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L'altra america
by Edward Said: Wednesday April 02, 2003 at 09:29 PM mail:  

l'altra america

Da Le Monde diplomatique di Marzo...



Edward Said:

L'altra America


Il capo degli ispettori dell'Onu, Hans Blix, chiede altro tempo: Saddam Hussein collabora, sta distruggendo le sue armi secondo la risoluzione 1441. Ma non c'è più tempo, il presidente degli Stati uniti, ispirato dal dio degli eserciti, ha ormai lanciato l'ultimatum estremo: nessun se e nessun ma. Dieci giorni per disarmare, poche altre ore a Saddam per consegnarsi all'armata del bene. Poi, un diluvio di fuoco sull'Iraq; e indipendentemente dall'esito della seconda risoluzione del consiglio di sicurezza. A un simile progetto si oppongono la Francia, la Germania, la Russia, la Cina. Esse negano che vi siano le condizioni previste per l'uso della forza e insistono sulla possibilità attuale di ottenere pacificamente il completo disarmo di Baghdad. La spaccatura nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite non corrisponde all'opinione pubblica mondiale. Quest'ultima, nella sua immensa maggioranza, in Europa, nel mondo arabo e musulmano, nei paesi del Sud, esprime un'opposizione decisa alla guerra, come hanno mostrato le manifestazioni del 15 febbraio. Anche negli Stati uniti, al di là dell'unanimismo di facciata, reso possibile dall'incredibile sottomissione al potere dei media, si esprime un'altra America: quella che dice no all'avventura militare (si legga il dossier da pagina 6 a pagina 19).



Edward W. Said
Ai primi di febbraio la stampa ha riferito, in un breve trafiletto, la notizia di un fondo di dieci milioni di dollari donati dal principe saudita Walid Ibn Talal all'Università americana del Cairo per istituirvi una facoltà di studi americani. Subito dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, questo giovane miliardario aveva spontaneamente offerto dieci milioni di dollari alla città di New York, spiegando di voler rendere così un tributo alla città colpita, e invitando nel contempo gli Stati uniti a riconsiderare la loro politica mediorientale. Ovviamente, si riferiva al sostegno totale e incondizionato dell'America nei confronti di Israele, ma anche, più in generale, alla politica americana di denigrazione, o quanto meno di scarso rispetto per l'islam.

In un moto di isterica rabbia Rudolph Giuliani, allora sindaco di New York (la città con il più alto numero di residenti ebrei a livello mondiale) rispedì senza cerimonie l'assegno al principe: un gesto sprezzante, di ingiurioso dispetto, che oserei definire razzista, con il quale Giuliani intendeva evidentemente proiettare l'immagine di una New York intrepida e refrattaria a qualsiasi interferenza esterna; e al tempo stesso lusingare, con un atto tutt'altro che educativo, un elettorato ebraico generalmente ritenuto compatto ed unanime.
Nella sua rozzezza, il comportamento di Rudolph Giuliani ricalca un gesto compiuto nel 1995 (a due anni dalla firma degli accordi di Oslo) quando rifiutò di ammettere Yasser Arafat a un concerto alla Philarmonic Hall al quale erano invitate tutte le personalità presenti all'Onu. Atti del genere rientrano nel repertorio della teatralità di bassa lega in auge presso molti mediocri politici con cariche elettive nelle maggiori città americane, e in quanto tali sono perfettamente prevedibili. Quella somma era stata offerta a una città ferita da un attacco atroce, che certo avrebbe potuto farne buon uso; ma per il sistema politico americano e i suoi protagonisti Israele deve essere anteposto a qualsiasi altra considerazione. Giuliani aveva giocato d'anticipo, prima ancora di sapere quale sarebbe stata la posizione dell'agguerritissima lobby filo-israeliana. E quindi nessuno oggi può dire cosa sarebbe accaduto se il denaro non fosse stato rispedito al mittente.

Come ha scritto la nota narratrice e saggista Joan Didion in un articolo pubblicato dalla New York Review of Books (1), l'America ha sempre tentato, in base a un principio formulato per la prima volta dal presidente Roosevelt, di sostenere contemporaneamente, contro ogni logica, sia la monarchia saudita che lo stato d'Israele. Tanto che ormai «non siamo più neppure in grado di discutere di un qualsiasi tema suscettibile di scalfire i nostri rapporti con il governo in carica in Israele». Tutto questo rischia di confermare una visione in gran parte fittizia della realtà americana. Di fatto, da almeno tre generazioni i politici e leader arabi, così come i loro consiglieri (formatisi peraltro il più delle volte in università degli Usa) definiscono e orientano le politiche dei rispettivi paesi basandosi su una visione di questo tipo, incoerente oltre che fantasiosa.
Il concetto di fondo, certo, è che «gli americani» dettano legge in tutto e per tutto, ma non appena si passa a un livello più dettagliato s'incontrano le opinioni più variegate e contraddittorie, che vanno dagli Stati uniti come cospirazione ebraica all'immagine di un'America dispensatrice inesausta di buoni sentimenti e aiuti per gli oppressi, passando per quella di un paese interamente in mano a una sorta di figura olimpica: l'uomo bianco che siede alla Casa bianca.

