[cronologie di guerra] 08.04.03 ventesimo giorno
si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.
08aprile 2003 : ventesimo giorno [fonti : quotidiani del 9 aprile 2003]
"Un carro armato americano fa fuoco contro l'albergo della stampa a Baghdad, un missile colpisce la sede di Al Jazeera Muoiono tre giornalisti, altri tre sono feriti «E' stata autodifesa», dice il comando Usa La rabbia dei reporter: «Nessun cecchino» Battaglia violentissima nella capitale A Belfast, Bush e Blair si dividono l'Iraq: «L'Onu? Per ora governiamo noi»" [MAN]
"INFORMAZIONE: MORTI IN 11 Con la morte di tre giornalisti uccisi ieri sale a 11 il triste conteggio delle persone decedute mentre erano impegnate a «raccontare la guerra». Tra giornalisti «arruolati», free-lance, della televisione e della carta stampata il bilancio è pesante e mette in difficoltà gli angloamericani. 22 MARZO Muoiono i primi due inviati. Si tratta di Terry Lloyd della tv britannica «Indipendent Television News», morto nel sud dell'Iraq probabilmente colpito dal «fuoco amico» tra forze angloamericane, e Paul Moran, il cameraman che lavorava per l'Abc australiana. 30 MARZO Il cadavere di Gaby Rado, reporter della tv britannica Channel 4, viene ritrovato nel parcheggio di un albergo in Kurdistan. Si pensa sia caduto dal tetto, forse per cause accidentali. 2 APRILE Kave Golestan resta ucciso da una mina anti-uomo a pochi chilometri da Kirkuk, nel nord dell'Iraq. Muore così il fotografo iraniano, premio Pulitzer per la fotografia che lavorava anche come cameraman della Bbc. 4 APRILE Perde la vita il primo giornalista «embedded», arruolato. Michael Kelly, nota firma del Washington Post ed ex direttore della rivista Atlantic Monthly muore in un incidente lungo la via di Baghdad insieme a un soldato americano della Terza divisione di fanteria. 6 APRILE David Bloom, americano e conduttore dell'edizione del programma «Today» della Nbc, muore per un'embolia polmonare mentre è al seguito della Terza divisione dell'esercito. 7 APRILE In seguito ad un attacco delle forze irachene contro il centro di comunicazioni Usa a sud di Baghdad restano uccisi, insieme a due marines, lo spagnolo Julio Anguita Parrado e il tedesco Christian Liebig. Il primo corrispondente del quotidiano El Mundo, il secondo inviato del settimanale Focus. IERI Tareq Ayoub, un giornalista giordano di Al Jazeera muore per il bombardamento dell'ufficio della televisione del Qatar adiacente al ministero dell'informazione. Quindi, poco dopo, un colpo di un carro armato Usa colpisce due piani dell'Hotel Palestine, sede della maggior parte dei giornalisti internazionali presenti a Baghdad. Nell'esplosione restano uccisi Taras Prosyuk, cameraman ucraino della Reuters e José Couso, cameraman di Telecinco. VIOLATA «GINEVRA» Per il «Comitato per proteggere i giornalisti» di New York, gruppo impegnato a difendere la libertà dell'informazione, l'attacco dei militari usa contro l'Hotel Palestine viola la Convenzione di Ginevra. Il Cpj ha inviato una lettera di protesta al segretario della difesa statunitense Ronald Rumsfeld condannando «come un grave atto» il raid sulla sede dei giornalisti. «Riteniamo che questo attacco violi la convenzione di Ginevra - si legge nella lettera. Mentre gli ufficiali hanno espresso rammarico per i morti in questi attacchi e hanno affermato che di non aver preso di mira i giornalisti, hanno però lasciato intendere che non intendono assumersi la responsabilità di proteggere l'operato indipendente dei giornalisti in Iraq. Nella conferenza stampa a Doha in Qatar - continua la lettera - il generale Vincent Brooks afferma che mentre i giornalisti "arruolati" ricevono protezione dai militari, quelli che operano come "non al seguito" lo fanno a loro rischio e pericolo». Il Cpj ricorda quindi di aver già inviato una lettera a Rumsfeld sottolineando proprio che il pericolo potenziale in cui incorrono i giornalisti indipendenti non «assolve i militari Usa dalla loro responsabilità di non mettere a rischio i media che operano in postazioni conosciute»." [MAN]
"Taras Protsyuk Ucraino, residente a Varsavia, 35 anni, Protsyuk era un cameraman della Reuters. E' morto mentre lo trasportavano in ospedale dopo la cannonata sparata da un tank americano sull'Hotel Palestine " "Jose Couso Cameraman della spagnola TeleCinco, Couso aveva 37 anni, sposato, due figli. E' il secondo giornalista spagnolo a morire a Baghdad in altrettanti giorni: l'altro giorno era stato ucciso Julio Parrado, inviato di El Mundo " "Tareq Ayyoub Giornalista e producer di Al Jazeera, Ayyoub è stato ucciso in un bombardamento americano che ha colpito la sede della tv del Qatar poco prima della cannonata sparata contro l'Hotel Palestine "
"L'autodifesa del Pentagono. Il mondo accusa Le forze americane sul banco degli imputati per l'uccisione di tre giornalisti a Baghdad: «Ci siamo solo difesi». Dura protesta delle associazioni della stampa. Secondo il ministero della difesa spagnolo, l'hotel Palestine era stato dichiarato da giorni «obiettivo militare» FRANCESCO PATERNO' Non prenderemmo mai di mira intenzionalmente gli esponenti dei media». Nel giorno di guerra più cruento per la stampa internazionale - tre morti e quattro feriti nel cuore di Baghdad - il Pentagono passa e chiude. Aidan White, segretario dell'International Federation of Journalists (Ifj), che ha migliaia di iscritti in tutto il mondo, chiede invece un'indagine su possibili crimini di guerra contro giornalisti. «E' difficile credere che sia stato un errore», accusa Severine Cazes, dell'associazione Giornalisti senza frontiere. L'americano Committee to Protect Journalists parla di violazione della Convenzione di Ginevra e annuncia prossime azioni legali contro il Pentagono. Ma dopo un giorno di scambi di accuse, testimonianze, voci e smentite, la domanda resta legittima più che mai: ieri a Baghdad gli americani hanno colpito apposta gli uffici di Al Jazeera e l'hotel Palestine, uccidendo nel primo caso un giornalista e ferendo un cameraman, nel secondo uccidendo un cameraman spagnolo di Tele 5, un ucraino della Reuters e ferendo altri tre giornalisti dell'agenzia britannica?
