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[Cronologie di guerra] 10.04.03 ventiduesimo giorno
by blicero Sunday April 13, 2003 at 05:31 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 10.04.03 ventiduesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.


10 aprile 2003 : ventiduesimo giorno
[fonti : quotidiani del 11 aprile 2003]

"Kamikaze, saccheggi, assassinî, vendette L'ordine non regna nell'Iraq occupato A Baghdad attacco suicida contro i marines A Najaf ucciso un capo sciita filoamericano A nord i peshmerga kurdi prendono Kirkuk Gli Usa intervengono dopo le proteste turche A Mosul si arrende la Guardia repubblicana Messaggio tv di Blair e Bush per gli iracheni: nessuno lo vede, manca la corrente Berlusconi festeggia sul carro del vincitore: «Manderemo i carabinieri per il dopoguerra»" [MAN]

"BUSH
La mia vittoria
STEFANO BENNI
Sono George Wermacht Bush, presidente della più grande ex-democrazia del mondo. Prima di partire per il week-end nel mio chalet, dove mi distrarrò pescando le trote col mitra, vorrei tenere una breve e vittoriosa conferenza stampa. Saluto i giornalisti presenti: riportate fedelmente le mie parole e non spaventatevi se vi parlo dalla torretta di un carro armato. Mi piace stare quassù: niente come le armi eccita chi ha schivato il militare, come ha fatto il sottoscritto, e quasi tutti i senatori Usa. Il primo passo verso la liberazione dell'Iraq, del Medio Oriente, e del mondo è compiuto, ma il campionato è lungo e molto resta da fare. Abbiamo abbattuto la statua del rais, simbolo di una tirannia obsoleta. Quando hai i B 52, non hai bisogno di una grande statua perché la gente ti guardi dal basso. In Iraq lo scontro è stato preventivo ma duro. Sapevamo di avere di fronte un avversario preponderante, con un'aviazione micidiale, missili di ottima annata, armi chimiche e di sterminio totale. Ed ecco la prima subdola mossa del nemico. Esso ha nascosto il suo terrificante potenziale militare causandoci non poche difficoltà.
Le centinaia di caccia iracheni non sono decollati, mettendo in crisi la nostra aviazione che li cercava giorno e notte. I missili che molto astutamente avevamo fatto distruggere dagli ispettori Onu non sono partiti. I tank avevano la targa babilonese. Le armi chimiche non c'erano, abbiamo trovato solo atropina, calzini vecchi e magnesia. Adesso ci toccherà di trasportare un po' di schifezze sul posto. La Bayer ci manderà medicine tossiche come il lipobay, McDonald's il suo famoso Blob Burger. Berlusconi ci ha promesso la discarica di suo fratello. Soldati in mutande si sono arresi ai nostri tank che li hanno spalmati sulla sabbia del deserto. Non siamo venuti qui per caricare autostoppisti. Il grande esercito iracheno ha astutamente finto di essere male armato, affamato, antiquato.

A questo punto, come potevamo combattere una guerra senza nemico? Avremmo dovuto dare ragioni ai nostri detrattori, quelli che dicevano che Saddam poteva essere disarmato in pochi mesi dall'Onu. Non ho niente contro l'Onu, anche se preferisco il Rotary. Credo anzi che il lavoro degli ispettori sia stato molto utile: gli abbiamo fregato le mappe delle caserme e dei depositi, e abbiamo sparato sul sicuro.

Ma questa guerra aveva bisogno di un po' di suspence, e per fortuna c'era Saddam. Lui è servito a dare dignità di operazione militare a questo tiro al bersaglio. Bisognava eliminare il rais, e poiché si spostava come una talpa, dovevamo cacciarlo. Nel corso di questa caccia abbiamo colpito: Tre mercati, due ospedali e una televisione. Un albergo, una scuola e due quartieri residenziali. Un tot di civili e soldati iracheni. Cento soldati inglesi a piedi e in elicottero. Cinquanta soldati americani. Un imprecisato numero di curdi, tanto quelli non li conta mai nessuno. Un gruppo di giordani. Undici afghani. Un cameraman ukraino e uno spagnolo. Un camion di mamme e bambini. Cinque addetti d'ambasciata russi (l'ambasciatore ci è scappato... pardon si è salvato). Una suora in motorino. Un'ambulanza della Croce Rossa. Diversi villaggi sospetti di essere siti chimici. Così imparano a cucinare i peperoni. Abbiamo ucciso Alì il chimico, Fatima la tossica, Mohamed il velenoso e Selim il boleto. Siamo rimasti vivi solo noi: George l'ubriacone, Rumsfeld il cocainomane, Osama il dialitico e Saddam il clonato. Per ultimo, abbiamo tentato di colpire Lilli Gruber, scambiata per il rais. E' vero, non gli somiglia molto, ma era a trecento metri e aveva un microfono in mano.