Negli ultimi vent'anni, in occasione dei miei frequenti incontri con Yasser Arafat, ho tentato molte volte di fargli presente la complessità della società americana; un paese che certo non potrebbe essere governato come, ad esempio, la Siria. In questa realtà pervasa da ogni sorta di correnti, interessi, pressioni e retaggi storici, il modello di potere e di autorità che si è imposto è assai diverso, e merita di essere studiato. Avevo anche mobilitato il mio amico Eqbal Ahmad, ora scomparso, che fu non solo un profondo conoscitore della società americana, ma anche un insigne teorico e storico dei movimenti anti-coloniali e di liberazione nazionale nel mondo. Ahmad aveva approfondito tra l'altro i rapporti tra l'Fln algerino e il governo francese durante la guerra del 1954-62, e il comportamento adottato dai vietnamiti durante i negoziati con Henry Kissinger negli anni '70. In questo senso c'è un contrasto stridente tra i leader dei movimenti di liberazione dell'Algeria e del Vietnam, che conoscevano a fondo i loro avversari, e quelli palestinesi: la loro idea dell'America è quasi caricaturale, basata il più delle volte sul sentito dire o su una lettura superficiale di Time.

Quanto ad Arafat, la sua ossessione era riuscire a farsi ricevere personalmente alla Casa bianca per parlare con quel bianco tra i bianchi che per lui era William Clinton. E forse pensava che trattare con lui sarebbe stato come mettersi d'accordo con un Hosni Mubarak in Egitto, o un Hafez al Assad in Siria. Nel frattempo, però Clinton si rivelò una tipica creatura, oltre che un artefice della politica americana, capace di sedurre e confondere i palestinesi con il suo fascino e la sua capacità di manipolazione, a tutto danno di Arafat e dei suoi, senza che la loro visione semplicistica dell'America cambiasse di una virgola.

Nulla è mutato, in questo senso, negli ultimi cinquant'anni. E se si chiede loro come faranno a resistere, ad agire politicamente in un mondo ormai dominato da un'unica iperpotenza, i più alzano le braccia con il gesto disperato dell'amante deluso: con l'America, si sente dire spesso, non c'è niente da fare.
Ma un altro aspetto, più incoraggiante, s'intravede nella recente iniziativa del principe Walid di finanziare un centro di ricerche.
A questo proposito le mie sono soltanto ipotesi. So comunque per certo che a parte alcuni corsi o seminari di letteratura o politica americana tenuti, in ordine sparso, in varie università del mondo arabo, non è finora mai esistito, neppure presso istituzioni quali le università americane del Cairo e di Beirut, un Centro accademico specializzato nell'analisi sistematica e scientifica della società americana, della sua popolazione e della sua storia.
Ora, la mia tesi è che in un mondo dominato da una grande potenza ormai senza rivali né limiti di sorta, abbiamo tutti un bisogno vitale di conoscere quanto è umanamente possibile sulla sua vorticosa dinamica. E ritengo che questo debba comportare tra l'altro anche la padronanza dell'inglese, che manca a molti dei leader arabi. Certo, l'America è il paese di McDonald's, di Hollywood, dei jeans, della Coca-cola, della Cnn - prodotti d'esportazione che si trovano ovunque, in virtù della globalizzazione; ed è il paese delle grandi imprese multinazionali e della voglia di generi di consumo comodi e facili, peraltro diffusa, a quanto pare, in tutto il mondo.
Ma dobbiamo anche essere consapevoli delle fonti da cui tutto questo proviene, così come dell'interpretazione da dare ai processi culturali e sociali ad essi sottesi. Una comprensione che appare anche più importante da quando i pericoli di un'idea dell'America eccessivamente semplicistica, statica e riduttiva sono emersi in tutta la loro evidenza.