La ricostruzione degli avvenimenti lascia pochi dubbi sull'andamento dei fatti. Il Pentagono, finito subito sul banco degli accusati, ha negato che le forze armate americane abbiano sparato deliberatamente contro i giornalisti, ma ha ribadito che «restare a Baghdad è pericoloso» e che comunque «si prendono di mira solo le forze armate ma se si piazzano in aeere civili, diventano un bersaglio militare legittimo». A Baghdad è mezzogiorno ora locale quando un carro armato americano punta il cannone contro l'hotel Palestine, dove vivono da oltre un mese circa 300 giornalisti di tutti i paesi. Parte un colpo che sfonda vetri e pareti di alcune stanze tra il quattordicesimo e il quindicesimo piano. Il colega della Reuters muore subito, il collega di Tele 5 viene ferito gravemente, morirà poco dopo nonostante i soccorsi in un ospedale.
Da Doha, il generale americano Vincent Brooke sostiene che dall'albergo qualcuno ha sparato e il carro armato ha risposto al fuoco. Accusa gli iracheni di mischiarsi ai civili per combattere. E' la guerra. Ma è una versione che non sta in piedi: al Palestine decine di giornalisti (per primo l'inviato dell'emittente inglese per altro più bellicista Sky tv, David Chater) affermano che nessuno ha sparato dall'hotel e che il carro armato ha preso bene la mira.
Passano diverse ore e da Washington arriva la versione definitiva del Pentagono. Secondo il generale Stanley McChrystal, l'equipaggio del carro armato «aveva il dovere di sparare, per proteggersi e per compiere la propria missione», agendo per «auto-difesa», poiché attaccati. Da Madrid arriva in serata un'altra versione inquietante su quel che potrebbe essere il retroscena della cannonata contro l'hotel della stampa. L'agenzia spagnola Europa press sostiene che il ministero della difesa madrileno ha ricevuto la seguente risposta da parte americana alla richiesta di informazioni sull'attacco contro il Palestine: l'albergo era stato dichiarato dal Pentagono «obiettivo militare» da diversi giorni. Per questo motivo, il ministero della difesa ha chiesto ai direttori dei media spagnoli di richiamare a casa tutti gli inviati a Baghdad. La notizia confermerebbe un attacco deliberato americano contro l'albergo. Nella sua edizione on line, il quotidiano El Pais riprende Europa press mentre l'agenzia Efe e il quotidiano El Mundo «leggono» la notizia in modo opposto: il Palestine è stato dichiarato «obiettivo militare» da parte degli iracheni. Fatto curioso, a dire il vero.
Cosa sanno davvero il governo spagnolo e gli altri governi alleati, a questo punto? A Roma il ministro Giovanardi riesce a smentirsi da solo nel giro di mezz'ora quando mette in dubbio perfino che un tank americano abbia sparato. Frattini, che invece vede la Cnn, parla di «incidente grave». Al governo italiano risulta in qualche modo che il Palestine fosse stato dichiarato «obiettivo militare»? Di sicuro, sabato scorso gli inviati italiani a Baghdad (tra cui la nostra Giuliana Sgrena) hanno ricevuto una preoccupata telefonata dalla Farnesina in cui si consigliava loro di spostarsi «all'ambasciata russa o siriana», per motivi di sicurezza. Su quali basi informative è scattata la telefonata?
Prima dell'eccidio al Palestine, per la stampa presente a Baghdad la giornata di ieri era iniziata comunque in modo drammatico. In mattinata due missili avevano colpito l'ufficio della tv araba Al Jazeera, situato nel centro della città, lontano qualche chilometro dall'hotel Palestine. Muore un giornalista, un cameraman rimane ferito. Un errore, ammettono questa volta gli americani. La direzione di Al Jazeera protesta con forza contro gli Usa e dà una notizia: il Pentagono era stato informato preventivamente sulla locazione dei loro uffici. Esattamente il 24 marzo scorso, con lettera a Victoria Clarke, portavoce del ministero difesa americano, con le seguenti coordinate: latitudine 33,19, longitudine 44,24, altitudine 63 metri. Impossibile sbagliarsi.
