolari». Il numero due del Pentagono, il falco Paul Wolfowitz ha
detto ieri che forse i pianificatori militari dell'Operazione Iraqi
Freedom hanno sottostimato un attimo la capacità e la determinazione a
battersi degli iracheni, o meglio «la volontà di questo regime di
commettere crimini di guerra» - ossia di difendere la propria terra da
un'aggressione militare straniera. Dal Qatar il generale Tommy Franks
gli ha risposto che loro non hanno sottostimato un bel niente e che le
truppe della coalizione tengono sotto pressione - o «inchiodato» - il
nemico iracheno «a nord, sud e ovest» infliggendogli, parole del
generale Brooks, «colpi punitivi» su tutti gli scacchieri del fronte. In
attesa del capitolo finale della guerra che si aprirà - anche se con un
certo ritardo sulla tabella di marcia - dentro Baghdad o intorno a
Baghdad se, come ha fatto capire ieri il ministro Rumsfeld, la sleale
resistenza irachena consigliasse i liberatori a cambiare tattica e
scegliere anziché di seppellire la città sotto un diluvio di bombe (sui
mercati rionali), di stringerla in un lungo assedio demolitore. Ma
Baghdad, come ha detto ieri il ministro della difesa iracheno, il
generale Sultan Hashim, «diventerà il cimitero dove sarà seppellito il
nemico e dove daremo agli Stati uniti e ai loro alleati una lezione che
non si dimenticheranno mai». Prima potevano apparire solo spacconate
senza senso reale. E' ancora così?

Sta di fatto che dopo 8 giorni di guerra, «nessuno degli obiettivi
propostisi è stato raggiunto», come scriveva ieri l'autorevole e
non-militarizzato Financial Times.

Ancora ieri, ottavo giorno, i nomi sono sempre quelli. A Bassora la
situazione è sempre più drammatica dal punto di vista umanitario e
bloccata dal punto di vista militare: le truppe inglesi circondano la
città ma il colonnello Vernon ha detto che quanto al suo controllo
«siamo ancora molto lontani». A Nasiriya i marines dicono di avere
occupato le periferie nord e sud della città e di avere catturato un
generale iracheno ma contemporaneamente si annuncia l'invio verso la
città di «migliaia di altri soldati Usa per unirsi alla battaglia», la
morte di un marine schiacciato da un tank amico mentre altri 4 o 12
marines sono dati per missing «nelle ultime ore».

A Samawah, fra Nasiriya e Najaf, è ancora in corso «una grossa
battaglia» fra i marines e 1500 vili fedayn. A Najaf «forti
combattimenti» sostenuti dai soliti 1500 fedayn, forse appoggiati da
reparti della Guardia repubblicana, ritardano la marcia dei liberatori
nonostante la notte su ieri sulla città santa sciita siano state
scaricati missili e bombe (gli iracheni parlano di cluster bombs che
avrebbero ucciso almeno 26 civili). A Karbala, l'altra città santa
sciita, i due schieramenti si fronteggiano preparando la «battaglia
decisiva» che dovrebbe scatenarsi entro 48 ore (ma lo dicevano anche
giovedì).

Le cose sembrano, al momento, più facili al nord, nel Kurdistan
iracheno, dove martedì i mille parà provenienti da Vicenza hanno aperto
il secondo fronte. Ieri mattina all'alba migliaia di peshmerga kurdi
dell'Upk e del Pdk, sostenuti dalle Special forces e dalla copertura
aerea Usa hanno spazzato via dalle loro enclaves montagnose di Ansar
al-Islam. Cittadine e villaggi sotto il controllo della milizia radicale
islamica, a cominciare dalla loro «capitale», Biara, sono stati
investiti. Una settantina i morti e gli altri in fuga sulle montagne.
Bombardamenti Usa (con qualche sporadica risposta irachena sulle
postazioni kurde) anche su Mossul e nei dintorni di Kirkuk, le due
preziose e ambite gemme petrolifere dove si sono attestate le divisioni
irachene in attesa dell'attacco.

Si contano i morti. Quelli iracheni sono centinaia, forse migliaia.
Quelli anglo-americani sono 48 (iersi sera un altro inglese ucciso dal
friendly fire). Ufficialmente. In realtà molti di più.