Nel momento in cui scrivo, gran parte del mondo è sotto il tallone degli Stati uniti (oppure ha stretto con essi un'alleanza esclusivamente opportunistica, come l'Italia o la Spagna), mentre l'iperpotenza si prepara a una guerra profondamente impopolare contro l'Iraq. Se non fosse per le dimostrazioni e le proteste tuttora in atto, esplose unicamente e interamente a livello popolare, in tutto il mondo il 15 febbraio scorso, questa guerra contro l'Iraq non sarebbe altro che un atto impudente di cinico, incontrastato dominio. Ma la contestazione da parte di tanti americani, scesi in piazza non diversamente dagli europei, asiatici, africani e latinoamericani, così come le prese di posizione della stampa di molti paesi, stanno quanto meno a dimostrare una presa di coscienza del fatto che l'America - o piuttosto l'esiguo gruppo di uomini oggi al governo del paese, si propone di conseguire l'egemonia mondiale.

Che fare allora?

Vorrei tratteggiare rapidamente lo straordinario panorama dell'America di oggi, visto da un cittadino americano come me che per anni ha potuto vivere confortevolmente in questo paese, pur conservando, grazie alle sue origini palestinesi, la visione comparativa di uno straniero.

Il mio proposito è semplicemente di suggerire alcuni strumenti di comprensione, di intervento e, se mi è concesso usare questo termine, di resistenza nei confronti di un paese che non è affatto monolitico come generalmente si tende a credere.

Religione, bandiera, storia patria
C'è una differenza tra l'America e i classici imperi del passato, che hanno anch'essi sempre ribadito la propria totale originalità e determinazione a non ricadere nelle ambizione smisurate degli imperialismi precedenti. Ciò che distingue in particolare gli Stati uniti è la loro sorprendente ostentazione di benignità, innocenza e di un quasi celestiale altruismo. A sostegno di questa pericolosa illusione è stata reclutata una nuova falange di intellettuali dal passato liberal o di sinistra, che storicamente si erano schierati contro le guerre americane all'estero, ma sono oramai disponibili a sostenere quest'idea di un impero della virtù e del bene. E lo fanno con una varietà di toni e di stili, che vanno dal patriottismo demagogico a un più o meno dissimulato cinismo. Certo, gli eventi dell'11 settembre hanno avuto un ruolo in questo voltafaccia.
Ma il fatto più sorprendente è che nel loro orrore, gli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono sono trattati come se fossero nati dal nulla, e non preparati in qualche paese d'oltre-oceano, reso farneticante dall'ubiqua presenza dell'America e dal suo interventismo.
Naturalmente, questa considerazione non va intesa come un alibi per il terrorismo islamico, che dev'essere condannato da ogni punto di vista. Va però notato che le analisi ortodosse dell'azione americana, in Afghanistan ieri e oggi contro l'Iraq, ignorano il senso delle proporzioni e non tengono minimamente conto della prospettiva storica.
Ciò che i nuovi «falchi liberal» fingono di non vedere è la massiccia, decisiva presenza della destra cristiana (così simile all'estremismo islamico nel suo fervore moralistico) negli Stati uniti di oggi.

La visione del mondo alla quale si ispira è tratta soprattutto dall'Antico Testamento, e coincide in larga misura con quella israeliana. Un aspetto peculiare dell'alleanza tra i neo-conservatori filoisraeliani e i cristiani estremisti è il particolare favore con cui questi ultimi vedono il sionismo. Di fatto, lo considerano come il modo migliore per convogliare tutti gli ebrei in Terra Santa e preparare la strada alla seconda venuta del Messia; allora gli ebrei dovrebbero scegliere tra la conversione al cristianesimo o l'annientamento. Ma queste tesi teologiche sanguinarie e violentemente antisemite di solito non vengono citate nei discorsi dei cristiani fondamentalisti americani, e sono ovviamente ignorate dagli ambienti ebraici filoisraeliani.
Tra tutti i paesi del mondo, l'America è quello che più esplicitamente si richiama alla religione. La vita della nazione - dalle scritte su edifici e monumenti a quelle incise sulle monete - è tutta permeata di riferimenti a Dio, frequenti anche nelle più locuzioni più comuni, quali «in God we trust», «God's country», «God Bless America». La base elettorale di George W. Bush comprende da 60 a 70 milioni di uomini e donne che come lui credono di aver incontrato Gesù e di essere sulla terra per compiere l'opera di dio nel paese di dio.
Taluni giornalisti e sociologi (come Francis Fukuyama) hanno sostenuto che la contemporanea religiosità americana nasce da un'aspirazione comunitaria e dalla nostalgia per un senso di stabilità da tempo perduto, dato che il 20% circa della popolazione cambia di continuo casa e lavoro.