Naturalmente ora che è caduta Baghdad ci toccherà di accoppare anche Saddam, anche se la Cia preferirebbe prenderlo vivo e surgelarlo insieme a Toro Seduto e a Khomeini, magari torna buono tra qualche anno. Poi ci prenderemo il petrolio, e gestiremo le faide e le vendette di questo paese. Correrà altro sangue, ma pazienza. Siamo indifferenti sia alla gioia di alcuni iracheni per la fine della tirannia, sia alla resistenza disperata di altri: i primi li fotografiamo, i secondi li massacriamo. Quello che ci rode è che, a onta dei molti megafoni della nostra propaganda, sappiamo bene che alla fine non riusciremo a passare per liberatori. Ahimè, questa volta siamo stati smascherati.

Ebbene sì, cari sudditi americani e alleati: siamo la razza eletta e l'esercito più potente del mondo, ma abbiamo alcuni difetti. Combattiamo sempre cinquanta contro uno, inventiamo i motivi delle guerre, torturiamo i prigionieri, spariamo sui civili, e diciamo un sacco di bugie. Ma nell'inventare e riciclare Nemici Terribili e Potentissimi siamo i migliori. E li scegliamo sempre capi di un popolo impoverito e sofferente.

A questo punto sarebbe un peccato sprecare questa nostra abilità. Questa invasione non ci basta, questo petrolio è poco, le fabbriche di armi non possono fermare la produzione, Rumsfeld ha comprato gli anfibi nuovi, abbiamo bisogno di un nuovo nemico, subito. Il mondo pagherà l'offesa di averci isolato, i pacifisti di averci sputtanato, il papa di averci sgridato. Siamo un popolo pacifico, ma nei prossimi anni triplicheremo la spese militari. Siamo un popolo democratico, ma la Cia ha ripreso a schedare insegnanti, giornalisti e intellettuali. Siamo un popolo multietnico ma in mano a un elìte di straricchi bianchi.

Avete visto le prime nostre reazioni alla caduta di Baghdad? Cheney ha detto, vaffanculo l'Onu, l'Iraq lo ricostruiamo noi. Rumsfeld ha detto, non cesseremo il fuoco finché l'ultimo uomo di Saddam non sarà morto. Powell si è lamentato perché Osama non si fa vivo. Bolton ha detto: l'Iraq serva di monito a Siria Iran e Corea del Nord. Vi sembrano frasi che segnano l'inizio di un periodo di pace? Io non mi aggiungerò a queste voci minacciose, a me interessa solo essere rieletto e che la Esso mi dia il sette per cento sui barili. Però vi faccio notare che in Cina sono spuntati questi scarafaggi portatori di polmonite. Ieri, alla Casa bianca, ne è stato visto uno rubare un chicco di riso. Non siamo paranoici, ma se i musi gialli vogliono iniziare la guerra blatto-batteriologica, abbiamo abbastanza armi nucleari da disinfestare tutto il loro obeso paese. Siamo un paese pacifico, ma l'igiene prima di tutto.

L'operazione guerra infinita è iniziata. Nessuno si stupisca. Vi interrogate, giustamente, sul perché in tanti odiano l'America. Cominciate anche a chiedervi perché tanti americani odiano il resto del mondo.