Si cominciano a sentire i primi effetti della guerra in Iraq fuori
dall'Iraq?

Ieri notte, oltre all'aereo turco dirottato, la notizia di un missile
arrivato ed esploso su Kuawait City, in uno shopping center nel
quartiere centrale di Suk Sharq. Terrore, per ora infondato, di testate
chimiche. Non si ha notizie - finora - di vittime. E' il primo missile
arrivato sul Kuwait dall'inizio della guerra. Gli altri, una decina,
erano stati intercettati dai missili Patriot." [MAN]

"01.59 Gli Usa fanno sapere che i bombardamenti hanno colpito i
principali centri di comunicazione a Baghdad

05.00 Continuano i bombardamenti su Baghdad

07.07 Le migliaia di soldati Usa partite per unirsi alle truppe nel sud
dell'Iraq e combattere a Nasiriya ripiegano per la controffensiva
irachena

07.17 Gli Stati Uniti dichiarano di aver catturato un generale iracheno
a Nasiriya,

07.50 Tony Blair annuncia che la guerra sarà lunga

09.00 Un portavoce britannico riferisce che le milizie irachene hanno
sparato sui civili che tentavano di fuggire da Bassora

10.45 Il ministro dell'informazione iracheno denuncia che giovedì i
bombardamenti su Baghdad hanno ucciso 7 civili e ferito 92 persone

11.10 I militari britannici tentano di inviare le autoambulanze a
Bassora, ma sono bloccate dalla difesa irachena

12.15 La televisione irachena mostra le immagini di tre iracheni
sospettati di essere spie americane

13.30 Arriva la prima nave britannica di aiuti umanitari nel porto di
Umm Qasr

15.45 I militari britannici affermano che gli iracheni nel sud del paese
sono «inchiodati»

16.40 Nel nord gli iracheni colpiscono Chamchamal, in risposta
all'avanzata dei kurdi verso Kirkuk

17.45 Muore un marine in un incidente vicino Nasirya, altri quattro sono
dispersi

18.45 L'Onu decide di ripartire con il programma «Oil for food», sospeso
all'inizio dei bombardamenti

19.15 Ingenti perdite di civili durante i bombardamenti su Baghdad

19.30 Rumsfeld accusa la Siria di fornire equipaggiamenti militari
all'Iraq, in quello che definisce «un atto di ostilità» " [MAN]

-----------------
"AIUTI UMANITARI"
-----------------

"Ripristinato l'inganno dell'«oil for food»
Approvata all'Onu la risoluzione «petrolio in cambio di cibo». Una
maschera per il dominio Usa dell'Iraq
STEFANO CHIARINI
Le Nazioni unite, invece di discutere della illegalità dell'attacco
all'Iraq e della necessità di fermarlo, su pressione della Gran Bretagna
e degli Usa desiderosi di mostrare il «volto umano» dell'impero, del
segretario generale Kofi Annan e di molti altri membri del Consiglio di
sicurezza, preoccupati della perdita di qualsiasi ruolo dell'organismo
internazionale hanno approvato all'unanimità, nonostante le riserve di
Russia e Siria, un'ambigua e politicamente pericolosa mozione per il
«rilancio della oil for food» (la risoluzione «cibo in cambio di
petrolio»). In realtà più che di un rilancio si tratta di un nuovo
tentativo per dare all'opinione pubblica l'illusione di un protagonismo
umanitario che non esiste, per pagare con i soldi stessi dell'Iraq gli
aiuti alla sua stessa popolazione ormai denutrita da 12 anni di embargo
e ora affamata dal crudele assedio angloamericano e per in qualche modo
cercare di ridimensionare le differenze sulla guerra, che vengono così
messe tra parentesi. La mozione delibera di utilizzare i 10 miliardi di
dollari derivati dalle vendite del petrolio iracheno versati su un conto
pegnato a New York e non utilizzati per il boicottaggio di Stati uniti e
Gran Bretagna, per inviare aiuti di emergenza all'Iraq, senza che i
responsabili del disastro sborsino un solo dollaro. La convenzione di
Ginevra stabilisce infatti che spetta alle potenze occupanti provvedere
alla sopravvivenza della popolazione nelle zone occupate. Un piano
Marshall umanitario con cui fare bella figura pagato con i soldi di
Baghdad. La ripresa e la gestione del programma «oil for food» ,
bloccato dal ritiro, non certo onorevole, da parte dell'Onu di tutto il
personale umanitario presente in Iraq (che in teoria dovrebbe servire
più in guerra che in pace) viene affidata interamente al segretario
generale delle Nazioni unite Kofi Annan che però ha messo subito in
guardia sui tempi lunghi dell'operazione. Una delle differenze
fondamentali tra la nuova risoluzione e la Oil for food originaria sta
nel fatto che il documento approvato ieri sembra voler tagliare fuori
completamente dalla gestione del programma il governo iracheno che sino
ad oggi lo aveva portato avanti nelle zone da lui controllate sulla base
di un protocollo firmato con le Nazioni unite. E poi chi esporterà il
petrolio dal terminale di Umm Qasr occupato dagli anglo-americani o dai
pozzi attorno a Kirkuk sui quali puntano le milizie kurde dei marines?
Gli uomini del gnerale Franks? Per ottenere l'unanimità la nuova mozione
dell'Onu fa genericamente riferimento al fatto che Kofi Annan dovrà
gestire il tutto «con le autorità competenti». Le truppe di occupazione
o il legittimo governo iracheno? In realtà il tutto sembra prefigurare
una sorta di mandato coloniale internazionale sull'Iraq. In pratica si
delinea un ritorno alla situazione politico-istituzionale che c'era alla
fine della seconda guerra mondiale quando le grandi potenze coloniali
discutevano tra loro confini e forma istituzionale del futuro Iraq.