Sono considerazioni che hanno indubbiamente un fondamento di verità; ma questa religiosità è caratterizzata soprattutto dalla tendenza alle illuminazioni profetiche e della fede incrollabile in una missione apocalittica, del tutto avulsa dalla concretezza e complessità del mondo reale. Un altro fattore determinante è rappresentato dall'enorme distanza che separa gli Stati uniti dalle turbolenze del resto del mondo. I soli due stati confinanti sul continente americano, il Canada e il Messico, non hanno una grande capacità di moderare gli slanci.

Nel loro insieme, questi fattori convergono in un'ideologia che alimenta l'idea di un'America virtuosa e benefica, portatrice di libertà e di progresso economico e sociale: un'immagine onnipresente nella vita quotidiana, tanto da apparire come una realtà assolutamente naturale e incontrovertibile.
America è sinonimo del Bene, di perfetta lealtà e perfetto amore.
E una venerazione non minore è tributata ai Padri fondatori e alla Costituzione - che in effetti è un documento straordinario, ma pur sempre di origine umana. Il retaggio di quell'epoca è profondamente sentito come il punto d'ancoraggio dell'autenticità americana.

In nessun altro paese la bandiera ha una tale valenza iconografica.
La si vede dovunque - sui taxi, sui risvolti delle giacche, sulle facciate delle case, alle finestre, sui tetti. È la principale incarnazione della nazione, simbolo dell'eroica resistenza di una comunità assediata da nemici indegni. Il patriottismo rimane tuttora la prima delle virtù americane, ed è strettamente legato allo spirito religioso e alla convinzione di essere sempre dalla parte della ragione, non soltanto all'interno dei propri confini ma dovunque nel mondo. Un patriottismo che può manifestarsi persino nell'atteggiamento consumistico - come quando gli americani vennero esortati, dopo l'11 settembre, a spendere di più, alla faccia dei malvagi terroristi.

Ecco dove il presidente Bush e i suoi sottoposti - i vari Donald Rumsfeld, Colin Powell, John Ashcroft e Condoleezza Rice - hanno potuto attingere a piene mani per mobilitare l'apparato militare destinato a fare la guerra a un paese a 7.000 km di distanza, con l'obiettivo di «farla finita con Saddam», come ormai si va ripetendo dovunque. A tutto questo sono però sottesi i meccanismi capitalistici, che oggi stanno andando incontro a cambiamenti non solo radicali, ma a mio parere anche destabilizzanti. L'economista Julie Schor ha dimostrato (2) che gli americani lavorano più a lungo di trent'anni fa, guadagnando relativamente di meno. Ma finora, a livello politico i dogmi liberisti dell'economia di mercato non sono mai stati oggetto di una discussione seria e sistematica. Come se a nessuno fosse mai venuto in mente che qualcosa andrebbe cambiato in un sistema in cui la stretta alleanza tra il governo federale e il grande capitale non riesce neppure ad assicurare ai cittadini americani un minimo di copertura sanitaria universale e un livello di istruzione decente.

Ma le notizie di borsa hanno la precedenza su qualsiasi analisi o revisione del sistema.
Ho cercato di elencare, sia pure sommariamente, gli elementi costitutivi di quel consenso americano sfruttato dai politici, che procedono a forza di semplificazioni, riducendo tutto a una serie di slogan.
Ma in questa società, che di fatto è straordinariamente complessa, esistono anche numerose correnti contrarie e alternative.
Le crescenti resistenze alla guerra, che il presidente tenta di minimizzare, provengono da un'altra America, più informale, in gran parte ignorata o travisata dai grandi media - dal New York Times alle emittenti televisive, passando per la maggior parte delle maggiori riviste e case editrici.
Non si era mai arrivati a una così spudorata, scandalosa complicità tra l'informazione televisiva e le smanie belliciste del governo in carica. Ormai i telespettatori che seguono abitualmente la Cnn o di una delle altre grandi emittenti generaliste parlano con eccitazione del malefico Saddam e di quanto il «nostro» intervento sia urgente e necessario, per fermare il mostro prima che sia troppo tardi.
Come se non bastasse, i vari canali sono ormai monopolizzati da veterani dell'esercito, esperti di terrorismo e politologi specializzati nelle questioni mediorientali, che il più delle volte non conoscono neppure una delle lingue della regione, e magari non hanno mai messo piede in Medioriente. Ma non per questo rinunciano ad arringare i telespettatori, in un gergo infarcito di luoghi comuni, sostenendo che «noi» dobbiamo occuparci dell'Iraq. Senza dimenticare di attrezzare le nostre finestre e le nostre automobili per proteggerci in caso di attentati con gas letali.

