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[cronologie di guerra] 06.04.03 diciottesimo giorno
by blicero Monday April 07, 2003 at 10:23 PM mail:  

[cronologie di guerra] 06.04.03 diciottesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.

06 aprile 2003 : diciottesimo giorno
[fonti : quotidiani del 7 aprile 2003]


"«Bloccate tutte le strade per Baghdad» Gli Usa annunciano l'inizio
dell'assedio Atterra il primo aereo americano Attesa e combattimenti
nella città Gli inglesi entrano a Bassora Fuoco amico: uccisi 18
peshmerga kurdi Fuoco diplomatico: colpito il convoglio
dell'ambasciatore russo in fuga" [MAN]


"Le armi proibite non ci sono
Erano il movente primo della guerra all'Iraq: le armi di distruzione di
massa. Finora però non ce n'è traccia. Ieri il portavoce del Comando Usa
in Qatar lo ha ammesso: «Non le abbiamo ancora trovate»" [MAN]

"Atterraggio a Baghdad
Gli Usa: abbiamo il pieno controllo dell'aeroporto. Presa Kerbala
MA.FO.
Le truppe americane controllano ormai tutti gli accessi a Baghdad meno
uno, ha affermato ieri sera il colonnello Wim Grimsley della 3a
divisione di fanteria Usa: solo la strada numero 2, quella che si dirige
a nord alla città petrolifera di Kirkuk, resta fuori dal controllo
americano. L'accerchiamento di Baghdad sarebbe dunque quasi completato,
e forse per dimostrare di avere il pieno controllo della situazione ieri
sera il primo aereo militare Usa è atterrato all'aereoporto
internazionale di Baghdad. Anche questa notizia è di fonte Usa, viene
dal Comando centrale a Doha, Qatar: si tratta di un aereo da trasporto
C-130, è atterrato un'ora dopo il tramonto. Non ci sono altre conferme o
testimonianze dirette dell'atterraggio, e non è stato detto se l'aereo
trasportava qualcosa o era solo per saggiare la tenuta e la sicurezza
delle piste. I combattimenti attorno a Baghdad sono intensi, non più
solo dal cielo ma da terra: mortai, artiglieria, lanciarazzi. Parte dei
combattimenti sono stati attorno a un ponte stradale su un affluente del
Tigri, nei sobborghi a sud-est della città. Un portavoce Usa ha detto
che circa duemila soldati iracheni sono stati uccisi da quando è
cominciato l'assalto ai sobborghi di Baghdad, cioè da sabato mattina. Il
Comitato internazionale per la Croce Rossa riferisce che gli ospedali
sono inondati di feriti, fanno fatica a tener dietro al ritmo degli
arrivi: «durante i combattimenti arrivano fino a un centinaio di feriti
all'ora». Preoccupa la situazione degli ospedali nei sobborghi di
Baghdad, come Abu Ghreib o Maymudiyah, e di città vicine come Hilla,
Kerbala e Al Anbar: fanno fatica a far fronte all'arrivo di feriti,
anche perché con i combattimenti in corso non è più possibile trasferire
i casi gravi a Baghdad.

Intensi combattimenti sono continuati ieri per il secondo giorno a
Kerbala, città santa sciita a un centinaio di chilometri da Baghdad. I
corrispondenti delle agenzie stampa riferiscono di intensi combattimenti
urbani tra marines americani e miliziani iracheni. La 101esima divisione
aerotrasportata Usa si scontra a circa 500 Fedayyn Saddam, le milizie
scelte (sono i portavoce americani a quantificare così il nemico). E' un
combattimento casa per casa, con irruzioni e perquisizioni in case dove
però si trovano anche civili. In serata un portavoce delle forze Usa ha
affermato che ormai i marines hanno il controllo di Kerbala: il bilancio
sarebbe di 400 miliziani uccisi (400 su 500: se queste cifre saranno
confermate bisognerà dire che le truppe Usa hanno sterminato il nemico).
I portavoce Usa parlano di un soldato americano morto nei combattimenti.

La battaglia di kerbala viene dopo quella di Najaf, l'altra città santa
sciita: in quel caso le due parti si sono reciprocamente accusate di
aver usato i siti religiosi per sparare al nemico.Sul fronte
settentrionale, sembra che le forze irachene abbiano lanciato una
controffensiva, dopo parecchi giorni di avanzata dei guerriglieri kurdi
peshmerga, appoggiati da forze speciali e dall'esercito regolare Usa
(oltre che dall'aviazione) verso Mosul e verso Kirkuk. Ma l'evento della
giornata è un caso di «fuoco amico»: un raid aereo americano ha colpito
un convoglio di combattenti kurdi e forze speciali americane, sulla
strada che da Arbil scende a Mosul. Uccisi 18 combattenti kurdi, è
ferito in modo grave anche il fratello del leader del Partito
Democratico Kurdo Massoud Barzani.

Sempre sul fronte settentrionale, le forze kurde affermano di aver preso
la città di Ain Sifni, sulla strada per Mosul. " [MAN]