Quasi contemporaneamente, i vicini uffici di Abu Dhabi tv, l'altra emittente araba che trasmette da Baghdad, vengono colpiti da colpi sparati da tank americani. Una telecamera sul tetto della casa cade per un primo colpo, la seconda crolla subito dopo, per fortuna nessuna resta ferito. La situazione è così critica che la tv araba si appella al Pentagono: aiutateci a evacuare 25 dipendenti, la zona è circondata da carri armati americani, si combatte. Cala la notte. " [MAN]
"CRONISTI AL FRONTE L'inarrestabile reporter tecnologico Nel 1991 la parabola della Cnn pesava due tonnellate, oggi un videotelefono pesa 4 chili Ci sono almeno mille cronisti nel cosiddetto «teatro delle operazioni». Grazie ad apparati leggeri e potentissimi è difficile impedire loro di arrivare in prima linea, ed è quasi impossibile tenerli tutti sotto controllo. Raccontano tanto, infastidiscono molto. E pagano troppo ROBERTO ZANINI Circa cinquecento cronisti «embedded», altri cinquecento di stanza a Baghdad - contando tutti, dai 150 reporter veri e propri a tecnici, traduttori, autisti e informatori vari senza i quali il giornalista è un utensile perfettamente inutile. Fa un totale di oltre mille addetti alla notizia in servizio permanente effettivo nel cosiddetto «teatro delle operazioni». E' un letale sciame di mosche che si fa i fatti di chiunque, tutti muniti di satellitare o dell'onnipresente videotelefono o del ministrasmettitore parabolico. Molti senza alcun vincolo patriottico o fedeltà di bandiera editoriale, anzi con i rispettivi editori o paesi robustamente contrari alla guerra. In poche parole, questa volta i giornalisti sono, nel loro complesso, inarrestabili. E pagano un conto salato. C'è una guerra che si combatte sul fronte dell'informazione, ma è sul fronte vero e proprio che i giornalisti muoiono. La propaganda americana e quella irachena (con una sproporzione di mezzi analoga a quella militare) si battono anche sulla stampa e nell'etere, ma undici reporter morti in venti giorni sono tanti, tantissimi. Molti meno dei civili iracheni, rispetto ai quali i giornalisti stanno qualche gradino più in alto nella scala dei rischi affrontabili. Bisogna bombardare laggiù? Che si faccia, e se ci vanno di mezzo gli edifici civili che sorgono colpevolmente sulla linea di tiro, peccato. Bisogna bombardare dall'altra parte? Fuoco, e se si rischia di prendere una macchina di giornalisti chiederemo scusa. Ma ieri a Baghdad non c'era un'auto di giornalisti, che è una cosa piccola, semovente e chissà chi c'è dietro quella portiera con la scritta TV tracciata col nastro adesivo da cui spunta una telecamera che sembra un mitra. Ieri a Baghdad ce n'era un albergo pieno, fermo immobile come gli alberghi sogliono essere, notoriamente zeppo di cronisti. Provare che il carro armato americano ha sparato appositamente è difficile. Non pensarlo è impossibile.
L'operazione Iraqi freedom è la guerra più vista e televista della storia? In parte è vero, nel senso che l'apparenza bellica del conflitto è stata raccontata con un flusso di informazioni che non ha pari in nessun altro conflitto precedente. Il Pentagono ha accettato un grande numero di cronisti al seguito perché gli «embedded», lo dicono anni di studi sul campo (ne esiste uno molto preciso sui cronisti di guerra britannici alle Falkland) tendono a identificarsi con le unità militari a cui sono incorporati, e alla fine parlano di «noi» per definire i marines e di «loro» per gli iracheni, con positivi effetti sul racconto della guerra da parte di chi li ha imbarcati. I pregi, però, confinano con i difetti: senza l'«embedded» che si trovava dalle parti alla tenda in cui un sergente americano impazzito ha fatto rotolare alcune bombe a mano, nessuno avrebbe saputo nulla per mesi o anni. Senza l'«embedded» del Washington Post entrato a Nassyria, mucchi di cadaveri non sarebbero mai stati descritti. Altri non sono stati così coscenziosi, o non hanno voluto o potuto vedere, ma i giornalisti sono fatti così e a riscattarli basta poco.
Il fatto che i reporter spuntino dappertutto, però, non si deve solo alla scelta politica degli eserciti in campo - che pure hanno agito in questo senso. Si deve in massima parte all'evoluzione della tecnologia dell'informazione. I cronisti radiofonici della Bbc durante la Battaglia d'Inghilterra, nel 1940, giravano con un registratore che pesava una quindicina di chili, e non trasmetteva ma incideva soltanto. In Vietnam bisognava girare come al cinema, giornalista operatore e fonico, e con gli stessi tempi di sviluppo. Nel Golfo 1991 Peter Arnett trasmetteva su quattro linee dedicate, aggirando gli snodi telefonici locali interrotti dalla guerra, e l'apparato satellitare della Cnn per le dirette pesava due tonnellate. In Iraq, oggi, il pezzo tecnologico del momento è il videotelefono satellitare della 7-E, quello che trasmette le immagini con quel vago effetto «camminata sulla luna». Si chiama TH1 (Talking head 1), è una valigetta di 35 centimetri per 25, funziona da dieci sottozero a sessanta gradi, si alimenta con qualsiasi cosa da 90 a 260 volt o con la batteria dell'automobile, costa da 10mila dollari in su, pesa quattro chili. Esordì prima dell'11 settembre in Cina: con quel videotelefono la Cnn fece vedere l'equipaggio di un aereo spia atterrato per un guasto in Cina, causando una crisi mondiale. Da allora è obbligatorio per i network.
