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[cronologie di guerra] 08.04.03 ventesimo giorno
by blicero Wednesday April 09, 2003 at 01:07 PM mail:  

[cronologie di guerra] 08.04.03 ventesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.


08aprile 2003 : ventesimo giorno
[fonti : quotidiani del 9 aprile 2003]

"Un carro armato americano fa fuoco contro l'albergo della stampa a
Baghdad, un missile colpisce la sede di Al Jazeera Muoiono tre
giornalisti, altri tre sono feriti «E' stata autodifesa», dice il
comando Usa La rabbia dei reporter: «Nessun cecchino» Battaglia
violentissima nella capitale A Belfast, Bush e Blair si dividono l'Iraq:
«L'Onu? Per ora governiamo noi»" [MAN]

"INFORMAZIONE: MORTI IN 11
Con la morte di tre giornalisti uccisi ieri sale a 11 il triste
conteggio delle persone decedute mentre erano impegnate a «raccontare la
guerra». Tra giornalisti «arruolati», free-lance, della televisione e
della carta stampata il bilancio è pesante e mette in difficoltà gli
angloamericani.
22 MARZO
Muoiono i primi due inviati. Si tratta di Terry Lloyd della tv
britannica «Indipendent Television News», morto nel sud dell'Iraq
probabilmente colpito dal «fuoco amico» tra forze angloamericane, e Paul
Moran, il cameraman che lavorava per l'Abc australiana.
30 MARZO
Il cadavere di Gaby Rado, reporter della tv britannica Channel 4, viene
ritrovato nel parcheggio di un albergo in Kurdistan. Si pensa sia caduto
dal tetto, forse per cause accidentali.
2 APRILE
Kave Golestan resta ucciso da una mina anti-uomo a pochi chilometri da
Kirkuk, nel nord dell'Iraq. Muore così il fotografo iraniano, premio
Pulitzer per la fotografia che lavorava anche come cameraman della Bbc.
4 APRILE
Perde la vita il primo giornalista «embedded», arruolato. Michael Kelly,
nota firma del Washington Post ed ex direttore della rivista Atlantic
Monthly muore in un incidente lungo la via di Baghdad insieme a un
soldato americano della Terza divisione di fanteria.
6 APRILE
David Bloom, americano e conduttore dell'edizione del programma «Today»
della Nbc, muore per un'embolia polmonare mentre è al seguito della
Terza divisione dell'esercito.
7 APRILE
In seguito ad un attacco delle forze irachene contro il centro di
comunicazioni Usa a sud di Baghdad restano uccisi, insieme a due
marines, lo spagnolo Julio Anguita Parrado e il tedesco Christian
Liebig. Il primo corrispondente del quotidiano El Mundo, il secondo
inviato del settimanale Focus.
IERI
Tareq Ayoub, un giornalista giordano di Al Jazeera muore per il
bombardamento dell'ufficio della televisione del Qatar adiacente al
ministero dell'informazione. Quindi, poco dopo, un colpo di un carro
armato Usa colpisce due piani dell'Hotel Palestine, sede della maggior
parte dei giornalisti internazionali presenti a Baghdad. Nell'esplosione
restano uccisi Taras Prosyuk, cameraman ucraino della Reuters e José
Couso, cameraman di Telecinco.
VIOLATA «GINEVRA»
Per il «Comitato per proteggere i giornalisti» di New York, gruppo
impegnato a difendere la libertà dell'informazione, l'attacco dei
militari usa contro l'Hotel Palestine viola la Convenzione di Ginevra.
Il Cpj ha inviato una lettera di protesta al segretario della difesa
statunitense Ronald Rumsfeld condannando «come un grave atto» il raid
sulla sede dei giornalisti. «Riteniamo che questo attacco violi la
convenzione di Ginevra - si legge nella lettera. Mentre gli ufficiali
hanno espresso rammarico per i morti in questi attacchi e hanno
affermato che di non aver preso di mira i giornalisti, hanno però
lasciato intendere che non intendono assumersi la responsabilità di
proteggere l'operato indipendente dei giornalisti in Iraq. Nella
conferenza stampa a Doha in Qatar - continua la lettera - il generale
Vincent Brooks afferma che mentre i giornalisti "arruolati" ricevono
protezione dai militari, quelli che operano come "non al seguito" lo
fanno a loro rischio e pericolo». Il Cpj ricorda quindi di aver già
inviato una lettera a Rumsfeld sottolineando proprio che il pericolo
potenziale in cui incorrono i giornalisti indipendenti non «assolve i
militari Usa dalla loro responsabilità di non mettere a rischio i media
che operano in postazioni conosciute»." [MAN]


"Taras Protsyuk
Ucraino, residente a Varsavia, 35 anni, Protsyuk era un cameraman della
Reuters. E' morto mentre lo trasportavano in ospedale dopo
la cannonata sparata da un tank americano sull'Hotel Palestine "
"Jose Couso
Cameraman della spagnola TeleCinco, Couso aveva 37 anni, sposato, due
figli. E' il secondo giornalista spagnolo a morire a Baghdad in
altrettanti giorni: l'altro giorno era stato ucciso Julio Parrado,
inviato di El Mundo "
"Tareq Ayyoub
Giornalista e producer di Al Jazeera, Ayyoub è stato ucciso in un
bombardamento americano che ha colpito la sede della tv del Qatar poco
prima della cannonata sparata contro l'Hotel Palestine "