" Baghdad in trappola
Scatta il coprifuoco nella città sotto assedio, presidiata dai miliziani
di Saddam e dalla quale non è più possibile uscire. Un tank Usa
completamente bruciato, i crateri delle bombe e le carcasse dei blindati
ricordano la battaglia nel quartiere di al-Dora
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
La sagoma di un carro armato Abrahms completamente carbonizzato ci
appare mentre scendiamo da un cavalcavia verso la strada che porta a
Hilla e Kerbala. Ci troviamo nel quartiere di al-Dora, alla periferia
meridionale di Baghdad, poco lontano in linea d'aria dall'aeroporto.
Sullo sfondo le nuvole di fumo nero che si alzano dalle trincee di
petrolio incendiate, sul terreno tutti i segni di una feroce battaglia.
Un vero teatro di guerra: l'asfalto della strada a due corsie è
completamente dissestato dai cingolati, crateri provocati dalle bombe,
l'Abrahms deve essere stato colpito da una bomba anticarro e nel
tentativo di fare marcia indietro ha lasciato profondi solchi sul
selciato. Ma evidentemente era troppo tardi. I militari iracheni
ammassati sul carro armato per festeggiare il successo agitano i loro
fucili - sono gli eroi del giorno - inneggiando al raìs con il solito
slogan: «con l'anima e con il sangue ci sacrificheremo per te Saddam».
Dicono di aver distrutto altri sei carri armati Usa, ma oltre a quello
che si trova ancora in mezzo alla strada, in lontananza ne vediamo solo
un altro, gli altri sostengono di averli già portati via, finita la
battaglia, sabato mattina. Ma anche gli iracheni devono aver subito
pesanti perdite: sul terreno tutto intorno carri armati bombardati, un
cannoncino abbandonato, le carcasse di mezzi da trasporto di vario
genere, anche un autobus che sosta sulla corsia opposta è stato colpito.
Alcuni degli edifici che si trovano lì intorno sono stati colpiti
durante la battaglia. Dietro un gruppo di palme si vede una costruzione
affollata di militari, non sembra che appartengano alla Guardia
repubblicana. Su un altro edificio si vede una postazione della
contraerea. Molti militari sparsi ai lati della strada. Nessuna traccia
dei caduti in battaglia, né iracheni né americani. Gli americani del
carro armato sono rimasti carbonizzati come il loro mezzo, dicono gli
iracheni. Sappiamo che molti iracheni sono rimasti uccisi e che
centinaia sono ricoverati negli ospedali di Yarmuk e di al-Kindy. Mentre
ci troviamo sul teatro della battaglia ormai finita non si sentono i
cannoni che tirano sulla zona dell'aeroporto, ma ancora per poco. Nel
cielo improvvisamente appare un cacciabombardiere che si sta dirigendo
proprio in quella zona. La battaglia per l'aeroporto è tutt'altro che
finita. Lo conferma anche il ministro dell'informazione Mohammed Said
al-Sahaf, che parla di 50 marine americani uccisi e di 16 carri armati
presi o danneggiati. Gli scontri sono ripresi, ce ne accorgiamo quando
cerchiamo di avvicinarci: alcuni chilometri prima, ad al-Qadissiya, un
posto di blocco ci impedisce di proseguire. Anche su questa strada ci
sono i segni lasciati sul selciato dal passaggio dei carri armati e
anche del loro dietrofront. Sabato ci avevano detto che gli Abrahms
americani erano arrivati fin qui. C'è ancora un negozietto aperto, vende
bibite e dolciumi. Dafr, il proprietario, ci conferma: «ieri mattina
(sabato, ndr) i carri armati americani sono arrivati qui davanti. Erano
le sei del mattino, la battaglia, pesante, è durata fino alle nove, poi
i carri armati sono tornati indietro, noi eravamo rintanati dentro casa
mentre fuori si combatteva». Ora il fronte si è di nuovo allontanato, ma
all'aeroporto si continua a sparare e a bombardare. I boati fanno
tremare le pareti del bugigattolo. Ci sono molti militari in questa
zona, nelle case?, chiediamo. «No, adesso no». Questo è l'unico negozio
ancora aperto su questa strada, perché non chiude? «Perché la gente
viene a comprare anche se c'è la guerra», risponde Dafr. Sembra che
tutto stia per crollarci addosso mentre ci allontaniamo in gran fretta.
Come continuano ad allontanarsi in fretta gli abitanti della zona che,
raccolte poche cose, fuggono su camion e su qualsiasi mezzo a
disposizione.

Lungo la strada che ci riporta in città, sotto gli alberi sono appostati
mezzi militari, le «tecniche» con le mitragliatrici e i cannoncini.
Nelle piazze invece i militari si nascondono dietro barriere fatte di
sacchetti di sabbia. La loro presenza, quella evidente almeno, non è
massiccia. Forse molti militari mancano ancora all'appello, se in un
comunicato letto ieri alla televisione irachena e attribuito a Saddam
Hussein si invitano gli iracheni che non possono raggiungere le loro
unità di combattimento ad aggregarsi ad altre unità. Quel che più
sorprende è la mobilità degli iracheni - militari, miliziani si vedono
soprattutto - che si concentrano e si spostano continuamente. Si passa
sopra un ponte e si vedono numerosi soldati e/o miliziani appostati
sotto con le loro armi, si ripassa poco dopo e sono spariti, per poi
ricomparire. E questo può costituire una sorpresa per le truppe
anglo-americane. I continui spostamenti possono prefigurare una tattica
più simile a una guerriglia che a una guerra convenzionale. Guerriglia e
«martiri», ovvero kamikaze, sarebbe stata la sorpresa per gli americani,
annunciata nei giorni scorsi da Mohammed Said al-Sahaf. E la popolazione
che farà? «Dobbiamo resistere, ma non per un uomo solo, non è come nel
1991, ora stanno invadendo il nostro paese, dobbiamo batterci per l'Iraq
e per gli iracheni», sostiene un conoscente iracheno. E questa
consapevolezza è molto diffusa.

Se la mattina era stata relativamente calma, verso mezzogiorno si è
nuovamente scatenato un delirio di fuoco: cannoneggiamenti, caccia che
volavano a bassa quota, bombe e contraerea, la cui potenza di fuoco
sembra comunque diminuita rispetto ai giorni scorsi. Arrivano notizie di
combattimenti a una ventina di chilometri a sud della città con forze
statunitensi paracadutate, confermate anche dal ministro
dell'informazione. Secondo le notizie di fonte americana sarebbero
diversi i commando paracadutati all'interno della capitale, ma da qui
non se ne vede l'ombra. Comunque la situazione sta precipitando, la
popolazione ha paura, per la strada ormai poco frequentata anche dalle
macchine si vedono pick-up e vetture stracariche di masserizie, sono i
baghdadini che cercano di fuggire, ma l'ordine è di non lasciare Baghdad
e difficilmente potranno uscire dalla capitale. Nei giorni scorsi
chilometri di code si erano formate sia sulla strada che porta verso
l'Iran che su quella diretta in Siria. Ieri sera è circolata la voce di
una imposizione del coprifuoco dalle sei di sera alle sei del mattino, e
così c'è stato un fuggi fuggi generale. L'annuncio di una imposizione
del divieto di circolare in città, nelle ore indicate, è stato dato
dalla televisione, ma c'è chi sostiene che il divieto riguarda solo
l'uscita e l'entrata in Baghdad. La notizia ha comunque subito aumentato
il panico e non vediamo macchine in circolazione dopo che sulla città è
calato un buio pesto.