Per le immagini di alta qualità, invece, l'ultimo grido è il piatto satellite Swe-Dish: 40 chili in tutto compreso il «padellone», sta in una valigia e si accende in un minuto, serve un solo operatore, costo da 100mila dollari in su. Le aziede che servono i giornalisti sono le stesse che servono il Pentagono: di stazioni satellitari per tv ne fa un modello anche la Raytheon, quella che produce le cluster bomb. Pesa appena un po' di più del concorrente Swe-dish, e costa uguale.
Nella guerra tra Stati uniti e Messico l'unico reporter sul campo spediva il dispaccio con un mix di messaggero a cavallo, battello a vapore e un'innovativa tecnologia figlia dell'elettrificazione: il telegrafo. Batteva in velocità anche i dispacci dell'esercito. Era il 1846, e l'impero era un embrione."
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"Cannonate sulla stampa Tre giornalisti uccisi a Baghdad: un giordano, uno spagnolo e un ucraino. Un carro armato Usa prende di mira l'hotel Palestine. «Si è difeso dai cecchini», sostiene il comando americano. Ma tutti i reporter negano. «Ci ha visto, sono sicuro che ci ha visto», dichiara il corrispondente di Sky News. Impossibile ormai documentare gli eventi. Gli iracheni ci hanno impedito di filmare le condizioni disastrose di un ospedale. La nostra inviata fermata e minacciata da un gruppo di feddayn, probabilmene siriani ed egiziani GIULIANA SGRENA INVIATA A BAGHDAD Sono quasi le cinque del mattino quando i cannoneggiamenti ricominciano e, annunciati da un fragore infernale, anche gli A-10 entrano in azione per lanciare i loro missili aria-terra che si dice siano in grado di sparare fuori 1.000 proiettili al minuto. E' l'alba, sopra Baghdad. Tareq Ayoub è un giordano di 34 anni, è qui soltanto da tre giorni e non se la sente di lasciare il tetto del palazzo dove ha i suoi uffici la televisione per cui lavora, al Jazeera, nemmeno se il fuoco diviene più intenso. La tv del Qatar si trova proprio sulla riva del Tigri, dalla parte dove sono arrivati gli americani. Una posizione decisiva per fare la cronaca dell'invasione. Ayoub filma tutto, e non si muove. E non si muoverà più, perché non appena le cannonate cessano il suo collega lo trova morto, così, da solo, sul tetto. La giornata peggiore per la stampa internazionale comincia nel sangue. Testimoniare quel che succede è sempre più difficile e pericoloso. All'hotel Palestine, dove sono riuniti quasi tutti i giornalisti del mondo rimasti nella capitale irachena per documentare questa guerra, l'eco della morte del collega giordano non si è ancora spenta. E' più o meno mezzogiorno, quando i fatti precipitano.
A qualche centinaio di metri, un tank M-1 sposta lentamente il suo cannone e lo punta sull'albergo. Più tardi, il filmato di un collega francese dimostra che il carro armato non ha dato alcun segno di nervosismo: il cannone si solleva con calma, resta immobile per un paio di minuti quasi prendesse la mira e poi spara.
Eravamo tutti lì, abbiamo sentito un boato fortissimo e abbiamo pensato che fosse caduto un missile vicino all'albergo. Invece, nelle stanze d'angolo al quattordicesimo e al quindicesimo piano, due reporter erano stati maciullati dal colpo. Racconta Ferdinando Pellegrino, del giornale radio Rai, tra i primi ad accorrere alle grida: «Josè Couso, di Telecinco, era a terra con un osso di fuori e una gamba quasi staccata dal corpo». Couso è in una pozza di sangue, e arriva già morto all'ospedale: aveva 37 anni e lascia la moglie e due figli. Un secondo collega, della ufficio Reuters al piano di sopra, Taras Trotsyuk, ucraino, 35 anni, è ferito in modo gravissimo e non ce la fa. Era un veterano, tra gli inviati di guerra: aveva lavorato in Cecenia, in Afghanistan e nei Balcani. Altri feriti, una fotografa libanese, altri due giornalisti dell'agenzia britannica. Sconcerto e rabbia tra tutti i presenti: a fine giornata, si organizza una fiaccolata.
Nel pomeriggio, il comando americano ammette che il carro armato ha sparato: «Per difendersi dai cecchini sul tetto dell'albergo e comunque avevamo avvertito i reporter che era pericoloso rimanere a Baghdad». Ma qui nessuno ha visti i cecchini e la versione non viene accreditata. Dice il corrispondente di Sky News, David Chater: «Non si è trattato di un incidente...non ho sentito un solo colpo provenire da nessuna zona qui intorno...Devono averci visto, ci hanno visto, noi li abbiamo visti, non c'è stato assolutamente nessun errore, sapevano che eravamo lì».
Non pensavamo di essere un obiettivo degli americani, anche se sicuramente l'informazione che viene da questa parte del fiume è scomoda per Bush. Il Pentagono ha fatto di tutto per imporre il ritiro dei giornalisti presenti a Baghdad, e non solo quelli americani. E quello di ieri è stato un ulteriore avvertimento, rinforzato dal monito che «la capitale è una zona di guerra a rischio» dove non si può assicurare nulla.