Perciò cari giornalisti e operatori, quando tornerete al vostro giornale o alla vostra televisione, se li troverete ancora, diffondete al vostro pubblico questa notizia: da oggi nessuno è al sicuro. Parafrasando un fottuto scrittore americano filocubano comunista: non ti chiedere mai per chi suona la sirena. Essa suona per te. Arrivederci e andate con Dio. Il mio, non quello del papa. " [MAN]

"Usa: chiudete le ambasciate
Gli Stati uniti hanno rinnovato la richiesta che siano chiuse le ambasciate irachene presenti in più di 60 paesi nel mondo. Washington considera quei diplomatici «una minaccia»" [MAN]

"Caccia a Saddam, la primula rossa di Tikrit
IRAQ Attacchi alla città natale del rais: per alcuni si trova lì Il Pentagono dispiega le devastanti bombe Moab
S. L.
Conquistata Baghdad senza dover ingaggiare la temuta battaglia casa per casa, rimane avvolta nel buio più completo la sorte di Saddam Hussein. Fuggito, sepolto sotto un cumulo di macerie dopo un bombardamento mirato alla israeliana, nascosto nei sotterranei di Baghdad in attesa del momento propizio per spiccare il volo, riparato nella sua fedele Tikrit? Fioccano le speculazioni, le ipotesi si moltiplicano e il mistero si infittisce. Nelle prime convulse ore seguite all'entrata dei marines nella capitale irachena e al mediatico abbattimento della gigantesca statua nella piazza del Paradiso, il destino del rais era stato oggetto di una ridda di voci, che sfioravano la cacofonia: c'era chi lo dava asserragliato nell'ambasciata russa, chi lo segnalava nei paesi limitrofi (la Siria o addirittura l'Iran), chi ancora a Baghdad. Per tutta la giornata di ieri le dicerie hanno continuato a rincorrersi incessanti, quasi inafferrabili. Ahmed Chalabi, il chiacchierato leader dell'Iraqi national congress (tornato di recente in Iraq dal suo doratissimo esilio londinese) assicurava che Saddam si troverebbe vivo e vegeto a Baqubah, a poche decine di chilometri da Baghdad sulla strada per l'Iran. Chalabi lo ha dichiarato perentoriamente alla Cnn, smentendo quanto egli stesso aveva detto ieri - e cioè che la primula rossa si era rifugiata nella sua città natale di Tikrit. La televisione qatariota al Jazeera ha invece ribadito la sua ipotesi da spy story: il rais sarebbe fuggito da Baghdad con l'aiuto degli americani in cambio di una resa incruenta della città. Altre voci insistenti nella capitale lo danno invece in Iran, dove si può pensare che difficilmente verrebbe accolto con lanci di mazzi di fiori. Il segretario alla difesa Donald Rumsfeld punta invece il dito contro la Siria, forse a caccia di pretesti per la prossima guerra preventiva. Sta di fatto che l'ex presidente iracheno si è volatilizzato, insieme ai suoi fedelissimi: i figli Uday e Qusay, il vice-premier Tarek Aziz, il ministro degli esteri Naji Sabri, quello dell'informazione Mohammed Said al Sahaf, il vice-presidente Taha Yassin Ramadan. E, sebbene la Cia continui a dire che «molto probabilmente» Saddam si trovava insieme ai suoi figli nell'edificio centrato lunedì scorso nel quartiere Al Mansour di Baghdad da alcuni missili sparati all'uopo (che hanno provocato 14 «vittime collaterali»), le forze americane si stanno concentrando intorno a Tikrit in attesa di lanciare l'assalto finale contro quello che è ritenuto da alcuni il rifugio estremo in cui si troverebbe l'ex signore di Baghdad.

La città sunnita, situata a 180 chilometri da Baghdad, che ha dato i natali a tutto il clan cui appartiene il rais, è stata presa di mira per tutta la giornata di ieri da pesanti bombardamenti, volti principalmente a testare le sue difese. E forse, è proprio per l'ultimo assalto che il Pentagono ha spostato sul teatro delle operazioni la Moab, la più devastante bomba mai costruita, sperimentata per ora solo una volta in Florida prima della guerra.