Se stare a Baghdad è sempre meno sicuro, la partenza è altrettanto
rischiosa. Ieri il convoglio di macchine dei diplomatici russi,
ambasciatore compreso, che sabato aveva lasciato la capitale irachena
diretto a Damasco, è stato attaccato da sconosciuti con armi
automatiche, per due volte, prima a otto e poi a quindici chilometri da
Baghdad. Alcuni diplomatici sono rimasti feriti. Americani e iracheni
respingono la responsabilità, ma secondo un testimone diretto, un
reporter russo, il convoglio sarebbe finito sotto il tiro incrociato di
entrambi. Non è il primo caso di attacchi su questa strada. Gli ultimi
giornalisti e pacifisti arrivati da Amman - ma per un centinaio di
chilometri da Baghdad la strada è la stessa anche per chi è diretto in
Siria - parlano di scontri lungo il percorso e anche di aver dovuto fare
diverse deviazioni per poter arrivare. Un operatore della televisione
spagnola ci ha raccontato che quattro giorni fa a una trentina di
chilometri da Baghdad c'era un blocco fatto dagli americani con i carri
armati. All'intimazione di alt un camion non si era fermato subito ed è
stato bersagliato di colpi di arma da fuoco. Ieri un furgoncino di scudi
umani diretto ad Amman ha dovuto tornare indietro: non si passava per
gli scontri in corso, ci riproverà oggi. Le notizie che arrivano dal sud
e dal nord del paese non sono certo più confortanti, qui ci si aspetta
il peggio di ora in ora. Intanto passano i giorni, l'agonia di questa
città continua. E per ora non si vede la fine. " [MAN]

" Assedio finito inglesi a Bassora
Dopo due settimane di assedio le truppe britanniche sono entrate nella
seconda città irachena: ieri sera ne controllavano la gran parte.
Avanzano incontrastate: solo qualche resistenza sulle vie d'accesso. In
città prendono posizioni già abbandonate dai difensori, trovano vuota la
sede centrale del partito Baath. «In mattinata le milizie si erano
ritirate», riferisce Al Jazeera. «La gente esce dalle case a guardare.
Non c'è giubilo e neppure ostilità. Dicono che sono stufi di 20 anni di
guerra».
MARINA FORTI
Dopo due settimane di assedio, le truppe britanniche ieri sono entrate a
Bassora, la seconda città irachena. «Siamo dentro per restarvi», ha
detto il portavoce del comando britannico Al Lockwood in Qatar. All'alba
di ieri dunque una colonna corazzata, 14 carrarmati e altrettanti
veicoli blindati Warrior per il trasporto di truppe, si è mossa da sud e
si è spinta verso il centro. Una seconda colonna si è mossa nel
pomeriggio e si è attestata al limite della città vecchia, ha riferito
il portavoce britannico. La tattica delle incursioni contro le
postazioni difensive è finita: «Ormai dobbiamo entrare in città e
finirla con il partito Baath e gli irregolari che sono attivi là
dentro», ha detto alla Bbc il portavoce delle truppe assedianti, Chris
Vernon: per «irregolari» intende le milizie più fedeli al regime, i
Feddayyin Saddam, che a quanto pare costituiscono l'ultima resistenza.

L'ingresso britannico a Bassora è descritta da un lato dai reporter al
seguito delle truppe della coalizione, dall'altro dai due corrispondenti
di Al Jazeera, unico media straniero che fin dall'inizio del conflitto
si trova all'interno della città. Da un lato è la cronaca di colonne
blindate che avanzano in territorio sconosciuto, dall'altro quella di
una città che si sveglia e vede arrivare i carrarmati stranieri. Per
tutto il giorno i portavoce britannici si sono limitano a dire di aver
preso alcune posizioni, mentre Al Jazeera ieri sera affermava che le
truppe della coalizione controllano gran parte di Bassora: secondo loro
ci dev'essere stata una resa.

Due colonne blindate

L'avanzata britannica ha trovato qualche resistenza sulle vie d'ingresso
al centro, dicono gli ufficiali, da parte di forze acquartierate negli
slum di periferia. Incontriamo resistenza, ma l'abbiamo distrutta.
Abbiamo distrutto alcuni blindati (iracheni) e ora stiamo impegnando
postazioni bunkerizzate», dice nel primo pomeriggio alla Reuter un
capitano delle Irish Guards (Guardie irlandesi), Alex Cosby. La Bbc
mostra strade deserte, capannoni industriali centrati dai razzi
britannici sull'avanzata, un carrarmato iracheno (già abbandonato) fatto
saltare, strade periferiche sbarrate dalle mine anticarro e blindati
britannici che le aggirano.

Secondo Vernon, le sue truppe si sono mosse con indicazioni precise
ricevute dalla popolazione su dove sono i fedeli del regime. «Le
operazioni ora consistono in raid sulle postazioni occupate dai
Fedayyin, cerchiamo di farli uscire cercando di minimizzare i danni agli
edifici e ai civili», dice all'agenzia France Presse il capitano Michael
Garraway delle Guardie irlandesi (che con i Ratti del deserto e i reali
Dragoni Scozzesi costituiscono la divisione britannica). In tutto, tra
40 e 50 mezzi blindati e carrarmati britannici sono in città. Il
capitano afferma che un certo numero (imprecisato) di Feddayn è stato
ucciso nei combattimenti. A tarda sera il ministero della difesa di
Londra dirà che tre soldati britannici sono caduti.