Mentre la guerra infuria in tutto il sud e il centro Iraq, l'immondo
macello anglo americano si sta trasformando in una operazione benefica.
La «battaglia umanitaria» ha così avuto inizio anche in Iraq e alle
Nazioni unite. Qui, una volta approvata la risoluzione, il braccio di
ferro di sposterà sui modi di attuazione della risoluzione e sul
riconoscimento o meno della sovranità irachena. Per quanto riguarda gli
aiuti la «oil for food» continuerà ad essere in realtà una «oil for
nothing». L'embargo e la «oil for food» costituiscono infatti una delle
pagine più nere, nella storia delle Nazioni unite. Dal 1991 il Consiglio
di sicurezza dell'Onu ha rinnovato l'embargo all'Iraq, già imposto
subito dopo l'invasione del Kuwait, nonostante l'emirato fosse stato
ormai «liberato». L'embargo è divenuto così, provocando oltre un milione
e mezzo di vittime, un vero strumento di guerra. L'embargo riguardava
naturalmente sia le esportazioni di petrolio iracheno sia ogni tipo di
importazione, cibo e medicinali ne sarebbero stati esclusi ma in realtà
spesso venivano bloccati anch'essi dal veto di Stati uniti e Gran
Bretagna alla commissione delle sanzioni del Consiglio di sicurezza.

Nel 1996, di fronte allo sdegno, anche se minimo dell'opinione pubblica,
entrò in funzione la risoluzione «oil for food»: l'Iraq può vendere
parte del suo petrolio ma ogni singolo contratto di vendita dell'oro
nero e soprattutto di importazione di qualsiasi merce essenziale andava
approvato dalla Commissione per le sanzioni. I lavori della Commissione
sono segreti e né l'Iraq né la società che chiedeva di importare una
certa merce in Iraq potevano difendere le loro ragioni. Si trattava di
una sorta di parziale mandato coloniale sul petrolio e quindi
sull'economia irachena. I fondi derivati dalle entrate petrolifere vanno
a finire su un conto pegnato presso il banco di Parigi a New York.