Questo consenso, proprio perché scientemente costruito e gestito, è come immerso in una sorta di presente atemporale, per il quale il concetto stesso di storia è anatema. Nei discorsi pubblici, il termine stesso di storia è usato sistematicamente in senso spregiativo, come indica una locuzione diffusa negli Stati uniti: «you're history» (sei un reperto storico, un pezzo da museo, cioè un rottame). D'altra parte, la storia nella sua accezione positiva è ciò che ogni cittadino americano è tenuto a credere, senza alcun tipo di analisi storica o di spirito critico, del suo paese (ma non del resto del mondo, definito come «vecchio», generalmente arretrato e quindi irrilevante).

A questo riguardo si può notare tuttavia una curiosa contraddizione.
A livello popolare, è come se la gente pensasse che gli Stati uniti siano in qualche modo al disopra, o al di là della storia; ma al tempo stesso, è assai diffusa una vera e propria ossessione per ogni sorta di riferimenti storici, dalle più infime tematiche regionali fino ai vasti orizzonti degli imperi mondiali. Vale la pena ricordare un esempio in questo campo.
Dieci anni fa è esplosa nella sfera pubblica una grossa polemica sull'insegnamento della storia nelle scuole. Da parte di uno degli schieramenti si sosteneva che la storia degli Stati uniti dovesse essere insegnata senza ombre né sfumature, come una vicenda eroica, edificante per le giovani menti.
In altri termini, ciò che importava non era la verità storica ma la «correttezza ideologica», per formare cittadini docili e pronti ad accettare per buoni una serie di assiomi immutabili sugli Stati uniti, sia sul piano interno che nei loro rapporti con il resto del mondo. Perciò i libri di testo dovevano essere epurati da ogni elemento di divisione indotto dal cosiddetto «postmodernismo» (lo schiavismo, la condizione delle minoranze, delle donne).
Ma il tentativo di imporre criteri tanto risibili non è andato in porto.
Ecco come Linda Symcox ha riassunto l'intera vicenda: «Viene da pensare che questo tentativo [neo-conservatore] sia ispirato a un malcelato desiderio di inculcare agli studenti una visione della storia consensuale e relativamente aconflittuale. Ma il tutto è finito con una netta inversione di rotta. Grazie all'opera degli storici e dei sociologi che hanno curato la redazione del testo, il documento destinato a impartire le direttive per l'insegnamento si è trasformato in veicolo di quella stessa visione pluralistica che il governo aveva tentato di contrastare. Così, in definitiva il progetto di imporre una versione consensuale della storia (...) è stato contrastato da storici non indifferenti a temi quali la giustizia sociale e la redistribuzione del potere, e che ritengono necessaria una lettura più articolata del passato (3)».

In una sfera pubblica per tanti versi dominata dai mass media a più ampia diffusione ci si imbatte in una serie di locuzioni e di schemi ai quali ho dato il nome di «narrathemes», che impacchettano, strutturano e finiscono così per controllare ogni dibattito, dietro una parvenza di diversificazione e di pluralismo. Mi limiterò a ricordarne alcuni che in questo periodo mi hanno particolarmente colpito. Innanzitutto, l'uso insistente della prima persona plurale, di quel «noi» che dà per scontata un'identità nazionale, rappresentata senza contrasti di sorta dal «nostro» presidente, dal «nostro» segretario di stato, dalle «nostre» forze armate nel deserto, dai «nostri» interessi, solitamente intesi come intrinsecamente innocenti, di pura e semplice legittima difesa e senza alcun tipo di secondi fini.