"L'autodifesa del Pentagono. Il mondo accusa
Le forze americane sul banco degli imputati per l'uccisione di tre
giornalisti a Baghdad: «Ci siamo solo difesi». Dura protesta delle
associazioni della stampa. Secondo il ministero della difesa spagnolo,
l'hotel Palestine era stato dichiarato da giorni «obiettivo militare»
FRANCESCO PATERNO'
Non prenderemmo mai di mira intenzionalmente gli esponenti dei media».
Nel giorno di guerra più cruento per la stampa internazionale - tre
morti e quattro feriti nel cuore di Baghdad - il Pentagono passa e
chiude. Aidan White, segretario dell'International Federation of
Journalists (Ifj), che ha migliaia di iscritti in tutto il mondo, chiede
invece un'indagine su possibili crimini di guerra contro giornalisti.
«E' difficile credere che sia stato un errore», accusa Severine Cazes,
dell'associazione Giornalisti senza frontiere. L'americano Committee to
Protect Journalists parla di violazione della Convenzione di Ginevra e
annuncia prossime azioni legali contro il Pentagono. Ma dopo un giorno
di scambi di accuse, testimonianze, voci e smentite, la domanda resta
legittima più che mai: ieri a Baghdad gli americani hanno colpito
apposta gli uffici di Al Jazeera e l'hotel Palestine, uccidendo nel
primo caso un giornalista e ferendo un cameraman, nel secondo uccidendo
un cameraman spagnolo di Tele 5, un ucraino della Reuters e ferendo
altri tre giornalisti dell'agenzia britannica?

La ricostruzione degli avvenimenti lascia pochi dubbi sull'andamento dei
fatti. Il Pentagono, finito subito sul banco degli accusati, ha negato
che le forze armate americane abbiano sparato deliberatamente contro i
giornalisti, ma ha ribadito che «restare a Baghdad è pericoloso» e che
comunque «si prendono di mira solo le forze armate ma se si piazzano in
aeere civili, diventano un bersaglio militare legittimo». A Baghdad è
mezzogiorno ora locale quando un carro armato americano punta il cannone
contro l'hotel Palestine, dove vivono da oltre un mese circa 300
giornalisti di tutti i paesi. Parte un colpo che sfonda vetri e pareti
di alcune stanze tra il quattordicesimo e il quindicesimo piano. Il
colega della Reuters muore subito, il collega di Tele 5 viene ferito
gravemente, morirà poco dopo nonostante i soccorsi in un ospedale.

Da Doha, il generale americano Vincent Brooke sostiene che dall'albergo
qualcuno ha sparato e il carro armato ha risposto al fuoco. Accusa gli
iracheni di mischiarsi ai civili per combattere. E' la guerra. Ma è una
versione che non sta in piedi: al Palestine decine di giornalisti (per
primo l'inviato dell'emittente inglese per altro più bellicista Sky tv,
David Chater) affermano che nessuno ha sparato dall'hotel e che il carro
armato ha preso bene la mira.

Passano diverse ore e da Washington arriva la versione definitiva del
Pentagono. Secondo il generale Stanley McChrystal, l'equipaggio del
carro armato «aveva il dovere di sparare, per proteggersi e per compiere
la propria missione», agendo per «auto-difesa», poiché attaccati. Da
Madrid arriva in serata un'altra versione inquietante su quel che
potrebbe essere il retroscena della cannonata contro l'hotel della
stampa. L'agenzia spagnola Europa press sostiene che il ministero della
difesa madrileno ha ricevuto la seguente risposta da parte americana
alla richiesta di informazioni sull'attacco contro il Palestine:
l'albergo era stato dichiarato dal Pentagono «obiettivo militare» da
diversi giorni. Per questo motivo, il ministero della difesa ha chiesto
ai direttori dei media spagnoli di richiamare a casa tutti gli inviati a
Baghdad. La notizia confermerebbe un attacco deliberato americano contro
l'albergo. Nella sua edizione on line, il quotidiano El Pais riprende
Europa press mentre l'agenzia Efe e il quotidiano El Mundo «leggono» la
notizia in modo opposto: il Palestine è stato dichiarato «obiettivo
militare» da parte degli iracheni. Fatto curioso, a dire il vero.

Cosa sanno davvero il governo spagnolo e gli altri governi alleati, a
questo punto? A Roma il ministro Giovanardi riesce a smentirsi da solo
nel giro di mezz'ora quando mette in dubbio perfino che un tank
americano abbia sparato. Frattini, che invece vede la Cnn, parla di
«incidente grave». Al governo italiano risulta in qualche modo che il
Palestine fosse stato dichiarato «obiettivo militare»? Di sicuro, sabato
scorso gli inviati italiani a Baghdad (tra cui la nostra Giuliana
Sgrena) hanno ricevuto una preoccupata telefonata dalla Farnesina in cui
si consigliava loro di spostarsi «all'ambasciata russa o siriana», per
motivi di sicurezza. Su quali basi informative è scattata la telefonata?

Prima dell'eccidio al Palestine, per la stampa presente a Baghdad la
giornata di ieri era iniziata comunque in modo drammatico. In mattinata
due missili avevano colpito l'ufficio della tv araba Al Jazeera, situato
nel centro della città, lontano qualche chilometro dall'hotel Palestine.
Muore un giornalista, un cameraman rimane ferito. Un errore, ammettono
questa volta gli americani. La direzione di Al Jazeera protesta con
forza contro gli Usa e dà una notizia: il Pentagono era stato informato
preventivamente sulla locazione dei loro uffici. Esattamente il 24 marzo
scorso, con lettera a Victoria Clarke, portavoce del ministero difesa
americano, con le seguenti coordinate: latitudine 33,19, longitudine
44,24, altitudine 63 metri. Impossibile sbagliarsi.