Mentre Rumsfeld appare deciso a scatenare un attacco «esemplare» contro la città simbolo del regime che ha rovesciato, il ritratto di Saddam Hussein è forse destinato ad affiancare quello di altri due mega-ricercati svaniti nel nulla: Osama bin Laden, l'inafferabile leader di al Qaeda e il mullah Omar, la nebulosa guida spirituale dei taleban appassionata di motociclismo. " [MAN]

"Pace infernale a Baghdad
Un kamikaze si fa esplodere contro un carro armato americano: muoiono tre marines. Battaglia furiosa alla moschea al Nidhatra, soldati Usa contro fedayin e milizie del partito Baath: 20 iracheni e un marine rimangono sul terreno. In uno scenario desolante, la capitale irachena vive il primo giorno del dopo Saddam. Saccheggiati edifici pubblici, ospedali, uffici Onu. I morti restano per le strade. Chiusi i ponti sul Tigri, la città è letteralmente divisa in due
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
Baghdad è divisa in due. Tutti i ponti che collegano la riva occidentale, molto più distrutta dalla guerra, a quella orientale della città ieri pomeriggio sono stati chiusi. Non passa più nessuno, inutile anche il nostro tentativo di convincere i marines a lasciare proseguire alcuni uomini che sostavano sul ponte Jumuriya e volevano raggiungere la loro casa che sta oltre il fiume. I marines sono diffidenti: temono che tutte le macchine siano autobombe e che chi si presenta un po' imbottito, magari con un giubbotto antiproiettile, sia un kamikaze. I carri e i controlli e la chiusura ermetica dei ponti tuttavia non sono riusciti ad impedire che ieri sera un kamikaze si facesse saltare davanti ad un carro armato uccidendo tre marines proprio sulla riva occidentale del Tigri. E dal pomeriggio è stata presa di mira dai cannoni che sparavano - e sparano mentre scriviamo - poco lontano dal nostro albergo e hanno provocato numerosi incendi che stanno rischiarando la notte buia. Oltre il ponte sono rimaste solo un paio di famiglie e l'avevamo verificato la mattina quando era ancora aperto ai giornalisti: le strade che attraversano il quartiere devastato dai bombardamenti e dai combattimenti erano completamente deserte, avevamo trovato solo cadaveri abbandonati e una donna che si aggirava incredula con un bambino per mano, poi ancora un vecchio con kefiah che agitava uno straccio bianco per non farsi colpire dai marines che presidiano la zona con numerosi carri armati. Tutti gli abitanti del quartiere se ne sono andati prima dell'arrivo degli americani e della battaglia campale. Anche Ahmed aveva portato la sua famiglia ad Hilla, prima di andare a combattere con l'esercito di Saddam. Ma poi, racconta, i comandanti si sono ritirati e loro sono stati abbandonati. Ora vorrebbe andare a vedere se la sua casa è ancora in piedi, se è stata saccheggiata, prendere qualche vestito e raggiungere la famiglia. Ma gli americani non ci stanno. «Ne avevamo lasciati passare alcuni e poi hanno cominciato a spararci addosso, sono stati lontani da casa finora, possono rimanerci ancora un po'», risponde uno di loro inflessibile. Dal ponte Jumuriya, osservando le nubi di fumo che si innalzano - su entrambe le rive del fiume: a ovest e a nord-est - si possono individuare i punti dove gli scontri sono ancora in corso, come ci confermano i marines che operano il blocco. Il fumo improvvisamente investe anche l'hotel Mansour, poco lontano dal ponte a pochi metri da quello che era il ministero dell'informazione. La battaglia più importante ieri però si è combattuta nel quartiere Cairo, sulla strada che porta al-Adhamiya, dove si trova anche la moschea al-Nidha che abbiamo visto crivellata di colpi perché gli americani pensavano che vi si fosse nascosto Saddam Hussein. Mentre una colonna di carri armati si stava dirigendo verso al-Adhamiya si è scontrata con un gruppo di feddayn e di miliziani del partito Baath che si erano nascosti dentro un piccolo palmeto. La battaglia è iniziata la mattina alle cinque ed è durata tre ore. Quando noi siamo arrivati, in tarda mattinata, le case stavano ancora bruciando, così come alcuni camion, altri mezzi ormai carbonizzati erano completamente accartocciati. Un cratere enorme provocato evidentemente da una bomba su un lato della strada, mentre la carreggiata era disseminata dai resti della battaglia, dava il segno della pesantezza dello scontro. I cannoni hanno colpito anche due case, in una è morta l'intera famiglia, i genitori e due bambini. Il bilancio della battaglia: 20 iracheni e 1 marines uccisi. «Bush è come Saddam, fa uccidere i nostri bambini. E per che cosa? Per il petrolio?», dice Mohammed, un uomo sulla cinquantina, sconsolato, che passava di lì. Mentre chiedevamo informazioni sull'accaduto, intorno a noi si è formato un capannello: «Gli americani sono alleati dei sionisti che ci combattono perché siamo musulmani», dice Ali.