Ma i fondi dell'Oil for food non andavano e non vanno certo, in gran
parte, a comprare generi alimentari e «beni essenziali». Un 30% era
destinato a pagare di danni di guerra, stimati in oltre 360 miliari di
dollari che l'Iraq dovrà pagare per i prossimi cento anni. L'entità e la
legittimità delle richieste per i danni di guerra veniva decisa
anch'essa da un'altra Commissione del consiglio di sicurezza, sotto
egemonia americana, di fronte alla quale l'Iraq non poteva neppure
presentare le proprie ragioni o sottolinearne la non fondatezza.
Un'altra parte andava e va a pagare le spese dell'Onu in Iraq e un'altra
l'affitto dell'oleodotto turco per portare l'oro nero. Alla fine alla
popolazione non rimaneva che poco più del 50% del totale. Ma solo
teoricamente. Con il veto alla commissione delle sanzioni Stati uniti e
Gran Bretagna hanno infatti impedito l'importazione di gran parte dei
pezzi di ricambio destinati a rimettere in piedi l'economia del paese.
Soprattutto per le proteste internazionali e le dimissioni degli stessi
responsabili delle operazioni umanitarie in Iraq, Dennis Hallyday e Hans
Von Sponeck (che hanno a più riprese affermato di non voler «essere
complici di un genocidio chiamato embargo sotto la copertura dell'Oil
for food») si sono inventati, a partire dal 2000 le «sanzioni
intelligenti». Un modo per rendere permanente l'embargo che, secondo la
risoluzione 687 del 1991, doveva essere rimosso una volta realizzato il
disarmo non convenzionale.

La risoluzione sulle sanzioni intelligenti toglie ogni limite alle
esportazioni di petrolio iracheno, stabilisce una «procedura veloce» per
esaminare i contratti di importazioni di alcune merci essenziali ma in
realtà lascia ogni potere decisionale su una immensa lista di prodotti,
di pezzi di ricambio e di merci alla Commissione per le sanzioni dove
Stati u niti e Regno unito continuano ad avere diritto di veto. Il
risultato è sotto gli occhi di tutti: dal dicembre del 1996, l'Iraq ha
esportato oltre 64 miliardi di dollari di petrolio e ha ricevuto
prodotti e merci essenziali per solamente 27 miliardi di dollari. Il
resto è andato a pagare i danni di guerra o sta ancora nel conto pegnato
a New York pronto ad essere rapinato dalla banda di Bush e Blair."
[MAN]

---------
ITALIETTA
---------


"L'ira americana del premier
Berlusconi ai ministri: «Il comando americano ha il diritto di mandare
le sue truppe dalle basi italiane in siti non indirettamente coinvolti
nella guerra». Prodi: «La presidenza italiana della Ue arriva in un
momento delicatissimo»
Romano Prodi. Contro Pera sulla guerra: «Sarebbe stato meglio se non
fosse cominciata affatto»
ANDREA COLOMBO
ROMA
Uno sfogo rivelatore quello a cui si è abbandonato ieri Silvio
Berlusconi, in sede di consiglio dei ministri. «L' opposizione - ha
detto ai suoi ministri il premier - vuole solo attaccare me e il
governo. Sono sempre più lontani dal paese e non pensano affatto
all'interesse nazionale». Non era un discorso generico quello del
Cavaliere. Alludeva al più grosso tra i tanti guai che lo affliggono da
quando i suoi alleati di Washigton hanno scatenato la guerra irachena,
al pasticcio dei parà americani arrivati in Iraq dritti dalla base
italiana di Vicenza. «Le basi - ha assicurato il capo del governo - non
saranno punti di partenza per i bombardamenti, per attacchi diretti, ma
se poi, in autonomia, i comandi statunitensi decidono di trasferire
alcune truppe da una base italiana a un altro sito, anche non
indirettamene coinvolto in operazioni militari, si tratta di un loro
diritto». Da notare quel «non indirettamente coinvolto in operazioni
militari» che dice tutto sullo stato d'animo in cui versa il premier.
Quella formula contorta e involuta adoperata persino con i suoi ministri
si traduce con un secco «direttamente coivolti nella guerra»: quel che
il premier non può e non vuole riconoscere. Non lo farà neppue la
settimana prossima, quando il governo riferirà prima in aula al senato
martedì, poi di fronte alle commissioni esteri congiunte delle due
camere, mercoledì. Insisterà nel negare l'evidenza. Si affiderà a
bizantinismi ellittici come quello usato ieri di fronte al governo.
Tenendo le dita ben incrociate nella speranza che la tempesta passi
presto.