Quasi contemporaneamente, i vicini uffici di Abu Dhabi tv, l'altra
emittente araba che trasmette da Baghdad, vengono colpiti da colpi
sparati da tank americani. Una telecamera sul tetto della casa cade per
un primo colpo, la seconda crolla subito dopo, per fortuna nessuna resta
ferito. La situazione è così critica che la tv araba si appella al
Pentagono: aiutateci a evacuare 25 dipendenti, la zona è circondata da
carri armati americani, si combatte. Cala la notte. " [MAN]

"CRONISTI AL FRONTE
L'inarrestabile reporter tecnologico
Nel 1991 la parabola della Cnn pesava due tonnellate, oggi un
videotelefono pesa 4 chili
Ci sono almeno mille cronisti nel cosiddetto «teatro delle operazioni».
Grazie ad apparati leggeri e potentissimi è difficile impedire loro di
arrivare in prima linea, ed è quasi impossibile tenerli tutti sotto
controllo. Raccontano tanto, infastidiscono molto. E pagano troppo
ROBERTO ZANINI
Circa cinquecento cronisti «embedded», altri cinquecento di stanza a
Baghdad - contando tutti, dai 150 reporter veri e propri a tecnici,
traduttori, autisti e informatori vari senza i quali il giornalista è un
utensile perfettamente inutile. Fa un totale di oltre mille addetti alla
notizia in servizio permanente effettivo nel cosiddetto «teatro delle
operazioni». E' un letale sciame di mosche che si fa i fatti di
chiunque, tutti muniti di satellitare o dell'onnipresente videotelefono
o del ministrasmettitore parabolico. Molti senza alcun vincolo
patriottico o fedeltà di bandiera editoriale, anzi con i rispettivi
editori o paesi robustamente contrari alla guerra. In poche parole,
questa volta i giornalisti sono, nel loro complesso, inarrestabili. E
pagano un conto salato. C'è una guerra che si combatte sul fronte
dell'informazione, ma è sul fronte vero e proprio che i giornalisti
muoiono. La propaganda americana e quella irachena (con una sproporzione
di mezzi analoga a quella militare) si battono anche sulla stampa e
nell'etere, ma undici reporter morti in venti giorni sono tanti,
tantissimi. Molti meno dei civili iracheni, rispetto ai quali i
giornalisti stanno qualche gradino più in alto nella scala dei rischi
affrontabili. Bisogna bombardare laggiù? Che si faccia, e se ci vanno di
mezzo gli edifici civili che sorgono colpevolmente sulla linea di tiro,
peccato. Bisogna bombardare dall'altra parte? Fuoco, e se si rischia di
prendere una macchina di giornalisti chiederemo scusa. Ma ieri a Baghdad
non c'era un'auto di giornalisti, che è una cosa piccola, semovente e
chissà chi c'è dietro quella portiera con la scritta TV tracciata col
nastro adesivo da cui spunta una telecamera che sembra un mitra. Ieri a
Baghdad ce n'era un albergo pieno, fermo immobile come gli alberghi
sogliono essere, notoriamente zeppo di cronisti. Provare che il carro
armato americano ha sparato appositamente è difficile. Non pensarlo è
impossibile.

L'operazione Iraqi freedom è la guerra più vista e televista della
storia? In parte è vero, nel senso che l'apparenza bellica del conflitto
è stata raccontata con un flusso di informazioni che non ha pari in
nessun altro conflitto precedente. Il Pentagono ha accettato un grande
numero di cronisti al seguito perché gli «embedded», lo dicono anni di
studi sul campo (ne esiste uno molto preciso sui cronisti di guerra
britannici alle Falkland) tendono a identificarsi con le unità militari
a cui sono incorporati, e alla fine parlano di «noi» per definire i
marines e di «loro» per gli iracheni, con positivi effetti sul racconto
della guerra da parte di chi li ha imbarcati. I pregi, però, confinano
con i difetti: senza l'«embedded» che si trovava dalle parti alla tenda
in cui un sergente americano impazzito ha fatto rotolare alcune bombe a
mano, nessuno avrebbe saputo nulla per mesi o anni. Senza l'«embedded»
del Washington Post entrato a Nassyria, mucchi di cadaveri non sarebbero
mai stati descritti. Altri non sono stati così coscenziosi, o non hanno
voluto o potuto vedere, ma i giornalisti sono fatti così e a riscattarli
basta poco.

Il fatto che i reporter spuntino dappertutto, però, non si deve solo
alla scelta politica degli eserciti in campo - che pure hanno agito in
questo senso. Si deve in massima parte all'evoluzione della tecnologia
dell'informazione. I cronisti radiofonici della Bbc durante la Battaglia
d'Inghilterra, nel 1940, giravano con un registratore che pesava una
quindicina di chili, e non trasmetteva ma incideva soltanto. In Vietnam
bisognava girare come al cinema, giornalista operatore e fonico, e con
gli stessi tempi di sviluppo. Nel Golfo 1991 Peter Arnett trasmetteva su
quattro linee dedicate, aggirando gli snodi telefonici locali interrotti
dalla guerra, e l'apparato satellitare della Cnn per le dirette pesava
due tonnellate. In Iraq, oggi, il pezzo tecnologico del momento è il
videotelefono satellitare della 7-E, quello che trasmette le immagini
con quel vago effetto «camminata sulla luna». Si chiama TH1 (Talking
head 1), è una valigetta di 35 centimetri per 25, funziona da dieci
sottozero a sessanta gradi, si alimenta con qualsiasi cosa da 90 a 260
volt o con la batteria dell'automobile, costa da 10mila dollari in su,
pesa quattro chili. Esordì prima dell'11 settembre in Cina: con quel
videotelefono la Cnn fece vedere l'equipaggio di un aereo spia atterrato
per un guasto in Cina, causando una crisi mondiale. Da allora è
obbligatorio per i network.