Gli americani hanno preso possesso di quasi tutta la città, ma la popolazione - quella che è rimasta a Baghdad - continua a rimanere in casa e tutti i negozi chiusi, proprio come durante i bombardamenti. Tra quelli costretti ad uscire si nota un'ostilità non dichiarata: prima era l'oppressione di Saddam ad impedire agli irakeni di parlare ora è lo strapotere di Bush. I marines che si sono installati anche dentro l'hotel Palestine non fanno certo risparmio di arroganza: ieri uno di loro per comprare una pepsi voleva farsi cambiare dal barista i dollari a 4.000 dinari, mentre il cambio corrente era di 2.500 (contro i 3.000 di qualche giorno fa) e di fronte alla resistenza del cameriere lo ha minacciato di chiamare il suo comandante per fargli chiudere il bar. Comunque il cameriere è stato inflessibile. E per non parlare della pattuglia che mercoledì sera, secondo quanto riferito dalla tv del Qatar al Jazeera, ha sparato su un'autoambulanza provocando due morti e tre feriti. Anche la difficoltà di reperire il cibo si è accentuata con i controlli americani: ieri mattina in albergo non c'era la colazione perché le truppe non avevano bloccato il furgoncino che portava il pane.

Il paradosso è che noi giornalisti già presenti a Baghdad, non quelli militarizzati arrivati con le truppe con tanto di divisa, per farci riconoscere usiamo il sudato accredito ottenuto dagli iracheni che negli ultimi tempi invece non ci controllavano nemmeno più. Una presenza così massiccia di carri armati davanti all'albergo, la totale assenza di iracheni, tranne quelli che si prestano a qualche sceneggiata in esclusiva per i giornalisti, come prendere a calci la testa della statua di Saddam fatta crollare mercoledì sera, ci fanno sentire come delle comparse sul set di un film di scadente qualità. E dal finale sicuramente poco lieto. Haider, regista frustrato perché doveva iniziare a girare un film proprio quando è scoppiata la guerra e per fare qualche soldo si è riciclato come barista, scuote la testa: «Sono felice perché è finito un regime che non sopportavo, ma sono triste per il modo in cui è finito». E' la sensazione che avvertiamo in molte delle persone che incontriamo. Sono ben pochi ad illudersi che sia una liberazione, la maggioranza è cosciente che si tratta di una occupazione.

Ad inneggiare a Saddam sono invece i saccheggiatori che non vengono certo fermati dagli americani. Anzi. Di fronte ai carri armati, si fermano con la loro refurtiva, salutano con un «viva Bush» che funge da salvacondotto e si allontanano tranquillamente. I marines si creano così l'alibi di essere bene accolti e i saccheggiatori un alibi per il furto. Ieri è stata ancora una giornata di completa anarchia e di saccheggi ovunque: magazzini da dove venivano portati via computer, pezzi di ricambio, mobili. Spesso trascinati e perdendo i pezzi per strada. Incredibile, tanto da far pensare ad una regia dietro questi saccheggi oltre che a provocare la protesta della Croce rossa internazionale, l'assalto agli ospedali, in particolare al-Kindy, quello più importante nella zona orientale della città, dove sono state ricoverate anche molte vittime civili dei bombardamenti. E poi il saccheggio nell'ambasciata tedesca e nel centro culturale francese, proprio le rappresentanti dei due paesi contrari alla guerra.