Nelle immagini trasmesse da Al Jazeera con il videotelefono si vedono
carrarmati britannici prendere posizione in un centro città praticamente
vuoto. I corrispondenti della tv araba satellitare sottolineano che non
c'è forte resistenza e che molti negozi sono chiusi, non solo con i
normali lucchetti: molti hanno murato gli ingressi. Qualche
corrispondente occidentale ieri aveva citato fonti militari per dire che
in città c'erano saccheggi e anarchia. Ma i corrispondenti di Al Jazeera
non parlano di disordini. Riferiscono invece che i britannici hanno
raggiunto l'ospedale centrale, il quartiere centrale di Almishraq,
l'altrettanto centrale via Al Jazair (Algeri). Alla fine del pomeriggio
controllavano almeno metà della città: restava sotto controllo iracheno
la parte orientale. La sede dei servizi di sicurezza del regime sembra
l'ultima resistenza, secondo Al Jazeera ieri sera era assediata.

«La gente che in mattinata si era chiusa in casa adesso esce e saluta
con le mani i soldatri britannici», riferiva nel tardo pomeriggio uno
dei due corrispondenti, Abdel Hag Saddah: «Quelli con cui abbiamo
parlato dicono che sono stufi di 20 anni di guerra».

L'altro corrispondente di Al Jazeera, Mohammed al Abdallah,
ricostruisce: già in mattinata le milizie si erano ritirate dalle
posizioni precedenti.

«Né giubilo, né ostilità»

«All'entrata delle truppe britanniche non ci sono state resistenze. La
gente esce dalle case per guardare il passaggio dei carrarmati. Non ho
visto giubilo, né rifiuto». Per il momento i soldati britannici restano
nei carrarmati, dice Al Abdallah, salvo per operazioni di perquisizione.
La sede centrale del partito Baath è stata presa senza combattimenti,
era già stata abbandonata: «E' stata controllata e perquisita. Non c'era
nessuno di coloro che la occupavano fino a ieri sera».

Le truppe che avanzano su posizioni già abbandonate dai loro difensori,
la sede del partito vuota, la scarsa resistenza, tutto sembra indicare
che la presa di Bassora è stata preceduta da una trattativa. Questa è
l'opinione dei corrispondenti di Al Jazeera: «Probabilmente è la
conferma delle notizie di trattative con i vertici militari (della
coalizione anglo-americana) per una resa garantita dei dirigenti del
partito e i capi delle milizie».

A notte fatta Al Jazeera conferma che i britannici controllano la gran
parte di Bassora. E che, malgrado il buio, non ci sono segni di
resistenza o di azioni di guerriglia. Si sentono invece esplosioni nella
parte orientale della città, ancora sotto controllo delle truppe
irachene.

Non abbiamo notizie precise sul bilancio umano della giornata di ieri.
Nelle due settimane di assedio la gran parte di bombardamenti e
cannoneggiamenti avveniva di notte o di prima mattina, mentre di giorno
le strade erano affollate, movimento di veicolo, negozi aperti,
rifornimenti di verdura fresca: lo confermano i delegati del Comitato
Internazionale per la croce Rossa, in un lungo comunicato emesso ieri.
L'organizzazione umanitaria dice che la situazione negli ospedali è
sotto controllo, lo staff medico ben preparato, anche se negli ultimi
giorni parte degli infermieri ha avuto difficoltà a presentarsi al
lavoro a causa della crisi. «Nei primi tre giorni di combattimenti
attorno a Bassora gli ospedali riferiscono di aver ricevuto un centinaio
di feriti di guerra al giorno. Poi il numero è sceso tra 15 e 25 al
giorno».

E' ancora presto per ricostruire le trattative che devono aver preceduto
l'ingresso britannico a Bassora. C'è invece un primo commento da parte
di una delle organizzazioni politiche dell'opposizione sciita, il
Supremo Consiglio della rivoluzione islamica in Iraq (Sciri, i cui
dirigenti si trovano in Iran): «Siamo su posizione di neutralità
negativa nei confronti degli occupanti», ha detto Bayan Jaber,
dell'ufficio politico dello Sciri, intervistato da Al Jazeera da Tehran:
«Siamo contro la nomina di un governatore militare americano in Iraq, e
siamo contrari alla spartizione del paese. Se gli americani faranno
questo resisteremo all'occupazione del nostro paese. Se saranno ammesse
le azioni pacifiche ci limiteremo a quelle, ma se impediranno la
protesta democratica passeremo ad altri mezzi di lotta». La partita
politica sul dopo-guerra in Iraq si annuncia difficile per la coalizione
anglo-americana. " [MAN]

" Fuoco sui diplomatici russi
L'ambasciatore lasciava la capitale. Mosca protesta, Powell chiama Putin
Un convoglio russo in cui viaggiavano l'ambasciatore in Iraq, Vladimir
Titorenko, altri diplomatici e otto giornalisti è stato attaccato mentre
lasciava Baghdad diretto verso il confine con la Siria. Almeno cinque
persone sono rimaste ferite. Lo ha confermato il portavoce del
presidente Vladimir Putin, Alexei Gromov, aggiungendo che non è chiaro
chi abbia aperto il fuoco sulle vetture. Il convoglio, secondo alcune
prime ricostruzioni, è rimasto intrappolato in una sparatoria tra forze
irachene e statunitensi. A raccontarlo è stato un inviato russo della
televisione Rossiya che viaggiava con il corteo, Aleksander Minakov.
«Appena lasciata la capitale, siamo passati attraverso forze irachene
schierate» ha detto in un'intervista telefonica con la sua emittente, ma
all'improvviso le truppe «sono finite sotto un intenso fuoco». Gli
iracheni «ovviamente hanno cominciato a sparare e noi siamo rimasti in
mezzo». Subito dopo, ha aggiunto, «davanti a noi è comparso un grosso
convoglio di veicoli blindati americani, si sono avvicinati e noi siamo
usciti dalle auto e abbiamo cominciato a sventolare drappi bianchi per
attirare la loro attenzione, per chiedere soccorso, ma nessuno si è
fermato. La colonna ha impiegato quaranta minuti per passare». Il
segretario di stato Colin Powell ha telefonato al suo omologo russo Igor
Ivanov. In un comunicato, il Comando centrale statunitense in Qatar ha
assicurato che i militari Usa sono estranei all'attacco. Sembra che la
sparatoria sia avvenuta in un'area sotto il controllo iracheno, ha
spiegato il comando, e dove in quel momento non operavano forze
britanniche o americane. «L'indagine su questo episodio continua e
maggiori dettagli saranno forniti appena possibile».