La foresta del dissenso
Secondo un altro «narratheme», la guerra del Vietnam con i suoi attacchi particolarmente devastanti era dovuta a un attacco di autolesionismo, a un impulso di «autodistruzione reciproca», secondo un'espressione memorabile di James Carter. Ma solitamente nei «narrathemes» i riferimenti storici vengono evitati con ogni cura, in particolare per quanto riguarda i precedenti imbarazzanti come il sostegno fornito a suo tempo dagli Stati uniti sia a Saddam Hussein che a Osama bin Laden.
Ancora più sorprendente è la censura, persino istituzionalizzata, di due aspetti determinanti della storia americana: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli amerindi.
Washington vanta un importantissimo Museo dell'Olocausto, ma sulle tragedie di quei popoli non esiste nulla del genere, in nessuno stato del paese.
Terzo esempio: la cieca convinzione che ogni contestazione della politica statunitense nasca dall'«antiamericanismo», causato solo dall'invidia per la «nostra» democrazia (o libertà, ricchezza, potenza) oppure sia da ascrivere - come nel caso del no della Francia alla guerra contro l'Iraq - alla pura e semplice nefandezza degli stranieri.
In questo contesto si insiste molto nel ricordare che nel XX secolo l'America salvò per ben due volte l'Europa, dando per scontato che le truppe americane fossero le sole ad aver fatto la guerra sul serio, mentre gli europei se ne stavano per lo più comodamente seduti a guardare.
Quanto poi alle regioni nelle quali gli Stati uniti hanno le mani in pasta da mezzo secolo - come in Medioriente e in America latina - il «narratheme» che domina la scena, praticamente incontrastato, è quello di un'America onesta e leale nei suoi sforzi di intermediazione per il bene di tutti.
Non resta molto spazio per le questioni quali i profitti finanziari, il saccheggio delle risorse, l'aspirazione a un potere egemonico, i cambiamenti di regime ottenuti con la forza e/o con la sovversione (come ad esempio in Iran nel 1953 o in Cile nel 1973). E se mai qualcuno si azzarda a sollevare questi temi, le sue parole sembrano cadere nel vuoto.

Se mai si sfiorano queste realtà, il linguaggio è quello aberrante dei think tanks e del governo, fatto di locuzioni quali «soft power» e «proiezione della visione americana». Ancora più fitta è la cortina di silenzio su realtà straordinariamente inique e crudeli, nella quali l'America ha responsabilità dirette, come ad esempio gli attacchi di Ariel Sharon contro i civili palestinesi, o le tremende conseguenze delle sanzioni contro l'Iraq per la popolazione, o ancora le pratiche punitive disumane dei governi della Colombia e della Turchia, che godono dell'appoggio degli Stati uniti. Tutti questi temi sono considerati non pertinenti in una discussione «seria» di politica estera.

C'è infine il «narratheme» che dà per scontata la saggezza e autorità morale ad alcuni noti personaggi, quali ad esempio Henry Kissinger, David Rockefeller e l'intero gruppo dei responsabili dell'attuale amministrazione, riaffermata dovunque con martellante insistenza e senza neppure l'ombra di un dubbio. Scarsi commenti e nessuna critica ha suscitato ad esempio la recente nomina a cariche governative importanti di due personaggi (Elliott Abrams e John Pointdexter) già condannati per reati commessi ai tempi dell'Irangate.
Quest'accettazione acritica dell'autorità passata e presente, anche nei casi in cui si è coperta di fango, si esprime in forme diverse - dal linguaggio ossequioso dei vari commentatori e opinionisti fino al rifiuto totale di vedere nel personaggio di turno qualcosa di diverso dell'impeccabile doppiopetto scuro con camicia bianca e cravatta rossa. A tutto questo è sottesa la fede americana nel pragmatismo, visto come il sistema filosofico più adatto a gestire la realtà: una posizione non solo antimetafisica e antistorica, ma curiosamente anche antifilosofica.
Questa specie di antinominalismo postmoderno costituisce, accanto al pensiero analitico, una corrente di pensiero molto influente nelle università americane. Ad esempio, nell'università in cui insegno, pensatori quali Hegel o Heidegger sono presenti nel programma delle facoltà di letteratura o di storia dell'arte, ma si studiano pochissimo in quella di filosofia. Questa serie di miti, di «master stories», viene diffusa con impressionante insistenza dalle grandi reti di comunicazione americane recentemente riorganizzate e mobilitate, in particolare ad uso e consumo del mondo arabo ed islamico.
Sono invece deliberatamente oscurate le tradizioni del dissenso, che costituiscono una sorta di contromemoria ufficiosa: tradizioni che si spiegano in larga misura con il carattere della società americana, formata essenzialmente da immigrati. Forme di dissidenza si fanno strada sia negli interstizi che all'interno stesso dei «narrathemes».
Purtroppo, all'estero raramente i commentatori tengono in debito conto questa «foresta del dissenso», di segno sia progressista che reazionario: questi flussi di opinione rendono a volte più evidenti, agli occhi di un osservatore attento, i collegamenti, non sempre facili da individuare, tra i vari «narrathemes».