Ma spettacolare è stato soprattutto l'arrembaggio allo shopping center che rifornisce al-Shaab, il quartiere già colpito da un bombardamento americano che aveva fatto una quindicina di vittime. Dal quarto piano del magazzino la merce - tappeti, stoffe, tendaggi, biancheria, pugnali eccetera - veniva scaraventata giù nella sala centrale e poi arraffata dagli avventori che caricavano all'inverosimile le loro macchine, oltre a carretti trascinati da asini, che creavano un ingorgo del traffico. Non di solo saccheggio si tratta, le ville sul Tigri dei dignitari del regime sono state completamente distrutte: vasi in ceramica, specchi, suppellettili, scalinate di marmo, lampadari di cristalli, mentre venivano portati via tappeti, mobili, poltrone, divani, cuscini, spesso abbandonati per strada in mezzo alla polvere. C'era persino chi arrivava in autobus a sfogare la propria razione di vendetta. Abbiamo visto smontare prima le tre residenze delle ville di Saddam, poi la casa di Watman, il fratellastro del rais, quella del vicepresidente Taha Maruf, e poi molte altre sulla riva del Tigri, nel punto in cui è attraversato dal ponte Double Roof (si tratta di due ponti, uno sopra l'altro, coperti). I carri armati proteggevano solo la residenza del vicepremier Tareq Aziz e il vicino palazzo di Saddam. Uno dei tanti. Nel giardino di quello più imponente, il Salam, chiaro esempio di culto della personalità con le quattro teste del rais che sovrastano le colonne più alte del palazzo visibili in lontananza, invece i marines si sono proprio acquartierati. Dopo una furente battaglia a giudicare dalla montagna di proiettili, pezzi di armi, cadaveri, puzza di morti, che incontriamo sul viale che porta al palazzo. Quando siamo passati una ruspa stava portando via uno dei cadaveri, dall'abbigliamento non sembravano nemmeno soldati ma solo guardiani o inservienti dell'immenso palazzo che è stato abbandonato completamente vuoto: sono rimasti solo i pregiati lampadari che, in mancanza di elettricità, non possono più nemmeno illuminare i sontuosi pavimenti in marmo e legno intarsiato. Ieri è iniziata la sepoltura dei «martiri» caduti nella battaglia di al-Dora, il quartiere meridionale della città. Sono rimasti invece abbandonati alle intemperie quelli che abbiamo visto intorno all'hotel Rashid. Non solo combattenti, ma anche autisti di macchine che erano evidentemente finiti sotto i bombardamenti: alcuni sono rimasti carbonizzati, altri diventeranno presto putrefatti. E probabilmente finiranno nel novero degli scomparsi." [MAN]

"Bassora, il vuoto di potere e il caos
Un editto delle autorità sciite non basta a fermare i saccheggi. E molti accusano i militari britannici di lasciar fare
MARINA FORTI
Prima gli edifici del potere, le sedi del partito Baath. Poi ogni edificio pubblico. Poi negozi, magazzini. Poi ogni casa privata indifesa. Perfino gli ospedali. Da tre giorni ormai il caos è di scena a Bassora, come del resto a Baghdad: se ieri le scene di saccheggio sono un po' diminuite, riferiscono agenzie e corrispondenti, il disordine e la violenza restano padrone della città. Una «fatwa» dell'Ayatollah Sistani, rispettato leader religioso residente a Najaf, considerato la massima autorità sciita irachena, non è bastata a fermare il disordine: l'editto dichiara che il saccheggio e il furto sono una violazione delle norme dell'islam, e invita a rispettare i beni degli iracheni. Piccole folle si raccoglievano ieri a leggere l'editto, affisso sui portoni di moschee e luoghi pubblici. Gli inviati di giornali e agenzie presenti a Bassora raccolgono i commenti tra quelle folle: rabbia verso le truppe britanniche che lasciano fare, sfiducia, timore - chi prenderà il potere ora? Triste «liberazione» per la seconda città irachena, un milione e mezzo di abitanti.

La scena è desolante. Martedì il saccheggio si è spostato dai palazzi del potere ad altre parti della città. L'università, il campus delle facoltà tecniche, almeno tre banche, l'hotel Sheraton (da cui i corrispondenti di Al Jazeera erano già fuggiti), i supermercati, i posti di polizia, tutti i ministeri e uffici pubblici sono stati saccheggiati e a volte incendiati, elenca l'inviata di Le Monde - restano intatti solo i palazzi di Saddam e qualche altro edificio sul lungofiume, occupati dai militari britannici. L'ospedale generale è stato pure preso d'assalto, finché non sono intervenuti i militari britannici.