Mosca si è subito mossa per assicurare i soccorsi e l'incolumità ai suoi
diplomatici. Gli ambasciatori di Stati Uniti e Iraq a Mosca sono stati
convocati al ministero degli esteri per sollecitare i loro governi ad
assumere iniziative per garantire la sicurezza dei cittadini russi.
Putin è stato immediatamente informato dell'incidente.

All'ambasciata russa a Baghdad restano 12 persone tra diplomatici e
personale amministrativo e tecnico. Sabato Mosca aveva annunciato la
decisione di lasciare solo il minimo di personale necessario al
funzionamento della rappresentanza, vista la situazione di grande
rischio. L'ambasciata russa si trova in uno dei quartieri più sicuri
della capitale. Dall'inizio dei bombardamenti solo in un'occasione la
zona è stata presa di mira dagli alleati, suscitando l'immediata
protesta di Mosca.

Un testimone ha riferito all'agenzia Interfax che del convoglio facevano
parte venticinque persone, per lo più giornalisti russi. Secondo questa
altra versione dei fatti, il convoglio aveva lasciato la capitale
irachena e davanti si vedevano combattimenti; così il gruppo aveva
deciso di rientrare verso Baghdad. Ad appena otto chilometri dalla
città, però, il convoglio è stato attaccato e ci sono stati diversi
feriti. A quel punto si è deciso di proseguire lasciando dietro un'auto
danneggiata, ma dopo pochi chilometri il corteo si è imbattuto in un
convoglio di jeep. I diplomatici hanno fatto fermare le vetture e hanno
esibito la bandiera russa per mostrare che non erano belligeranti, ma
dalle jeep è stato aperto il fuoco e ci sono stati altri due feriti.
Appena le jeep si sono allontanate, il convoglio russo è ripartito per
cercare il più vicino ospedale." [MAN]

"Fuoco amico, strage a Erbil
Un caccia americano spara su un convoglio misto di marines e combattenti
kurdi. 18 morti e decine di feriti. Mistero sulle vittime Usa:
ufficialmente non ce ne sono, ma un reporter della Bbc afferma di aver
visto cadaveri americani. Ferito il fratello di Massud Barzani, leader
del Pdk. I kurdi sdrammatizzano: «Continuiamo a combattere con
Washington, per i nostri comuni obiettivi». Che sono, fra le altre cose,
i pozzi di petrolio di Mosul e Kirkuk
STEFANO LIBERTI
L'ennesimo incidente di «fuoco amico» ha turbato ieri mattina le
operazioni nel cosiddetto fronte Nord, dove i peshmerga (guerriglieri
kurdi) combattono fianco a fianco con gli americani contro le truppe
irachene: un caccia statunitense ha bombardato un convoglio misto di
peshmerga e di forze speciali americane, provocando almeno diciotto
morti e parecchi feriti.

Nel dubbio, meglio sparare

L'incidente è avvenuto nella zona di confine tra la regione di fatto
autonoma in mano ai kurdi iracheni e l'area amministrata (ancora) da
Baghdad, non lontano dal villaggio di Kalak, dove poco prima l'esercito
iracheno aveva sparato alcuni colpi di mortaio contro alcune postazioni
da cui poco prima si era ritirato. Il convoglio stava proprio
ispezionando queste postazioni quando all'orizzonte sono apparse le
sagome minacciose dei due caccia. A nulla sono valsi i segnali agitati
con le mani e le bandierine sventolate dai marines e dai peshmerga: il
pilota di uno dei due caccia non ha voluto rischiare e, nel dubbio, ha
deciso di sganciare un paio di missili aria-terra che hanno centrato in
pieno il convoglio amico. Diciotto sono le vittime kurde accertate,
denunciate da fonti ospedaliere e confermate da Hoshyar Zebari,
portavoce del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), la formazione di
cui facevano parte i combattenti rimasti uccisi. Il mistero più fitto
circonda invece la sorte dei soldati americani: Zebari ha affermato che
tutte le vittime sono kurde - un'affermazione poi confermata del comando
centrale statunitense di stanza nel Qatar - ma un giornalista «embedded»
della televisione britannica Bbc, John Simpson, rimasto anch'egli
lievemente ferito nel bombardamento, ha sostenuto invece di aver potuto
distinguere nella confusione alcuni morti americani.

Ferito il fratello di Massud Barzani

Tra i feriti gravi c'è anche Wajih Barzani, capo militare kurdo e
fratello minore del leader del Pdk Massud Barzani, uno dei due signori
dell'enclave autonoma kurda del Nord Iraq (l'altro è Jalal Talabani,
leader dell'Unione patriottica del Kurdistan, che amministra la zona
orientale al confine con l'Iran). Barzani junior sarebbe stato
trasportato d'urgenza in Germania, presumibilmente nell'ospedale vicino
alla base di Ramstein, dove abitualmente vengono mandati a curare i
soldati Usa più malconci. Gli altri kurdi sono invece stati ricoverati
all'ospedale di Emergency ad Erbil, dove sono stati loro prestati i
soccorsi. A differenza di quanto affermavano alcune agenzie di stampa,
nessuno straniero (né soldati Usa né giornalisti) è stato trasportato
nella struttura di Emergency. Il che rende difficile stabilire con
certezza la loro sorte.