Questa è l'altra faccia della guerra, l'effetto delle bombe che cadono su una città di cinque milioni di abitanti, allo stremo, tenuta in ostaggio, senza che la comunità internazionale si preoccupi nemmeno di chiedere l'apertura di un corridoio umanitario.
Gli americani cominciano a manifestare nervosismo, cominciano a temere di non essere accolti come i liberatori dalla popolazione irachena: incontreranno i soldati, la Guardia repubblicana, i feddayn di Saddam, i miliziani del partito Baath, i civili che si oppongono all'occupazione. Probabilmente anche cecchini. La guerra è sempre sporca e questa lo è più che mai. Gli americani dovrebbero saperlo.
Non che da questa parte del fiume fili tutto liscio, lo abbiamo provato ieri mattina, quando volevamo andare all'ospedale al-Kindy per testimoniare delle vittime civili, oltre che militari, della guerra. Ci avevano parlato di scene tremende, di molti morti e ancor più feriti. Ma all'ospedale non ci siamo arrivati. Abbiamo preso la Saadoun street, un tempotra le vie più affollate di Baghdad ed ora sempre più deserta, alla fine della strada, dove si svolta sulla piazza Tahrir (della liberazione) avevamo notato un movimento di militari e volontari, volevamo riprendere la scena con una piccola telecamera. Che abbiamo subito nascosto quando ci siamo resi conto che la situazione era molto tesa. Troppo tardi. In un baleno ci siamo ritrovati circondati da dieci-quindici feddayn che ci puntavano addosso bazooka e kalashnikov: «Dammi la telecamera o ti ammazzo». Inutile negare troppo a lungo, avevano l'aria di voler mantenere la promessa. Il loro numero aumentava, non c'era via di scampo. Dopo avermi preso la telecamera mi hanno tirato fuori dalla macchina e sbattuta su un'auto della polizia arrivata in quel momento, malamente incastrata tra i kalashnikov, dopo che il poliziotto mi aveva puntato la sua rivoltella. La situazione era veramente preoccupante, anche perché i feddayn, tutti ragazzi giovani e, a giudicare dall'accento, non iracheni ma egiziani e siriani, erano particolarmente assatanati. Dalla piazza al Tahrir, alle loro spalle, parte infatti il ponte Jumuriya su cui stavano avanzando i carri armati americani. Ce la siamo cavata solo perché un poliziotto, di grado più elevato, intervenuto per vedere cosa succedeva, alla fine ha capito che non si trattava di spie ma di giornalisti e ci ha tratti in salvo. Con le spie o presunte tali, come sempre del resto in caso di guerra, non si va tanto per il sottile.
La situazione sta degenerando di ora in ora. I rischi sono sempre maggiori. I cannoni continuano a tuonare, i caccia volano bassi, sempre più visibili. Si sentono i boati delle bombe. Quando arriveranno da questa parte del fiume? Si teme un massacro. Quest'agonia è insopportabile.
Intanto, i carri armati Abrahms avanzano, anche se lentamente. La battaglia per l'occupazione di Baghdad non subisce battute d'arresto, come aveva lasciato intendere il Pentagono, evidentemente le truppe anglo-americane non hanno la possibilità di scegliere di entrare e uscire con grande facilità dalla città, come avevano annunciato. Quindi cercano di mantenere le posizioni conquistate, a tutti i costi. La mattina, i carri armati hanno puntato verso il ponte Jumuriya, ma si sono fermati lì, non si sa se perché incontrano resistenza da questa parte del fiume o perché aspettano i rinforzi che devono arrivare da sud-est. " [MAN]
"Le bombe su Al Jazeera I giornalisti arabi chiedono aiuto alla Croce Rossa: sono sotto tiro MA.FO. Aveva mandato in onda un servizio alle 5,10 del mattino, ora locale: «E' la calma che precede la tempesta, o le due parti si danno una breve tregua? E' una calma inspiegabile», esordiva da Baghdad Tareq Ayoub, corrispondente di Al Jazeera. Poco dopo la tempesta è arrivata. Di prima mattina un attacco aereo prende di mira gli uffici della tv satellitare araba, non lontano dal ministero dell'informazione, accanto alla redazione di Abi Dhabi Tv. Tareq Ayoub è colpito in pieno, muore poco dopo in ospedale. Ferito, non grave, anche il cameraman Zohair al-Iraqi. Poi l'attacco al Palestine Hotel... «Noi non prendiamo parte a questa guerra, noi siamo solo giornalisti»: visibilmente scosso, Tayssir Allouni, uno dei più noti corrispondenti di Al Jazeera, ha dato la notizia dagli schermi tv. Dalla sede centrale, Al Jazeera commenta: «Crediamo che la reale vittima è il giornalismo e l'integrità professionale»: si riferisce all'attacco contro tutti i reporter, e ai propri. Commenta Alluoni: «Che sia stato per caso o in seguito a un atto deliberato, il martire Tareq Ayoub ha raggiunto gli altri martiti della libertà d'informazione».