Per le immagini di alta qualità, invece, l'ultimo grido è il piatto
satellite Swe-Dish: 40 chili in tutto compreso il «padellone», sta in
una valigia e si accende in un minuto, serve un solo operatore, costo da
100mila dollari in su. Le aziede che servono i giornalisti sono le
stesse che servono il Pentagono: di stazioni satellitari per tv ne fa un
modello anche la Raytheon, quella che produce le cluster bomb. Pesa
appena un po' di più del concorrente Swe-dish, e costa uguale.

Nella guerra tra Stati uniti e Messico l'unico reporter sul campo
spediva il dispaccio con un mix di messaggero a cavallo, battello a
vapore e un'innovativa tecnologia figlia dell'elettrificazione: il
telegrafo. Batteva in velocità anche i dispacci dell'esercito. Era il
1846, e l'impero era un embrione."

"

"Cannonate sulla stampa
Tre giornalisti uccisi a Baghdad: un giordano, uno spagnolo e un
ucraino. Un carro armato Usa prende di mira l'hotel Palestine. «Si è
difeso dai cecchini», sostiene il comando americano. Ma tutti i reporter
negano. «Ci ha visto, sono sicuro che ci ha visto», dichiara il
corrispondente di Sky News. Impossibile ormai documentare gli eventi.
Gli iracheni ci hanno impedito di filmare le condizioni disastrose di un
ospedale. La nostra inviata fermata e minacciata da un gruppo di
feddayn, probabilmene siriani ed egiziani
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
Sono quasi le cinque del mattino quando i cannoneggiamenti ricominciano
e, annunciati da un fragore infernale, anche gli A-10 entrano in azione
per lanciare i loro missili aria-terra che si dice siano in grado di
sparare fuori 1.000 proiettili al minuto. E' l'alba, sopra Baghdad.
Tareq Ayoub è un giordano di 34 anni, è qui soltanto da tre giorni e non
se la sente di lasciare il tetto del palazzo dove ha i suoi uffici la
televisione per cui lavora, al Jazeera, nemmeno se il fuoco diviene più
intenso. La tv del Qatar si trova proprio sulla riva del Tigri, dalla
parte dove sono arrivati gli americani. Una posizione decisiva per fare
la cronaca dell'invasione. Ayoub filma tutto, e non si muove. E non si
muoverà più, perché non appena le cannonate cessano il suo collega lo
trova morto, così, da solo, sul tetto. La giornata peggiore per la
stampa internazionale comincia nel sangue. Testimoniare quel che succede
è sempre più difficile e pericoloso. All'hotel Palestine, dove sono
riuniti quasi tutti i giornalisti del mondo rimasti nella capitale
irachena per documentare questa guerra, l'eco della morte del collega
giordano non si è ancora spenta. E' più o meno mezzogiorno, quando i
fatti precipitano.

A qualche centinaio di metri, un tank M-1 sposta lentamente il suo
cannone e lo punta sull'albergo. Più tardi, il filmato di un collega
francese dimostra che il carro armato non ha dato alcun segno di
nervosismo: il cannone si solleva con calma, resta immobile per un paio
di minuti quasi prendesse la mira e poi spara.

Eravamo tutti lì, abbiamo sentito un boato fortissimo e abbiamo pensato
che fosse caduto un missile vicino all'albergo. Invece, nelle stanze
d'angolo al quattordicesimo e al quindicesimo piano, due reporter erano
stati maciullati dal colpo. Racconta Ferdinando Pellegrino, del giornale
radio Rai, tra i primi ad accorrere alle grida: «Josè Couso, di
Telecinco, era a terra con un osso di fuori e una gamba quasi staccata
dal corpo». Couso è in una pozza di sangue, e arriva già morto
all'ospedale: aveva 37 anni e lascia la moglie e due figli. Un secondo
collega, della ufficio Reuters al piano di sopra, Taras Trotsyuk,
ucraino, 35 anni, è ferito in modo gravissimo e non ce la fa. Era un
veterano, tra gli inviati di guerra: aveva lavorato in Cecenia, in
Afghanistan e nei Balcani. Altri feriti, una fotografa libanese, altri
due giornalisti dell'agenzia britannica. Sconcerto e rabbia tra tutti i
presenti: a fine giornata, si organizza una fiaccolata.

Nel pomeriggio, il comando americano ammette che il carro armato ha
sparato: «Per difendersi dai cecchini sul tetto dell'albergo e comunque
avevamo avvertito i reporter che era pericoloso rimanere a Baghdad». Ma
qui nessuno ha visti i cecchini e la versione non viene accreditata.
Dice il corrispondente di Sky News, David Chater: «Non si è trattato di
un incidente...non ho sentito un solo colpo provenire da nessuna zona
qui intorno...Devono averci visto, ci hanno visto, noi li abbiamo visti,
non c'è stato assolutamente nessun errore, sapevano che eravamo lì».

Non pensavamo di essere un obiettivo degli americani, anche se
sicuramente l'informazione che viene da questa parte del fiume è scomoda
per Bush. Il Pentagono ha fatto di tutto per imporre il ritiro dei
giornalisti presenti a Baghdad, e non solo quelli americani. E quello di
ieri è stato un ulteriore avvertimento, rinforzato dal monito che «la
capitale è una zona di guerra a rischio» dove non si può assicurare
nulla.