Quel che è certo è che quello di ieri è solo l'ultimo di una lunghissima
serie di incidenti. Incidenti che hanno dimostrato che il «fuoco amico»
può essere assai più letale di quello nemico, come hanno sperimentato
sulla propria pelle i britannici (e ieri i kurdi).

Amici come prima alla conquista di Kirkuk

Nonostante il suo pesante bilancio, l'episodio non dovrebbe comunque
turbare - almeno sulla carta - le relazioni tra gli americani e i loro
alleati kurdi. «Questo incidente non pregiudica né pregiudicherà il
nostro impegno a lavorare a fianco della coalizione guidata dagli Stati
uniti per raggiungere i nostri comuni obiettivi», ha prontamente
dichiarato Zebari.

Gli obiettivi di cui parla il portavoce del Pdk sono principalmente le
città di Mosul e Kirkuk, importanti centri petroliferi a ridosso della
zona amministrata dai kurdi e ancora in mano alle forze irachene. Sul
fronte militare, i peshmerga stanno avanzando verso sud, normalmente
coadiuvati (e occasionalmente ostacolati) dai bombardamenti dei caccia
americani. Ieri i combattenti kurdi, appoggiati dai marines, hanno
conquistato la città di Domiz, abbandonata dai soldati iracheni e la
città di Ain Sifni, a 45 chilometri da Mosul. Ma, sebbene la linea del
fronte si sposti leggermente, quella combattuta nel nord sembra
soprattutto una guerra di posizione, in cui si susseguono operazioni
tattiche e piccole scaramucce in attesa della battaglia finale, che si
combatterà presumibilmente a Mosul. Il ministro dell'informazione di
Saddam, Mohammed Saeed al-Sahhaf, ha dichiarato ieri ad al Jazeera che
il fronte nord non lo preoccupa affatto, e che anzi «questi piccoli
movimenti non hanno alcun significato»." [MAN]

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FINANZE DI GUERRA
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"La guerra santa(e il gran barile)
Una riunione tra dipartimento di stato Usa e un gruppo di fuoriusciti
dall'Iraq tenta una prima definizione dell'assetto futuro del petrolio,
quando il paese sarà nelle mani dei vincitori. Probabile l'intervento
delle compagnie straniere, ma solo dei paesi meritevoli. Il Pentagono
per ora fa capire che il petrolio fa parte del bottino
GUGLIELMO RAGOZZINO
Si sono tenuti sabato importanti colloqui tra esponenti iracheni in
esilio e funzionari del dipartimento di stato degli Usa. L'argomento era
il petrolio; e l'agenzia Reuters che ne è venuta a conoscenza ne ha
fatto oggetto di alcuni lanci, passati peraltro inosservati. E'stata una
fortuna che sia andata così, perché, se lo avesse saputo per tempo
Con-dolcezza Rice - consigliere per la sicurezza nazionale del
presidente George W. Bush - avrebbe come minimo mandato i B52 per
rimettere le cose a posto. Così, per mettersi al riparo dagli sguardi
ostili, gli assistenti di Colin Powell, guidati da Thomas A. Warrick,
consigliere per il medioriente, si sono incontrati con gli esuli
iracheni (tra gli altri Fadhil al-Chalabi, un tempo vice ministro del
petrolio a Baghdad) in una località decentrata: Londra. Quella Londra
che essendo assai frequentata da operatori economici e finanziari di
ogni tipo, consente una certa libertà di incontri discreti. E' comunque
significativo che un colloquio su un argomento tabù come il petrolio
iracheno, si sia svolto fuori sede, lontano dagli Usa e dal Medio
oriente. L'esito dei colloqui chiarisce bene quale può essere (quale
sarà) l'agenda della discussione vera con gli interlocutori appropriati,
una volta che l'Iraq avrà cambiato stato e il nuovo potere affiderà gli
incarichi per il petrolio. Si pensa (tra le colombe del dipartimento di
stato) a un'autorità petrolifera a interim fatta da iracheni, sotto
controllo Usa; capace di garantire o di promettere un ambiente molto
amichevole per gli investitori esteri, con sufficienti libertà di
azione, nonché di entrata e uscita per i capitali, in modo da attrarre
le compagnie internazionali attive nel ramo petroli. Di esse si sente il
bisogno, sia per le conoscenze tecniche sia per i miliardi di dollari in
ricerca e gestione industriale che possono mobilitare, attingendo al
sistema bancario globale. Le cifre ripetute in quest'occasione sono
simili a quelle - miliardo più, miliardo meno - che circolano da anni.
Servono 5 miliardi di dollari per riportare la produzione alla capacità
anteguerra (ante invasione del Kuwait) cioè a 3,5 milioni di barili al
giorno (un barile equivale a 159 litri). Per ottenere tale risultato
occorre rimettere in sesto i giacimenti, spesso sfruttati assai male,
anche per mancanza di pezzi di ricambio; e poi rabberciare le condotte,
sistemare le stazioni di pompaggio, le raffinerie e i terminali,
ricucire gli oleodotti.

Ma dipartimento di stato e diaspora irachena sembrano guardare più in
là. Per spremere davvero il petrolio iracheno serviranno altri 30-50
miliardi di dollari, per arrivare nel giro di 8-9 anni a una produzione
cresciuta di 4 o 4,5 milioni di barili al giorno. Con otto milioni di
barili al giorno, sia pure nel 2010, l'Iraq restaurato diventerebbe uno
dei quattro maggiori produttori di greggio, nello stesso ordine di
grandezza di Arabia Saudita, Usa e Russia. E'l'Opec?

Nel piano immaginario disegnato a Londra, l'Opec rimarrebbe la casa di
riferimento anche per il petrolio iracheno, restituito alla democrazia;
i commentatori ascoltati dalla Reuters non si nascondono però i timori
degli undici paesi esportatori dell'organizzazione di dover far posto
alla crescente (e come!) produzione irachena, riducendo le proprie
quote; oppure di dover subire una riduzione del prezzo, aumentando in
modo eccessivo - con i milioni di barili iracheni - l'offerta di
petrolio del cartello. Particolare il risentimento dell'Arabia saudita
che perderebbe in pratica il ruolo di arbitro nell'offerta di petrolio:
quanto venderne e a quale prezzo.