Già: i militari finora hanno più o meno lasciato fare: mantenere l'ordine pubblico non è compito loro. Strategia deliberata? Il ministro della difesa britannico Geoff Hoon è stato esplicito, ieri alla Bbc: il saccheggio di qualche edificio del Baath è comprensibile, e si tratta solo di «qualche piccolo» episodio. Come a dire che bisogna lasciar sfogo alla legittima rabbia popolare verso il vecchio regime. Ma anche i comandi militari devono essere preoccupati. Il ministro degli esteri Jack Straw ieri ha detto alla Camera dei Comuni che tra le misure considerate per Bassora c'è l'invio di consiglieri di polizia britannica. E il collega Hoon ha aggiunto che i militari «stanno cercando di controllare la situazione, con l'aiuto delle forze locali, per riportare la normalità».

on è ben chiaro però cosa significhi «lavorare con le forze locali». Ieri mattina la Bbc mostrava una delegazione spontanea di cittadini - un direttore scolastico, un ingegnere - che chiedevano udienza al comandante delle forze britanniche. Non l'hanno ottenuta: si sono dovuti accontentare di spiegare alla tv che andavano a chiedere interventi urgenti per rimettere al lavoro l'amministrazione civile, fermare il caos e i saccheggi. Lunedì il comando britannico aveva annunciato di aver affidato lincarico di formare un'amministrazione civile provvisoria a un locale sheik, un capo tribù (di cui non hanno mai fatto il nome). Ma di quest'amministrazione non si vede ancora traccia. In città molti si lamentano: la distruzione vista in questi giorni è peggiore di quella avvenuta nel `91. All'ospedale generale, il medico Muayad Jumah Lefta se la prende con i militari: dice (alla Bbc) che molti dei feriti arrivati negli ultimi giorni sono vittime dei disordini, non dei combattimenti: «persone ferite nei saccheggi, accoltellate dai vicini, colpite da proiettili in risse tra membri del partito Baath e loro rivali... i britannici sono responsabili di questo». Un altro medico, Riva Kasim, è scettico sui capi tribali a cui le autorità militari vogliono affidare il governo cittadino: «Tutti gli sheik a Bassora erano amici di Saddam Hussein», dice al New York Times : se metteranno loro a gestire l'amministrazione, «ci sarà una rivolta». D'altra parte, chi non ha avuto a che fare con il regime: servizi essenziali, polizia, scuole, ogni funzionario con un incarico pubblico era parte del regime. Come un vicepreside dell'università, citato da Le Monde: «L'università è stata invasa dai saccheggiatori nel momento in cui sono arrivate le truppe britanniche», si lamenta, «sotto i loro occhi». «Come ogni persona normale volevo vedere un cambiamento nel mio paese. Ma un cambiamento in meglio. ...e si dicono dei liberatori». " [MAN]

"Il leader sciita Al Khoei ucciso nella moschea di Najaf
MA.FO.
Un assaggio dei tempi bui che stanno per avvolgere l'Iraq? Un noto leader religioso sciita è stato ucciso ieri a Najaf, all'interno di quello che è considerato uno dei luoghi più santi dell'islam sciita - la Grande moschea dell'Imam Ali. Abdul Majid al-Khoei e un suo assistente, Haidar Kelidar, sono stati uccisi da un gruppo di uomini armati, la banda di un altri pretendente leader sciita. La notizia è stata diffusa dalla Fondazione al Khoei, a Londra: Abdul Majid è uno dei figli dell'Ayatollah Abdul Qassem al Khoei, che fu la maggiore autorità religiosa sciita fino alla sua scomparsa nel `92. Abdul Majid al-Khoei era tornato da pochi giorni in Iraq: e il suo ritorno, ovviamente sostenuto dalle forze Usa che controllano l'Iraq, ha suscitato critiche da parte di altre forze sciite - in particolare dallo Sciri, il Supremo consiglio della rivoluzione islamica in Iraq, che in questi giorni ha più volte affermato la sua opposizione all'occupazione militare americana nel paese. Mohammed Baqr al Hakim, leader dello Sciri, che ha anunciato l'intenzione di tornare presto dal suo elisio (a Tehran), aveva criticato l'inclusione del nome di al Khoei nel consiglio di governo provvisorio per l'Iraq.