Sarà compito dell'opposizione evitare che il governo riesca a
nascondersi ancora. L'ipotesi di una mozione unitaria di tutte le
opposizioni per impegnare il governo a chidere un cessate il fuco
umanitario, che consenta di arginare il disastro di Bassora, è
tutt'altro che peregrina. In quel caso Silvio Berlusconi non potrà fare
a meno di affrontare di nuovo il parlamento e il paese. E anche per
Carlo Azeglio Ciampi sarà più difficile restare in silenzio, come fa da
giorni. Non che il capo dello stato non si pronunci e non faccia capire
come la pensa. «Il ruolo dell'Onu - ha detto ieri - è oggi più che mai
fondamentale e irrinunciabile. L'Onu ha bisogno di aggiustamenti e
modifiche, ma che lo rafforzino, non che lo indeboliscano». Però
sull'ambiguità del governo italiano, Ciampi ha deciso di tenere la bocca
cucita, in nome probabilmemnte dell'«interesse nazionale», e fino a che
gli sarà possibile rispetterà l'impegno.

Il comune interesse ha cementato ieri anche l'accordo tra il premier e
Prodi. Il presidente europeo ha passato a Roma una giornata fitta di
incontri, conclusa dal summit con il capo dello stato. Ma il momento
decisivo è stato il vertice con Silvio Berlusconi. Sulla guerra il
presidente della commissione europea e quello italiano non la pensano
affatto allo stesso modo. Prodi lo ha dimostrato in modo clamoroso nel
corso dell'incontro con il presidente del senato, ieri mattina. Pera si
era appena augurato che «la guerra finisca presto», quando Prodi lo ha
interrotto seccamente: «Sarebbe stato meglio se non fosse cominciata
affatto».

Ma il semestre di presidenza italiana Ue è alle porte, la situazione non
potrebbe esere più difficile e Prodi, come Berlusconi, ha tutto
l'interesse nell'invertire la tendenza, nell'assicurare un successo, al
momento assai improbabile, della presidenza italiana. L'incontro tra i
due leader è stato quidi davvero cordiale, almeno nel senso che i due
perseguono lo stesso obiettivo: impegnarsi perché «l'Europa superi le
attuali divergenze e parli con una voce sola sulla scena
internazionale». Pieno accordo anche sulla necessità di non rallentare
l'allargamento della Ue in seguito alla spaccatura sulla guerra e sul
ricucire al più presto la lacerazione con gli Usa. Obiettivi sui quali
si pronuncia anche il presidente della camera Casini, con una proposta
concreta: che la Ue abbia in futuro un seggio stabile nel consiglio di
sicurezza dell'Onu.

Sono buoni propositi, che Prodi e Berlusconi condividono realmente. Ma
sul come realizzarli nessuno dei due ha idee chiare ed è lo stesso Prodi
ad ammetterlo: «Il semestre italiano è di importanza enorme in un
momento delicatissimo. Negare le difficoltà è inutile, ma c'è una
volontà comune di ricucire e ricostruire subito quanto è possibile».

L'appoggio, imposto dalle circostanze, di Ciampi e di Prodi garantisce a
Berlusconi un po' di respiro in un momento per lui difficilissimo. Alla
necessità di sfuggire al confronto con il parlamento e con il paese
sulla guerra, si è aggiunta ieri la divisione interna alla maggioranza
sui profughi, di cui riferiamo in altra parte del giornale e chepotrebbe
diventare clamorosa nelle prossime settimane." [MAN]