Un aspetto decisivo è l'apertura alle compagnie petrolifere, sia pure da
parte di chi non dispone effettivamente delle spoglie di guerra. Se si
realizzassero le condizioni di massimo favore dei tempi precedenti alla
nazionalizzazione, avvenuta nei primi anni '70, tornereste a investire e
a estrarre petrolio in Iraq? E ancora: siete interessati ai contratti di
divisione della produzione (Psa, Production-sharing agreements)? Il
dipartimento di stato insieme ai suoi protetti si risponde
affermativamente: le grandi compagnie, tanto Usa, come Exxon-Mobil o
ChevronTexaco o ConocoPhillips, quanto l'anglo olandese Shell, o la
francese TotalFinaElf , o la russa Lukoil, o la compagnia di stato
cinese (Cncp) saranno molto liete di parecipare.

La proposta è la spartizione produttiva, ma è anche espressa la
convinzione che sia utile privatizzare almeno in parte il petrolio
iracheno, che al contrario di quello saudita o messicano, è ancora
statizzato. E suggerisce così di puntare di più sulla ripresa rapida del
petrolio iracheno e dell'economia mondiale che di petrolio a prezzi
stracciati ha un gran bisogno che non sul premio ai vincitori. E' assai
plausibile che si faranno delle distinzioni: tutte le compagnie citate
oltre alla Bp inglese avrebbero interesse a migliorare il proprio
assetto upstream (ricerca, disponibilità di greggio, produzione) e
soprattutto con un petrolio la cui estrazione costa uno o due dollari al
barile contro i sei o gli otto, comuni nell'industria. Ma è altrettanto
certo che il Pentagono e la Casa bianca si affretteranno a dividere i
buoni (i guerrieri) dai cattivi (i pacifisti, anzi i panciafichisti come
diceva il duce). Cinesi, russi, francesi hanno osteggiato la guerra,
hanno osato minacciare il veto all'Onu. Il petrolio, bottino di guerra,
non fa per loro, non sarà condiviso, almeno in una prima fase con le
loro imprese. Tanto più che mentre americani e inglesi tenevano alta la
bandiera dell'embargo, francesi, russi e cinesi cercavano di fare
contratti con l'Iraq relativi ai giacimenti più giganteschi. Al loro
seguito italiani e coreani, malesi e vietnamiti, spagnoli e indiani,
facevano lo stesso. Inglesi e americani rimanevano in disparte, un po'
perché non volevano un petrolio antidemocratico, un po' perché il regime
di Baghdad non voleva trattare con loro.

Siccome molti uomini d'onore ci hanno ripetuto che la guerra
dell'Alleanza contro l'Iraq non è dovuta al petrolio, noi metteremo da
parti i nostri pregiudizi materialisti; al contrario delle tre guerra
precedenti: Iraq contro Iran (1980-1988); Iraq contro Kuwait (1990);
Nazioni unite contro Iraq (1990-91), questa guerra con il petrolio non
c'entra. Il petrolio è però importante, visto che per i tre paesi
produttori, indicati prima (Arabia saudita, Usa, Russia) è un elemento
sostanziale del modello economico, nel primo e nel terzo caso e qualcosa
che attiene alla vita stessa nel secondo. Infatti se per la Russia
petrolio e gas sono quattro quinti delle esportazioni, se per l'Arabia
suadita il petrolio vale l'intero bilancio, per gli Usa conta ancora di
più, equivalendo alla libertà stessa: quella di andare e venire con
un'automobile che ancora per vent'anni, Jeremy Riskin permettendo, andrà
sempre e comunque a petrolio. L'annessione o quel che sarà dell'Iraq,
permetterà di gestire a favore dei vincitori il petrolio e il suo
prezzo, in barba all'Opec. Anzi, se l'Iraq rimarrà nell'Opec, gli Usa e
il Regno unito governeranno anche questo; se l'Iraq ne starà fuori,
l'Opec avrà a che fare oltre che con la Russia, con un altro nemico.
Comunque il petrolio poco caro non basterà a rilanciare l'economia; e
Bush perderà, come suo padre, le elezioni dell'anno prossimo. " [MAN]

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GUERRA MEDIATICA
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La forza dell'invisibile
Una guerra a copertura mediatica totale che crea spettatori totali. Ma
la realtà non sta tutta in quello che viene fatto vedere, né in quello
che viene occultato. C'è qualcosa che resta invisibile ma che attraverso
le immagini possiamo intuire. E porta i segni di sentimenti e
comportamenti che il reportage della guerra non racconta, ma che
lavorano nel profondo di ciascuno di noi e ritesse la trama
dell'esistenza e del legame sociale al di là delle armi e delle
strategie militari e mediatiche
CHIARA ZAMBONI
C'è qualche cosa che non torna nell'affermazione che la guerra in corso
è una guerra tutta affidata alle immagini delle televisioni, dei
fotoreporter, una guerra dalla visibilità totale che crea spettatori
totali. Ho in mente una foto - circolata in questi giorni sul manifesto
e altri giornali - che è stata costruita apposta per rafforzare questa
idea e che per la sua sfacciata intenzione mi risulta perfino irritante:
un camion della croce rossa che distribuisce viveri alla gente in Iraq e
sopra il camion sette o otto giornalisti che fotografano, riprendono.
Un'affermazione che non viene smentita dal fatto che il governo
americano non vuole che questo conflitto diventi veramente visibile
attraverso il lavoro dei giornalisti, perché teme che possa succedere
come nella guerra del Vietnam dove i servizi dei giornali avevano
«disturbato» le strategie degli apparati militari. Anche il governo
americano si comporta come se tutto fosse visibile, tanto è vero che
ritiene che molto sia da tenere nascosto. L'idea di fondo resta la
stessa. C'è qualche cosa che non torna nel dire che tutto si gioca nella
visibilità. Il visibile è tale perché è leggibile da codici già
previsti. Ciò che si vede nelle immagini, quel che viene raccontato
nella notizia è nuovo, ma si affida per essere capito a qualcosa di
riconoscibile, ripetibile, confrontabile con quel che già sappiamo. Non
mette in crisi i codici che condividiamo. Ma nel visibile, nei
fotogrammi, nei racconti di guerra, è presente anche l'invisibile, che è
la cerniera del visibile, il suo piano verticale. Non ha niente a che
fare con quel che viene nascosto con intenzione, e che, in questa
guerra, si può portare a visibilità a volte con dei coraggiosi servizi
giornalistici. C'è un invisibile che insiste come una nota ripetuta nel
basso continuo del presente e che noi sentiamo, ci immaginiamo, vediamo.
Cogliamo in altro modo e con altri sensi.