Questa è l'altra faccia della guerra, l'effetto delle bombe che cadono
su una città di cinque milioni di abitanti, allo stremo, tenuta in
ostaggio, senza che la comunità internazionale si preoccupi nemmeno di
chiedere l'apertura di un corridoio umanitario.

Gli americani cominciano a manifestare nervosismo, cominciano a temere
di non essere accolti come i liberatori dalla popolazione irachena:
incontreranno i soldati, la Guardia repubblicana, i feddayn di Saddam, i
miliziani del partito Baath, i civili che si oppongono all'occupazione.
Probabilmente anche cecchini. La guerra è sempre sporca e questa lo è
più che mai. Gli americani dovrebbero saperlo.

Non che da questa parte del fiume fili tutto liscio, lo abbiamo provato
ieri mattina, quando volevamo andare all'ospedale al-Kindy per
testimoniare delle vittime civili, oltre che militari, della guerra. Ci
avevano parlato di scene tremende, di molti morti e ancor più feriti. Ma
all'ospedale non ci siamo arrivati. Abbiamo preso la Saadoun street, un
tempotra le vie più affollate di Baghdad ed ora sempre più deserta, alla
fine della strada, dove si svolta sulla piazza Tahrir (della
liberazione) avevamo notato un movimento di militari e volontari,
volevamo riprendere la scena con una piccola telecamera. Che abbiamo
subito nascosto quando ci siamo resi conto che la situazione era molto
tesa. Troppo tardi. In un baleno ci siamo ritrovati circondati da
dieci-quindici feddayn che ci puntavano addosso bazooka e kalashnikov:
«Dammi la telecamera o ti ammazzo». Inutile negare troppo a lungo,
avevano l'aria di voler mantenere la promessa. Il loro numero aumentava,
non c'era via di scampo. Dopo avermi preso la telecamera mi hanno tirato
fuori dalla macchina e sbattuta su un'auto della polizia arrivata in
quel momento, malamente incastrata tra i kalashnikov, dopo che il
poliziotto mi aveva puntato la sua rivoltella. La situazione era
veramente preoccupante, anche perché i feddayn, tutti ragazzi giovani e,
a giudicare dall'accento, non iracheni ma egiziani e siriani, erano
particolarmente assatanati. Dalla piazza al Tahrir, alle loro spalle,
parte infatti il ponte Jumuriya su cui stavano avanzando i carri armati
americani. Ce la siamo cavata solo perché un poliziotto, di grado più
elevato, intervenuto per vedere cosa succedeva, alla fine ha capito che
non si trattava di spie ma di giornalisti e ci ha tratti in salvo. Con
le spie o presunte tali, come sempre del resto in caso di guerra, non si
va tanto per il sottile.

La situazione sta degenerando di ora in ora. I rischi sono sempre
maggiori. I cannoni continuano a tuonare, i caccia volano bassi, sempre
più visibili. Si sentono i boati delle bombe. Quando arriveranno da
questa parte del fiume? Si teme un massacro. Quest'agonia è
insopportabile.

Intanto, i carri armati Abrahms avanzano, anche se lentamente. La
battaglia per l'occupazione di Baghdad non subisce battute d'arresto,
come aveva lasciato intendere il Pentagono, evidentemente le truppe
anglo-americane non hanno la possibilità di scegliere di entrare e
uscire con grande facilità dalla città, come avevano annunciato. Quindi
cercano di mantenere le posizioni conquistate, a tutti i costi. La
mattina, i carri armati hanno puntato verso il ponte Jumuriya, ma si
sono fermati lì, non si sa se perché incontrano resistenza da questa
parte del fiume o perché aspettano i rinforzi che devono arrivare da
sud-est. " [MAN]

"Le bombe su Al Jazeera
I giornalisti arabi chiedono aiuto alla Croce Rossa: sono sotto tiro
MA.FO.
Aveva mandato in onda un servizio alle 5,10 del mattino, ora locale: «E'
la calma che precede la tempesta, o le due parti si danno una breve
tregua? E' una calma inspiegabile», esordiva da Baghdad Tareq Ayoub,
corrispondente di Al Jazeera. Poco dopo la tempesta è arrivata. Di prima
mattina un attacco aereo prende di mira gli uffici della tv satellitare
araba, non lontano dal ministero dell'informazione, accanto alla
redazione di Abi Dhabi Tv. Tareq Ayoub è colpito in pieno, muore poco
dopo in ospedale. Ferito, non grave, anche il cameraman Zohair al-Iraqi.
Poi l'attacco al Palestine Hotel... «Noi non prendiamo parte a questa
guerra, noi siamo solo giornalisti»: visibilmente scosso, Tayssir
Allouni, uno dei più noti corrispondenti di Al Jazeera, ha dato la
notizia dagli schermi tv. Dalla sede centrale, Al Jazeera commenta:
«Crediamo che la reale vittima è il giornalismo e l'integrità
professionale»: si riferisce all'attacco contro tutti i reporter, e ai
propri. Commenta Alluoni: «Che sia stato per caso o in seguito a un atto
deliberato, il martire Tareq Ayoub ha raggiunto gli altri martiti della
libertà d'informazione».