Un esame attento delle componenti della fortissima resistenza contro la guerra contro l'Iraq voluta da Bush farebbe emergere un quadro dell'America assai diverso, estremamente mobile e molto più aperto alla cooperazione internazionale e al dialogo. Sorvolerò sul considerevole numero di persone che si oppongono alla guerra perché ne temono i costi, in termini sia finanziari che di vittime americane, per non parlare delle ricadute su un'economia già in crisi; e non mi soffermerò neppure sulla massa magmatica dei conservatori, per i quali l'America è calunniata da perfidi stranieri, dall'Onu e da comunisti senza timor di Dio, o sulla componente libertaria e isolazionista, strana coalizione tra destra e sinistra che non è il caso di menzionare in questo contesto.
Un'altra categoria che mi limiterò a citare brevemente è quella degli studenti: una parte importante della popolazione universitaria diffida profondamente della politica estera americana, praticamente su tutti i piani, ma soprattutto per quanto attiene alla globalizzazione economica.
Questi giovani, animati da principi morali e per certi aspetti assai vicini all'anarchia, hanno tenuto vivo nelle università americane l'interesse per i grandi temi quali la guerra del Vietnam, l'apartheid in Sudafrica e i diritti civili negli Stati uniti.
Restano da esaminare vari gruppi legati ad esperienze e prese di coscienza particolari. In Europa, in Africa o in Asia questi gruppi verrebbero definiti di sinistra; ma negli Stati uniti la forza del sistema bipartitico è tale che dalla fine della seconda guerra mondiale non c'è più stato nulla di simile a un movimento socialista o di sinistra a vocazione parlamentare.
Citerò innanzitutto l'ala sinistra della comunità afro-americana, formata da gruppi urbani che si mobilitano contro la brutalità della polizia, le discriminazioni in campo occupazionale, il degrado dell'habitat e del sistema scolastico, guidati e rappresentati da personalità quali il reverendo Al Sharpton, Cornel West, Mohammed Ali, Jesse Jackson (per quanto in ribasso come leader) e vari altri che si richiamano a Martin Luther King Jr.
A questi movimenti si associano numerose altre collettività etniche di latinoamericani, amerindi e musulmani.
Certo, questi gruppi impegnano molte delle loro energie per tentare di farsi strada negli ambienti del potere locale o nazionale, per partecipare a trasmissioni televisive prestigiose o aggiudicarsi qualche seggio nei consigli d'amministrazione di fondazioni, università o grandi imprese.
Ma nel complesso, non sono mossi tanto dall'ambizione quanto da un senso d'ingiustizia e di rivolta contro le discriminazioni; e non sono quindi mai completamente integrabili nel «sogno americano», riservato soprattutto ai bianchi e al ceto medio.
È il caso di notare una particolarità interessante di alcuni personaggi quali ad esempio il reverendo Al Sharpton o il verde Ralph Nader, ormai più o meno tollerati, tanto da essersi conquistati una certa visibilità, che però non si prestano ad essere cooptati perché troppo intransigenti, o non sufficientemente interessati al tipo di premi abitualmente offerti dalla società statunitense.

Tra le componenti del dissenso va citata una parte preponderante del movimento delle donne, impegnate su temi quali il diritto all'aborto, la lotta contro le violenze e molestie sessuali e la parità sul lavoro.
Anche alcune associazioni professionali (in particolare di medici, avvocati, scienziati, universitari, più alcuni sindacati e un settore del movimento ambientalista) contribuiscono alla dinamica dei gruppi contro corrente, pur rimanendo legate, in quanto corpi istituzionalmente costituiti, all'ordine sociale e a tutto ciò che le sue esigenze comportano. Un paese percorso da conflitti Non va poi sottovalutato il ruolo delle Chiese organizzate, divenute in molti casi veri e propri vivai del dissenso e della volontà di cambiamento.
I fedeli di queste Chiese vanno nettamente distinti dai cristiani fondamentalisti e dai tele-evangelisti di cui già si è parlato.
I vescovi e i laici cattolici ad esempio, così come il clero della Chiesa episcopale, i quaccheri e il sinodo presbiteriano - nonostante gli scandali sessuali nel primo caso e la perdita d'influenza negli altri tre - hanno adottato in materia di pace e di guerra posizioni straordinariamente progressiste, protestando contro le violazioni dei diritti umani perpetrate all'estero, contro l'ipertrofico bilancio militare e la politica economica neoliberista, che fin dal primi anni '80 ha portato alla mutilazione dei servizi pubblici.
Storicamente, una parte della comunità ebraica organizzata è da sempre impegnata nella lotta per i diritti delle minoranze, sia negli Stati uniti che all'estero.
Ma, dopo Reagan e l'ascesa dei neoconservatori, le sue potenzialità positive sono in gran parte soffocate dall'alleanza della destra religiosa statunitense con Israele, e dalla febbrile attività delle organizzazioni sioniste, sempre pronte a tacciare di antisemitismo chiunque critichi la politica israeliana (si è sentito persino agitare lo spettro di una nuova «Auschwitz americana»).