L'importanza della visibilità, su cui oggi tanto si insiste, è estranea
alla mia esperienza. Le donne sanno bene che l'essenziale per loro sta
tra visibile e invisibile: tra la dimensione pubblica - che magari
squaderna il privato allo sguardo di tutti, ad esempio nelle foto dei
morti per il bombardamento al mercato di Baghdad - e sentimenti,
sensazioni che sono intime, segrete - il che è molto diverso da
«nascoste» - e che tessono la trama del presente e gli danno una qualità
propria.

Non si tratta tanto di un sentimentalismo già previsto, per cui di
fronte ad un'immagine di una bambina irachena dagli occhi enormi,
spauriti, che guarda un gigante di soldato, mi trovo a commuovermi ed è
una emozione provocata, tutta superficiale perché messa a tema dal
linguaggio stesso della foto, che vedo sul giornale. Una foto scattata
per commuovere. Il sentimento è interno al codice stesso che ha guidato
la fotografia, o che ha fatto scrivere quella notizia. Diffido di quel
sentimentalismo, che mi riempie e mi fa sentire totale, totalmente
«buona» o «ostile» - il che è lo stesso: sempre un assoluto e quindi in
fondo niente.

L'invisibile ha a che fare con sentimenti che non ci riempiono come un
assoluto, che lasciano spazio a molto da immaginare, da sentire, da
capire, da pensare. Ha a che fare con la fiducia che nel presente c'è
quello che viene mostrato e c'è qualcosa che non è mostrato e che muove
a livelli più profondi.

Penso ad esempio al desiderio di vita e di allegria che ho capito, più
che visto, nella gente di Baghdad che non si è comportata solo secondo
una razionalità efficiente e prevedibile, organizzandosi bene, prima dei
bombardamenti annunciati. A Baghdad nei giorni prima della guerra la
gente faceva provviste, e in città si faceva anche altro che non aveva
niente a che fare con il sopravvivere. Walden Bello, in un articolo sul
manifesto del 30 marzo scorso, descrive ad esempio le ragazze e i
ragazzi testardamente intenzionati a continuare le lezioni
all'università su Giulietta e Romeo di Shakespeare con i loro
professori. Come ricordo, poco prima che Belgrado venisse bombardata
nella guerra del Kossovo - e anche quello era un bombardamento
annunciato - che le ragazze e i ragazzi stavano a chiacchierare ai
tavoli dei caffè godendosi il sole. Che invisibile c'è in un gesto
apparentemente così assurdo, così poco razionale come questo? Ci leggo
il voler difendere il piacere e la felicità della vita, prima di tutto
vivendola, e poi, soltanto poi, organizzandone la difesa. Ci vedo la
fiducia che la prima e più fondamentale difesa di ciò che è vita è
semplicemente vivere con pienezza. Ovvero continuare a godere di una
bella giornata, di un grande testo letterario, per di più nella lingua
del nemico che ti sta per attaccare.

Questa è una forza dell'ordine dell'invisibile. È una fede non in un dio
o nell'altro, o nello stesso sotto diverse bandiere, ma è fede nella
scintilla di infinito che c'è nell'esistenza e che noi preserviamo più
vivendola - incarnandola, si potrebbe dire - che combattendo per essa
come fosse un valore oggettivo. Nel momento in cui si trasforma in
qualcosa di oggettivo, l'abbiamo già perduta.

Chi scrive di questa come di altre guerre solo in termini di potenza di
armamenti, di strategie, di battaglia mediatica della visibilità sia sul
fronte interno che esterno, di aiuti umanitari, di ricostruzione, non
abbia presente la forza dell'invisibile nel visibile.

Ne parla una donna algerina, raccontando dell'esperienza sua e di altre
donne in un'altra guerra che ha la forma della guerriglia e che dura
ormai da anni in Algeria. È Zazi Sadou, in Fare pace dove c'è guerra
(Quaderni di Via Dogana, 2003). Parla delle donne che, minacciate di
morte, ogni giorno si fanno belle, che è segno certo visibile, ma la
bellezza è qualcosa di più: è legame tra sé e sé e il proprio corpo, è
armonia tra l'inconscio e lo sguardo degli altri, è ringraziamento a chi
ci ha donato l'esistenza, è esercizio di vita. Ha molto della piega
visibile di una trascendenza invisibile.

È per questo che dico che non è necessario guardare o leggere troppo per
sapere che oltre le strategie militari, le morti violente e i poteri c'è
quell'invisibile e forte che tesse legami all'interno dell'angoscia
delle madri, dell'amarezza dei vecchi, della paura nello sguardo di quel
giovane soldato americano preso prigioniero. La fiducia nell'invisibile
permette di vederne i segni. Di immaginarci anche ciò che non vediamo. E
di immaginarci molto e secondo verità.

Un tempo questa capacità veniva chiamata profetica. Le profetesse dei
vangeli e delle prime comunità cristiane sapevano vedere nel presente
segni che altri non vedevano. Dobbiamo incominciare a chiederci quale
nuova forma questa capacità profetica oggi abbia preso e come essa possa
essere ricchezza anche per quegli uomini stanchi del dominio del
visibile, talmente realistico da risultare finto." [MAN]

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