La direzione di Al Jazeera dice che prima della guerra aveva comunicato al Pentagono sull'ubicazione dei suoi uffici in Iraq. La tv con sede in Qatare quella di Abu Dhabi, sono i soli due media che avevano negoziati mesi fa con le autorità irachene e ottenuto il permesso di avere uffici propri, mentre le altre tv hanno avuto obbligo di lavorare al ministero dell'informazione (fino a pochi giorni fa, quando sono stati tutti trasferiti al Palestine Hotel). Ora i loro uffici nel distretto governativo sono di fatto sulla linea del fronte (e non è detto che l'Hotel Palestine non ci si trovi tra poco). Questo spiega l'appello lanciato ieri dal corrispondente di Abu Dhabi Tv: la Croce Rossa internazionale aiuti a evacuare il loro personale da Baghdad, 27 persone tra giornalisti e tecnici, sotto il fuoco incrociato.
Tareq Ayoub, 35 anni, giordano, lascia una figlia di un anno; lavorava dal '98 per Al Jazeera.
Se l'attacco contro i giornalisti a Baghdad ha sollevato proteste ed emozione un po' ovunque, l'attacco contro Al Jazeera ha suscitato una particolare onda di shock nei paesi arabi. Nessuno crede a un errore involontario. La rete satellitare del Qatar è stata criticata da Usa e Gran Bretagna per aver mandato in onda le immagini ricevute dalla tv irachena con i prigionieri di guerra americani, o le quotidiane immagini di civili iracheni vittime delle bombe e dei combattimenti. Così ieri pomeriggio il sindacato dei giornalisti giordani ha convocato una manifestazione immmediata davanti alla sede del sindacato, a Amman, con cartelli come: «E' questa la libertà di parola che avete portato con le vostre bombe?». Decine di giornalisti palestinesi hanno manifestato a Nablus, in Cisgiordania.
A Beirut il ministro libanese dell'informazione dice che agirà per processare i militari Usa davanti al Tribunale internazionale per gli attacchi alla libertà di stampa: ha sostenuto che questi attacchi «sono determinati dalla volontà di agire a Baghdad senza testimoni, per completare l'opera di macelleria»." [MAN]
"Piovono bombe su Baghdad Nella capitale irachena le colonne blindate Usa si spingono sulla sponda orientale del Tigri e prendono l'aereoporto militare al Rashid. La Croce Rossa: emergenza negli ospedali. Presa anche Hilla, bombe su Kirkuk MA. FO. Piovono bombe, diceva ieri mattina l'inviata della Reuter a Baghdad, Samia Nakhoul (più tardi rimasta ferita dal colpo di mortaio piovuto sul Palestine Hotel ). Dall'alba in effetti, e per gran parte della giornata, bombe e colpi d'artiglieria sono piovuti su gran parte della capitale irachena, mentre le forze Usa hanno lanciato diversi attacchi aerei e da terra. Fino a sera, quando sulla città è piombata una calma quasi irreale. Come sempre, alla guerra materiale si aggiunge la guerra di propaganda. A tarda sera le forze americane affermavano di tenere una zona della città che comprende tutto il distretto dei palazzi governativi, sulla sponda orientale del Tigri, compreso l'hotel Al Rashid e tutti i grandi ministeri, e almeno tre ponti sul fiume. Bisognerà aspettare questa mattina per verificare la notizia: ieri in quei luogo si combatteva.
Da ieri mattina la tv di stato irachena ha interrotto le trasmissioni, poco dopo è scomparsa dall'etere anche la radio, e un portavoce militare statunitense a Doha ha commentato: il regime non è più in grado di diffondere le sue bugie. A metà mattina il ministro dell'informazione iracheno Mohammed Saeed al Sahaf aveva comunque tenuto la sua usuale conferenza stampa (ieri il New York Times lo ha definito «una versione irachena di Donald Rumsfield con retorica sovietica»). Il ministro Sahaf ha snocciolato la solita litania di vittorie, e alla domanda se il suo governo non pensa di arrendersi ha risposto che le forze americane devono arrendersi, o «saranno incenerite nei loro carrarmati».
La giornata di ieri ha segnato una progressione delle colonne blindate Usa da ovest, da sud-est e pare anche da nord verso il centro della città. Prima la zona dei grandi palazzi governativi, sulla sponda occidentale del Tigri. Il ministero dell'informazione ormai sembra completamente distrutto, secondo testimonianze riportate dalla reuter. Non lontano dal ministero, la sede delle tv arabe Al Jazeera e Abu Dhabi Tv è stata centrata da un attacco aereo. Altri combattimenti sono scoppiati attorno a un palazzo presidenziale già tenuto dagli americani quando forze irachene hanno tentato di riprendere la posizione. Le colonne blindate sono quindi avanzate fino al fiume: intorno alle 9 pesanti scambi di fuoco su due ponti chiave nel centro città, il Jumhuriya e il Sinak, da cui carrarmati Abraham hanno aperto il fuoco su diversi obiettivi sulla sponda orientale. Erano circa le 10 quando tra gli obiettivi è entrato il Palestine Hotel.
Battaglia sulla sponda est
Più o meno in quel momento l'altra colonna americana, quella che avanza da sud-est dopo aver passato un affluente del Tigri, ha lanciato un'offensiva all'aereoporto militare Al-Rashid, a circa 5 chilometri dal centro: in tarda mattinata hanno annunciato di averlo preso senza trovare resistenza (i giornalisti hanno però visto un'intensa battaglia).
Nel primo pomeriggio le truppe Usa che avevano preso i ponti del centro città si sono mosse, strada per strada, nella parte orientale di Baghdad: un corripondente della Reuter dice che hanno trovato il fuoco di armi leggere da parte di milizie. La tv di Abu Dhabi ha mostrato gruppi di miliziani giovanissimi, in abiti civili e bandane nere sulla fronte (o neppure quelle) e qualche lanciarazzi tenuto a spalla. Non sembra una resistenza molto organizzata.