La direzione di Al Jazeera dice che prima della guerra aveva comunicato
al Pentagono sull'ubicazione dei suoi uffici in Iraq. La tv con sede in
Qatare quella di Abu Dhabi, sono i soli due media che avevano negoziati
mesi fa con le autorità irachene e ottenuto il permesso di avere uffici
propri, mentre le altre tv hanno avuto obbligo di lavorare al ministero
dell'informazione (fino a pochi giorni fa, quando sono stati tutti
trasferiti al Palestine Hotel). Ora i loro uffici nel distretto
governativo sono di fatto sulla linea del fronte (e non è detto che
l'Hotel Palestine non ci si trovi tra poco). Questo spiega l'appello
lanciato ieri dal corrispondente di Abu Dhabi Tv: la Croce Rossa
internazionale aiuti a evacuare il loro personale da Baghdad, 27 persone
tra giornalisti e tecnici, sotto il fuoco incrociato.

Tareq Ayoub, 35 anni, giordano, lascia una figlia di un anno; lavorava
dal '98 per Al Jazeera.

Se l'attacco contro i giornalisti a Baghdad ha sollevato proteste ed
emozione un po' ovunque, l'attacco contro Al Jazeera ha suscitato una
particolare onda di shock nei paesi arabi. Nessuno crede a un errore
involontario. La rete satellitare del Qatar è stata criticata da Usa e
Gran Bretagna per aver mandato in onda le immagini ricevute dalla tv
irachena con i prigionieri di guerra americani, o le quotidiane immagini
di civili iracheni vittime delle bombe e dei combattimenti. Così ieri
pomeriggio il sindacato dei giornalisti giordani ha convocato una
manifestazione immmediata davanti alla sede del sindacato, a Amman, con
cartelli come: «E' questa la libertà di parola che avete portato con le
vostre bombe?». Decine di giornalisti palestinesi hanno manifestato a
Nablus, in Cisgiordania.

A Beirut il ministro libanese dell'informazione dice che agirà per
processare i militari Usa davanti al Tribunale internazionale per gli
attacchi alla libertà di stampa: ha sostenuto che questi attacchi «sono
determinati dalla volontà di agire a Baghdad senza testimoni, per
completare l'opera di macelleria»." [MAN]

"Piovono bombe su Baghdad
Nella capitale irachena le colonne blindate Usa si spingono sulla sponda
orientale del Tigri e prendono l'aereoporto militare al Rashid. La Croce
Rossa: emergenza negli ospedali. Presa anche Hilla, bombe su Kirkuk
MA. FO.
Piovono bombe, diceva ieri mattina l'inviata della Reuter a Baghdad,
Samia Nakhoul (più tardi rimasta ferita dal colpo di mortaio piovuto sul
Palestine Hotel ). Dall'alba in effetti, e per gran parte della
giornata, bombe e colpi d'artiglieria sono piovuti su gran parte della
capitale irachena, mentre le forze Usa hanno lanciato diversi attacchi
aerei e da terra. Fino a sera, quando sulla città è piombata una calma
quasi irreale. Come sempre, alla guerra materiale si aggiunge la guerra
di propaganda. A tarda sera le forze americane affermavano di tenere una
zona della città che comprende tutto il distretto dei palazzi
governativi, sulla sponda orientale del Tigri, compreso l'hotel Al
Rashid e tutti i grandi ministeri, e almeno tre ponti sul fiume.
Bisognerà aspettare questa mattina per verificare la notizia: ieri in
quei luogo si combatteva.

Da ieri mattina la tv di stato irachena ha interrotto le trasmissioni,
poco dopo è scomparsa dall'etere anche la radio, e un portavoce militare
statunitense a Doha ha commentato: il regime non è più in grado di
diffondere le sue bugie. A metà mattina il ministro dell'informazione
iracheno Mohammed Saeed al Sahaf aveva comunque tenuto la sua usuale
conferenza stampa (ieri il New York Times lo ha definito «una versione
irachena di Donald Rumsfield con retorica sovietica»). Il ministro Sahaf
ha snocciolato la solita litania di vittorie, e alla domanda se il suo
governo non pensa di arrendersi ha risposto che le forze americane
devono arrendersi, o «saranno incenerite nei loro carrarmati».

La giornata di ieri ha segnato una progressione delle colonne blindate
Usa da ovest, da sud-est e pare anche da nord verso il centro della
città. Prima la zona dei grandi palazzi governativi, sulla sponda
occidentale del Tigri. Il ministero dell'informazione ormai sembra
completamente distrutto, secondo testimonianze riportate dalla reuter.
Non lontano dal ministero, la sede delle tv arabe Al Jazeera e Abu Dhabi
Tv è stata centrata da un attacco aereo. Altri combattimenti sono
scoppiati attorno a un palazzo presidenziale già tenuto dagli americani
quando forze irachene hanno tentato di riprendere la posizione. Le
colonne blindate sono quindi avanzate fino al fiume: intorno alle 9
pesanti scambi di fuoco su due ponti chiave nel centro città, il
Jumhuriya e il Sinak, da cui carrarmati Abraham hanno aperto il fuoco su
diversi obiettivi sulla sponda orientale. Erano circa le 10 quando tra
gli obiettivi è entrato il Palestine Hotel.

Battaglia sulla sponda est

Più o meno in quel momento l'altra colonna americana, quella che avanza
da sud-est dopo aver passato un affluente del Tigri, ha lanciato
un'offensiva all'aereoporto militare Al-Rashid, a circa 5 chilometri dal
centro: in tarda mattinata hanno annunciato di averlo preso senza
trovare resistenza (i giornalisti hanno però visto un'intensa
battaglia).

Nel primo pomeriggio le truppe Usa che avevano preso i ponti del centro
città si sono mosse, strada per strada, nella parte orientale di
Baghdad: un corripondente della Reuter dice che hanno trovato il fuoco
di armi leggere da parte di milizie. La tv di Abu Dhabi ha mostrato
gruppi di miliziani giovanissimi, in abiti civili e bandane nere sulla
fronte (o neppure quelle) e qualche lanciarazzi tenuto a spalla. Non
sembra una resistenza molto organizzata.