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NUOVI INDIZI
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"Le bombe di Camp Darby
Partono da Talamone gli ordigni destinati a Baghdad. E da Roma decollano
tre aerei al giorno
ALESSANDRO MANTOVANI
ANGELO MASTRANDREA
Il comando statunitense di Camp Darby (Pisa) potrebbe cominciare già
domani a imbarcare circa duecento container, carichi di bombe, su una
nave da guerra al largo del porto di Talamone (Grosseto). Si tratterebbe
di armamenti destinati agli aerei che stanno bombardando l'Iraq, forse
«forniture» supplementari legati cambiamenti nei piani d'attacco
anglo-americani. Alcune fonti, rigorosamente anonime, segnalano che i
container verrebbero trasferiti dalla base Usa di Camp Darby al
porticciolo dell'Argentario a bordo di tir e di camion, che non
viaggerebbero incolonnati ma ben separati l'uno dall'altro. In genere
gli americani spostano i materiali da imbarcare su navette
marittimo-fluviali, lungo il canale dei Navicelli e fino alla rada di
Talamone, ma stavolta cambierebbero sistema per ragioni di sicurezza.
Poi, come è già accaduto a Talamone, le operazioni di carico sulla nave
avverrebbero al largo, dove i container arriverebbero su piccole
imbarcazioni e chiatte. Secondo le segnalazioni raccolte, cominceranno
già fin da domenica notte e nelle notti seguenti. I container sarebbero
184. Da Talamone arriva anche una conferma piuttosto attendibile, ma
purtroppo parziale. Proprio una settimana fa il comando di Camp Darby
aveva chiesto alla locale compagnia portuale l'uso di una banchina in
cui poter stoccare «circa duecento container», il cui carico è rimasto
avvolto nel mistero perché non è mai arrivato. I lavoratori del porto, a
quanto pare, hanno rifiutato di lavorare per i militari Usa, come era
già successo ai cantieri navali di Livorno dove una nave militare
americana ha ripreso il mare giorni fa senza aver ottenuto le
riparazioni richieste.

Conferme ufficiali non ce ne sono. Di certo a Camp Darby sono arrivati
armi e mezzi militari in gran quantità, a fine febbraio, a bordo dei
famigerati treni che facevano zig-zag tra i blocchi pacifisti, ma gli
ufficiali della base pisana non diranno mai che fine hanno fatto o
faranno. E del resto a Vicenza, nel giorno in cui i suoi uomini
partivano per l'Iraq, il comandante dei parà Usa dichiarava a un gruppo
di «deputati-ispettori» che quei soldati si preparavano ad
«esercitazioni»: 48 ore dopo quel contingente decollato da Aviano
(Pordenone) veniva scaricato nei cieli del Kurdistan iracheno, per
aprire il nuovo fronte. Anche in queste ore in tutta Italia i movimenti
di uomini e mezzi destinati alla guerra prosegue in gran segreto,
«protetto» in larga parte dalla decisione del governo di concedere lo
spazio aereo, l'uso delle basi Usa e Nato con il solo limite
dell'esclusione di missioni dirette d'attacco (basta insomma che
facciano scalo altrove) e la disponibilità dell'infrastruttura di
trasporti.

A Vicenza la caserma dei parà sembra quasi svuotata e fonti americane
confermano che tutti gli uomini sono partiti, però in città non tutti ci
credono e anche ieri alcuni giornali davano notizia di contingenti che
non avrebbero ancora lasciato la caserma Ederle ma lo faranno presto. E
all'aeroporto di Roma Fiumicino si ripetono quotidianamente arrivi e
decolli di aerei privi di insegne o delle compagnie Delta Airlines,
World, Usair, diretti quasi sempre nel Kuwait dove portano, a seconda
dei casi, militari oppure armamenti e materiali. DC10, qualche volta
jumbo.

Alcuni arrivano in Italia dagli Stati Uniti, altri raggiungono il Golfo
Persico, dopo lo scalo a Roma, direttamente dai campi di battaglia delle
ultime imprese, dall'Afghanistan. A Fiumicino basta sistemarsi in via
Coccia di Morto, poco oltre l'intersezione con via Lago di Traiano che
segna la punta sudorientale dell'aeroporto Leonardo Da Vinci, per vedere
nell'area merci la sagoma bianca dei misteriosi Dc10, con il timone
azzurro e la scritta World. Decollano, in questi giorni, la mattina tra
le 11 e le 13. E quei voli sono iniziati a gennaio, come ha riconosciuto
giorni fa in parlamento il ministro Carlo Giovanardi, dunque ben prima
del 21 febbraio quando il collega della difesa Antonio Martino ha
informato le camere della concessione del via libera agli Usa per la
rete infrastrutturale civile. Fiumicino è un aeroporto militarizzato,
nel quale le denunce dei sindacati Filt-Cgil e Sulta non hanno ottenuto
alcuna risposta. Nemmeno sulla natura dei carichi trasportati." [MAN]

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