Per la prima volta ieri sono comparsi sul cielo di Baghdad anche gli elicotteri Apaches, per appoggiare le azioni condotte a terra dalle colonne blindate. Intanto un caccia A10 Warthog americano si è schiantato vicino all'aereoporto internazionale, colpito da un missile terra-aria (il pilota è salvo).
I commenti dei portavoce militari sono atati molto occupati da considerazioni sulle bombe sganciate la notte tra lunedì e martedì su al Mansur, zona residenziale nella parte occidentale della città, su un certo palazzo dove - hanno detto poi i portavoce - potevano trovarsi il presidente Saddam Hussein e i suoi figli. Quattro bombe da 2.000 tonnellate ciascuna. Nove iracheni sono stati uccisi, 4 feriti. Ma i portavoce del Comando centrale della coalizione anglo-americana ieri non sapevano dire se la famiglia presidenziale sia stata davvero colpita. Tutto questo ha un risvolto su cui però il comando americano sorvola.
L'emergenza negli ospedali
E' il Comitato internazionale per la croce Rossa a parlarne, in modo sempre più allarmato. Gli ospedali di Baghdad, e dei sobborghi della capitale ovunque siano in corso combattimenti, sono in situazione di emergenza, ricevono feriti a un ritmo cui non riescono a far fronte. «Nessuno riesce a controllare ogni ospedale, non abbiamo cifre precise, ma il numero dei feriti tra la popolazione civile è molto alto», ha detto a Ginevra un portavoce dell'organizzazione mondiale della Sanità. «Gli ospedali sono al limite delle proprie possibilità. Il personale iracheno lavora 24 ore al giorno» da quando è cominciata l'offensiva attorno alla capitale, cioè sabato, dice il direttore della Croce Rossa internazionale a Baghdad, Roland Huguenin-Benjamin. Ieri i suoi delegati sono riusciti a visitare il complesso ospedalieri Medical City, 650 letti, uno dei meglio attrezzati: solo sei delle 24 sale operatorie riescono a lavorare, e in una giornata devono operare fino a 60 interventi. Così il materiale chirurgico scarseggia, la Croce Rossa ieri ha portato rifornimenti di emergenza. Lunedì erano riusciti a fare altrettanto all'ospedale Kindi. Sia gli ospedali che gli impienti di pompaggio dell'acqua lavorano con i generatori di emergenza: gran parte di Baghdad sarà tra poco senz'acqua.
Altre battaglie però sono in corso in Iraq. Continua l'avanzata dei marines a Al Hilla, e anche qui è condotta con raid aerei, carrarmati e artiglieria - contro una resistenza di armi automatiche leggere e granate montate su lanciarazzi. Nel pomeriggio i portavoce Usa hanno annunciato di aver preso la città.
Soprattutto continua la guerra sul fronte settentrionale. I bombardamenti sono stati tra i più intensi finora, in particolare su Kirkuk, durante la notte e all'alba di ieri. Le forze speciali Usa stanno cercando di impedire che le forze della Guardia repubblicana dislocare a Kirkuk si spostino a sud, a Tikrit, la città da cui prviene l'intero clan di Saddam Hussein.
Ieri sera un portavoce del Pentagono (versione americana del ministro Sahaf?) ha affermato che la leadership irachena impartisce ordini alle sue forze ma «non sembrano molto coordinati». Ha aggiunto che la Guardia Repubblicana ha ancora «potenziale per qualche colpo». " [MAN]
"BASSORA L'amministrazione affidata a un capo tribù L'esercito britannico ha affidato a un capo tribù l'incarico di formare un'amministrazione civile provvisoria a Bassora, la seconda città dell'Iraq, ormai sotto il pieno controllo delle truppe occupanti. Lo ha annunciato il portavoce militare Chris Vernon: «Siamo stati avvicinato da un capo tribale locale, uno sheick», ha detto; ha rifiutato per il momento di farne il nome ma ha detto che si tratta di persona «credibile e di valore». «Gli abbiamo chiesto di formare un comitato rappresentativo della comunità locale» per gestire l'amministrazione, dice il portavoce britannico: «Questa non è la ex-Jugoslavia, non è l'Afghanistan. La provincia di Bassora sostanzialmente ha un'infrastruttura civile che funziona». E «Bassora ora è libera, gli ultimi elementi del regime del Baath si sono spenti», dileguati. Ieri la città era controllata da veicoli militari ai maggiori incroci stradali. Il traffico stradale è ripreso. Ma continuano anche saccheggi, benché diminuiti rispetto a lunedì, e i cittadini si lamentano del caos piombato in città.
«Stiamo ancora cercando di consolidare la sicurezza, poi rivolgeremo l'attenzione alle questioni di legge e ordine. Per questo cercheremo di usare ciò che è rimasto della polizia locale», ha detto Vernon. I momento è critico e tra la popolazione ieri i reporter hanno raccolto commenti sempre più rabbiosi: l'acqua ricomincia a mancare, con l'arrivo delle truppe britanniche gli addetti alla manutenzione degli impienti di pompaggio sono fuggiti (erano impiegati dell'amministrazione pubblica), informano i delegati del Comitato internazionale per la Croce Rossa. Non abbiamo ancora notizie precise sul bilancio umano dell'assedio durato due settoimane, ma ieri le tv mostravano persone che andavano a cercare parenti e dispersi. Le truppe britanniche hanno cominciato a distribuire acqua potabile in quattro punti di distribuzione in città, la corrente elettrica è stata riallacciata."