Molti altri gruppi e individui che aderiscono ad assemblee, riunioni e manifestazioni pacifiche hanno preso le distanze dall'alienante coro patriottico del dopo 11 settembre, facendo quadrato in difesa delle libertà civili (tra cui la libertà d'espressione) minacciate dall'Us Patriot Act. Anche il ceto medio, che vive una situazione di disagio costante, è sempre più sensibile agli appelli contro la pena capitale e contro vari abusi (dei quali l'esempio più noto è il campo di detenzione di Guantanamo), e tende a condividere la diffidenza verso le autorità in genere, siano esse militari o civili, e la perplessità a fronte di un sistema carcerario sempre più privatizzato (la percentuale dei detenuti rispetto alla popolazione è la più alta del mondo, e nelle carceri quella degli uomini e delle donne di colore è proporzionalmente altissima).

Tutto questo si riflette nella confusa mischia del cyberspazio, luogo di svolgimento di inarrestabili contese tra l'America ufficiosa e quella ufficiale. In una situazione economica in continuo deterioramento in cui il fossato tra ricchi e poveri si allarga sempre più, e a fronte degli incredibili sperperi, della corruzione ai più alti livelli della società e delle privatizzazioni selvagge, che mettono e repentaglio quanto rimane del sistema di sicurezza sociale, le tanto celebrate virtù del sistema capitalistico appaiono sempre più indifendibili.

Davvero l'America è unita intorno al suo presidente, alla sua politica estera bellicista, al pericoloso semplicismo della sua visione economica?

O in altri termini: l'identità americana è stata veramente stabilita una volta per tutte? E il mondo dovrà quindi adattarsi a convivere con l'immensa potenza militare di un blocco monolitico che ha dispiegato le sue truppe in decine di paesi e bombarda a destra e a manca chiunque non si pieghi al suo volere, con il pieno assenso di «tutti gli americani»?

Ho cercato di suggerire qui un altro modo di vedere l'America: un paese percorso da conflitti, ove la contestazione è molto più vivace di quanto generalmente si creda. Un paese che sta vivendo una grave crisi d'identità. Avrà anche vinto la guerra fredda, come oggi ci si compiace di dire, ma le conseguenze di questa vittoria sul piano interno sono tutt'altro che univoche.
E la lotta non è finita.
Limitandosi a concentrare l'attenzione sul potere centrale, politico e militare si perde di vista una dialettica interna tuttora in atto, e ben lontana dall'essere risolta.

C'è un grosso errore che accomuna la tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia e quella di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà: hanno entrambe il torto di considerare la storia delle culture come se ognuna delle sue realtà fosse chiaramente delimitata nello spazio e nel tempo.
Mentre di fatto, il contesto politico- culturale è soprattutto un terreno di lotta costante sulle identità, la definizione di sé e la proiezione nel futuro. Ogni cultura - e in particolar modo quella americana, che è essenzialmente una cultura di immigrati - è formata da numerose componenti che si accavallano e si sovrappongono in vari modi.
E forse, una delle conseguenze «collaterali» della globalizzazione è il sorgere di comunità transnazionali, che si mobilitano su tematiche di carattere globale - come nel caso dei movimenti impegnati per i diritti umani, per la liberazione della donna o contro la guerra.

Gli Stati uniti non sono affatto isolati da tutto questo. L'importante è saper vedere al di là delle apparenze, e non lasciarsi scoraggiare da una superficie apparentemente compatta, per collegarsi alle varie correnti del dissenso su temi che interessano tanta parte dell'umanità su questo pianeta. Da questo diverso modo di guardare all'America possono sorgere motivi di speranza e d'incoraggiamento.



note:

* Docente di letterature comparate alla Columbia University (Stati uniti), autore in particolare di Orientalismo, Feltrinelli, Cultura e Imperialismo, Gamberetti, e dell'autobiografia Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli.

(1) 16 gennaio 2003.
(2) The Overworked American: the unexpected decline of leisure, Basic Books, New York, 1991.

(3) Linda Symcox, Whose history? the Struggle for national Standards in America classrooms, Teachers College Press, New York, 2002.
(Traduzione di E. H.)

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molto interessante marcello Wednesday April 02, 2003 at 09:55 PM
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