Per la prima volta ieri sono comparsi sul cielo di Baghdad anche gli
elicotteri Apaches, per appoggiare le azioni condotte a terra dalle
colonne blindate. Intanto un caccia A10 Warthog americano si è
schiantato vicino all'aereoporto internazionale, colpito da un missile
terra-aria (il pilota è salvo).

I commenti dei portavoce militari sono atati molto occupati da
considerazioni sulle bombe sganciate la notte tra lunedì e martedì su al
Mansur, zona residenziale nella parte occidentale della città, su un
certo palazzo dove - hanno detto poi i portavoce - potevano trovarsi il
presidente Saddam Hussein e i suoi figli. Quattro bombe da 2.000
tonnellate ciascuna. Nove iracheni sono stati uccisi, 4 feriti. Ma i
portavoce del Comando centrale della coalizione anglo-americana ieri non
sapevano dire se la famiglia presidenziale sia stata davvero colpita.
Tutto questo ha un risvolto su cui però il comando americano sorvola.

L'emergenza negli ospedali

E' il Comitato internazionale per la croce Rossa a parlarne, in modo
sempre più allarmato. Gli ospedali di Baghdad, e dei sobborghi della
capitale ovunque siano in corso combattimenti, sono in situazione di
emergenza, ricevono feriti a un ritmo cui non riescono a far fronte.
«Nessuno riesce a controllare ogni ospedale, non abbiamo cifre precise,
ma il numero dei feriti tra la popolazione civile è molto alto», ha
detto a Ginevra un portavoce dell'organizzazione mondiale della Sanità.
«Gli ospedali sono al limite delle proprie possibilità. Il personale
iracheno lavora 24 ore al giorno» da quando è cominciata l'offensiva
attorno alla capitale, cioè sabato, dice il direttore della Croce Rossa
internazionale a Baghdad, Roland Huguenin-Benjamin. Ieri i suoi delegati
sono riusciti a visitare il complesso ospedalieri Medical City, 650
letti, uno dei meglio attrezzati: solo sei delle 24 sale operatorie
riescono a lavorare, e in una giornata devono operare fino a 60
interventi. Così il materiale chirurgico scarseggia, la Croce Rossa ieri
ha portato rifornimenti di emergenza. Lunedì erano riusciti a fare
altrettanto all'ospedale Kindi. Sia gli ospedali che gli impienti di
pompaggio dell'acqua lavorano con i generatori di emergenza: gran parte
di Baghdad sarà tra poco senz'acqua.

Altre battaglie però sono in corso in Iraq. Continua l'avanzata dei
marines a Al Hilla, e anche qui è condotta con raid aerei, carrarmati e
artiglieria - contro una resistenza di armi automatiche leggere e
granate montate su lanciarazzi. Nel pomeriggio i portavoce Usa hanno
annunciato di aver preso la città.

Soprattutto continua la guerra sul fronte settentrionale. I
bombardamenti sono stati tra i più intensi finora, in particolare su
Kirkuk, durante la notte e all'alba di ieri. Le forze speciali Usa
stanno cercando di impedire che le forze della Guardia repubblicana
dislocare a Kirkuk si spostino a sud, a Tikrit, la città da cui prviene
l'intero clan di Saddam Hussein.

Ieri sera un portavoce del Pentagono (versione americana del ministro
Sahaf?) ha affermato che la leadership irachena impartisce ordini alle
sue forze ma «non sembrano molto coordinati». Ha aggiunto che la Guardia
Repubblicana ha ancora «potenziale per qualche colpo». " [MAN]

"BASSORA
L'amministrazione affidata a un capo tribù
L'esercito britannico ha affidato a un capo tribù l'incarico di formare
un'amministrazione civile provvisoria a Bassora, la seconda città
dell'Iraq, ormai sotto il pieno controllo delle truppe occupanti. Lo ha
annunciato il portavoce militare Chris Vernon: «Siamo stati avvicinato
da un capo tribale locale, uno sheick», ha detto; ha rifiutato per il
momento di farne il nome ma ha detto che si tratta di persona «credibile
e di valore». «Gli abbiamo chiesto di formare un comitato
rappresentativo della comunità locale» per gestire l'amministrazione,
dice il portavoce britannico: «Questa non è la ex-Jugoslavia, non è
l'Afghanistan. La provincia di Bassora sostanzialmente ha
un'infrastruttura civile che funziona». E «Bassora ora è libera, gli
ultimi elementi del regime del Baath si sono spenti», dileguati. Ieri la
città era controllata da veicoli militari ai maggiori incroci stradali.
Il traffico stradale è ripreso. Ma continuano anche saccheggi, benché
diminuiti rispetto a lunedì, e i cittadini si lamentano del caos
piombato in città.

«Stiamo ancora cercando di consolidare la sicurezza, poi rivolgeremo
l'attenzione alle questioni di legge e ordine. Per questo cercheremo di
usare ciò che è rimasto della polizia locale», ha detto Vernon. I
momento è critico e tra la popolazione ieri i reporter hanno raccolto
commenti sempre più rabbiosi: l'acqua ricomincia a mancare, con l'arrivo
delle truppe britanniche gli addetti alla manutenzione degli impienti di
pompaggio sono fuggiti (erano impiegati dell'amministrazione pubblica),
informano i delegati del Comitato internazionale per la Croce Rossa. Non
abbiamo ancora notizie precise sul bilancio umano dell'assedio durato
due settoimane, ma ieri le tv mostravano persone che andavano a cercare
parenti e dispersi. Le truppe britanniche hanno cominciato a distribuire
acqua potabile in quattro punti di distribuzione in città, la corrente
elettrica è stata riallacciata."