--------------- AIUTI UMANITARI ---------------
"Ricatto «umanitario» Gli Usa vogliono il monopolio degli aiuti per le popolazioni civile irachene. Bloccate le Ong Monopolio Fermi al confine giordano i soccorsi non made in Usa, ma anche quelli «autorizzati». Mentre nel paese attaccato dagli americani manca tutto MICHELE GIORGIO INVIATO AD AMMAN La Giordania sarà il «corridoio umanitario» degli aiuti americani all'Iraq. E le altre organizzazioni internazionali, le Ong, le tante associazioni di altri paesi che non aspettano altro che di portare soccorso (e anche solidarietà politica) all'Iraq? A questa domanda non risponde l'articolo pubblicato ieri dal Jordan Times che riferiva del «corridoio umanitario» che le agenzie ufficiali americane «Usaid» e «Dart» (Disaster assistance response team) pensano di mettersi a disposizione. Le condizioni della popolazione civile irachena si aggravano con il passare dei giorni ma gli Stati Uniti continuano a porre ostacoli ai piani di quelle organizzazioni e Ong internazionali che non accettano di entrare nel canale americano degli aiuti umanitari. Gli Usa nelle scorse settimane avevano indicato che l'assistenza alimentare e medica ai civili iracheni deve passare dalla frontiera meridionale, quella tra Kuwait e Iraq. Successivamente hanno anche nominato un loro rappresentante ad Amman, incaricato di coordinare gli interventi umanitari: ma sempre dal Kuwait, allo scopo di dimostrare che oltre alle bombe gli Usa portano anche un po' di scatolette e bottiglie di acqua ad una popolazione stremata dalla guerra. Ora è la Giordania il territorio preferito per il «corridoio umanitario». Immediata è stata l'apparizione sulla scena di Usaid e Dart. Lunedì i rappresentanti di Dart e funzionari dell'ambasciata statunitense ad Amman hanno organizzato un «tour» alla periferia della città, dove i giornalisti hanno potuto visitare depositi e magazzini già pieni di aiuti americani. Sui contenitori e sacchi di plastica pieni di cibo, abiti, coperte e medicine, c'è la scritta: «Un regalo del popolo degli Stati Uniti». Gli iracheni in questi giorni hanno potuto «apprezzare» gli altri regali, esplosivi e devastanti, ricevuti dagli americani. «Siamo solo all'inizio della risposta Usa all'emergenza umanitaria», ha commentato soddisfatto Michael Marx, uno dei dirigenti di Dart. Marx - che cognome! - tuttavia ha dovuto riconoscere che gli iracheni potrebbero non accettare gli aiuti di chi ha distrutto il loro Paese. «E' ancora presto per dire se gli iracheni accetteranno i nostri aiuti. In ogni caso non metteremo a rischio i nostri operatori umanitari», ha aggiunto Marx ammettendo perciò che la popolazione dell'Iraq potrebbe reagire persino con violenza a questo intervento americano sfacciatamente ipocrita. I non-americani nel frattempo continuano ad accumulare aiuti nel villaggio beduino di Ruwaished, ad una settantina di chilometri tra Giordania e Iraq, nella speranza di potersi dirigere al più presto a Baghdad e nelle altre città irachene. Aiuti che dovevano servire per le centinaia di migliaia di profughi iracheni che si aspettavano in conseguenza della guerra. Ora invece attendono di entrare in Iraq. Tutto però dipende da Washington che controlla quasi interamente il territorio iracheno e continua a ripetere che i 600 Km tra la frontiera giordana e Baghdad rimangono «insicuri». In realtà l'unico pericolo sono i razzi e le bombe che i cacciabombardieri americani potrebbero sganciare «per errore» sui convogli umanitari. Rimane oscura inoltre la posizione delle agenzie dell'Onu che, almeno sino a oggi, non hanno esercitato pressioni particolari per ottenere il via libera delle forze di occupazione anglo-americane ad aiuti essenziali per la popolazione. Chi si prepara ad inviare, forse già domani se non ci saranno ostacoli statunitensi, aiuti urgenti in Iraq sono «Un ponte per», Terres des Homme e l'Ics (Consorsio italiano di solidarietà), che rappresentano una parte di quella trentina di Ong e associazioni che hanno aderito al «Tavolo di solidarietà con il popolo iracheno». Ad Amman sono presenti al momento Stefano Kovac dell'Ics e Luca Barletti di Terres des hommes. Insieme stanno predisponendo l'invio di due camion carichi di 40 tonnellate di medicinali e materiali di prima necessità per gli ospedali iracheni che da tre settimane stanno affrontando una situazione di emergenza. L'iniziativa ha inoltre un importante significato politico poichè chi aderisce al «Tavolo» è deciso a rifiutare gli aiuti governativi italiani in aperta polemica con la posizione assunta dal governo Berlusconi nella crisi che è sfociata nell'aggressione anglo-americana all'Iraq. Un rifiuto che potrebbe estendersi a tutte quelle parti che contribuiscono o sostengono politicamente l'attacco di Usa e Gb, ma su questo punto il dibattito è ancora aperto. " [MAN]
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