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AIUTI UMANITARI
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"Ricatto «umanitario»
Gli Usa vogliono il monopolio degli aiuti per le popolazioni civile
irachene. Bloccate le Ong
Monopolio Fermi al confine giordano i soccorsi non made in Usa, ma anche
quelli «autorizzati». Mentre nel paese attaccato dagli americani manca
tutto
MICHELE GIORGIO
INVIATO AD AMMAN
La Giordania sarà il «corridoio umanitario» degli aiuti americani
all'Iraq. E le altre organizzazioni internazionali, le Ong, le tante
associazioni di altri paesi che non aspettano altro che di portare
soccorso (e anche solidarietà politica) all'Iraq? A questa domanda non
risponde l'articolo pubblicato ieri dal Jordan Times che riferiva del
«corridoio umanitario» che le agenzie ufficiali americane «Usaid» e
«Dart» (Disaster assistance response team) pensano di mettersi a
disposizione. Le condizioni della popolazione civile irachena si
aggravano con il passare dei giorni ma gli Stati Uniti continuano a
porre ostacoli ai piani di quelle organizzazioni e Ong internazionali
che non accettano di entrare nel canale americano degli aiuti umanitari.
Gli Usa nelle scorse settimane avevano indicato che l'assistenza
alimentare e medica ai civili iracheni deve passare dalla frontiera
meridionale, quella tra Kuwait e Iraq. Successivamente hanno anche
nominato un loro rappresentante ad Amman, incaricato di coordinare gli
interventi umanitari: ma sempre dal Kuwait, allo scopo di dimostrare che
oltre alle bombe gli Usa portano anche un po' di scatolette e bottiglie
di acqua ad una popolazione stremata dalla guerra. Ora è la Giordania il
territorio preferito per il «corridoio umanitario». Immediata è stata
l'apparizione sulla scena di Usaid e Dart. Lunedì i rappresentanti di
Dart e funzionari dell'ambasciata statunitense ad Amman hanno
organizzato un «tour» alla periferia della città, dove i giornalisti
hanno potuto visitare depositi e magazzini già pieni di aiuti americani.
Sui contenitori e sacchi di plastica pieni di cibo, abiti, coperte e
medicine, c'è la scritta: «Un regalo del popolo degli Stati Uniti». Gli
iracheni in questi giorni hanno potuto «apprezzare» gli altri regali,
esplosivi e devastanti, ricevuti dagli americani. «Siamo solo all'inizio
della risposta Usa all'emergenza umanitaria», ha commentato soddisfatto
Michael Marx, uno dei dirigenti di Dart. Marx - che cognome! - tuttavia
ha dovuto riconoscere che gli iracheni potrebbero non accettare gli
aiuti di chi ha distrutto il loro Paese. «E' ancora presto per dire se
gli iracheni accetteranno i nostri aiuti. In ogni caso non metteremo a
rischio i nostri operatori umanitari», ha aggiunto Marx ammettendo
perciò che la popolazione dell'Iraq potrebbe reagire persino con
violenza a questo intervento americano sfacciatamente ipocrita. I
non-americani nel frattempo continuano ad accumulare aiuti nel villaggio
beduino di Ruwaished, ad una settantina di chilometri tra Giordania e
Iraq, nella speranza di potersi dirigere al più presto a Baghdad e nelle
altre città irachene. Aiuti che dovevano servire per le centinaia di
migliaia di profughi iracheni che si aspettavano in conseguenza della
guerra. Ora invece attendono di entrare in Iraq. Tutto però dipende da
Washington che controlla quasi interamente il territorio iracheno e
continua a ripetere che i 600 Km tra la frontiera giordana e Baghdad
rimangono «insicuri». In realtà l'unico pericolo sono i razzi e le bombe
che i cacciabombardieri americani potrebbero sganciare «per errore» sui
convogli umanitari. Rimane oscura inoltre la posizione delle agenzie
dell'Onu che, almeno sino a oggi, non hanno esercitato pressioni
particolari per ottenere il via libera delle forze di occupazione
anglo-americane ad aiuti essenziali per la popolazione. Chi si prepara
ad inviare, forse già domani se non ci saranno ostacoli statunitensi,
aiuti urgenti in Iraq sono «Un ponte per», Terres des Homme e l'Ics
(Consorsio italiano di solidarietà), che rappresentano una parte di
quella trentina di Ong e associazioni che hanno aderito al «Tavolo di
solidarietà con il popolo iracheno». Ad Amman sono presenti al momento
Stefano Kovac dell'Ics e Luca Barletti di Terres des hommes. Insieme
stanno predisponendo l'invio di due camion carichi di 40 tonnellate di
medicinali e materiali di prima necessità per gli ospedali iracheni che
da tre settimane stanno affrontando una situazione di emergenza.
L'iniziativa ha inoltre un importante significato politico poichè chi
aderisce al «Tavolo» è deciso a rifiutare gli aiuti governativi italiani
in aperta polemica con la posizione assunta dal governo Berlusconi nella
crisi che è sfociata nell'aggressione anglo-americana all'Iraq. Un
rifiuto che potrebbe estendersi a tutte quelle parti che contribuiscono
o sostengono politicamente l'attacco di Usa e Gb, ma su questo punto il
dibattito è ancora aperto. " [MAN]

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