L'uccisione di Abdul Majid al-Khoei è avvenuta davanti a parecchi testimoni, poiché nella Grande moschea di Najaf stava partecipando a una riunione con notabili e autorità del luogo. Mohamed Fayadh, giornalista e scrittore di Najaf, era presente e ha descritto i fatti alla tv araba Al Jazeera. Riferisce che durante la riunione un gruppo di uomini armati ha cominciato a rumoreggiare davanti alla moschea. Sono gli uomini di tale Mukhtada Al Sadr, figlio di un imam a suo tempo fatto uccidere dal regime di Saddam Hussein, descritto come un giovane facinoroso che vuole affermare il suo controllo mafioso sulla città (sono attribuiti alla sua banda molti dei saccheggi di questi giorni nella città santa irachena). Secondo questa ricostruzione, la banda di Al Sadr chiede di consegnare loro Heider al Rifai, capo dell'istituzione che gestisce la Tomba di Ali, e che accusano di essere stato in colluzione con il regime - è vero che riceveva il presidente Saddam Hussein, quando visitava la città. A quel punto Abdul Majid al-Khoei cerca di negoziare, e illustra il suo messaggio per il futuro dell'Iraq: basta con le vendette, bisogna ricostruire il paese in uno spirito di cooperazione e fraternità nazionale, sciiti e sunniti e kurdi e tutti gli altri.

Il messaggio di conciliazione nazionale non deve aver impressionato la banda di armati. Secondo la ricostruzione dello scrittore, al-Khoei e il suo collaboratore sono rimasti uccisi anche se l'obiettivo era piuttosto quel al-Rifai. Secondo altre testimonianze invece l'obiettivo era proprio lui, visto come emissario delle potenze occupanti. L'uccisione è stata condannata ieri sia dal portavoce della Casa Bianca, sia dal premier britannico Tony Blair: «Era un leader religioso che rappresentava la speranza e la riconciliazione». Per le potenze occupanti, un segnale: scegliere una «leadership credibile locale» non sarà facile." [MAN]

"ALLARME
Dopo l'Iraq tocca alla Siria?
Le truppe Usa occupano Qaim, alla frontiera siriana Rumsfeld ogni giorno accusa Damasco e Israele soffia sul fuoco
MICHELE GIORGIO
GERUSALEMME

«Dopo l'Iraq la guerra continua», scriveva ieri sul Jerusalem Post Uri Dan, storica «penna» dell'estrema destra israeliana, perché, a suo avviso, le organizzazioni estremiste arabe non tarderanno a riorganizzarsi per colpire gli Stati Uniti e i loro alleati, anche nel mondo arabo. Dan, non casualmente, dedica metà della sua lunga analisi a quelli che definisce gli «errori» commessi dal «giovane» presidente siriano Bashar Assad rispetto al padre, Hafez Assad, più accorto, più scaltro in politica internazionale. Bashar avrebbe scelto la strada «scellerata» del sostegno all'Iraq, non negli ultimi giorni, ma negli ultimi mesi. Avrebbe fornito armi all'Iraq e raggiunto accordi con i generali di Saddam Hussein. I fatti riferiti da Dan naturalmente vanno registrati con cautela. Ciò che più importa è l'accanimento contro la Siria mostrato da questo giornalista israeliano che vanta ottime relazione con la destra americana più fanatica che oggi controlla la politica Usa. Dopo l'Iraq i cacciabombardieri Usa sulla Siria? L'ipotesi per ora è remota, ma un attacco contro Damasco non può essere escluso. Secondo gli analisti statunitensi intervistati sul «dopo Saddam» dalle tv americane, Damasco è più pericolosa dell'Iran che pure rientra nell'«asse del male» (Iraq, Iran, Corea del Nord) di George Bush. L'Iran, pensano nell'Amministrazione Usa, vive al suo interno un conflitto vero tra conservatori e progressisti con sviluppi anche per gli interessi Usa nel Golfo. Israele preme per un'azione decisa di Washington contro il nemico iraniano ma Bush, almeno per ora, non indirizzerà le truppe Usa verso Teheran per continuare la nuova «guerra preventiva». La Siria, dicono gli americani, è più monolitica, soprattutto è decisa ad opporsi al controllo Usa sulla regione. Israele, il principale alleato di Washington in Medio Oriente, peraltro vedrebbe con favore gli F-16 bombardare Damasco - che non rinuncia alla sovranità sulle Alture del Golan sancita dalle risoluzioni internazionali e che invece rimangono occupate da ben 36 anni da truppe e colonie israeliane - e non manca di far sentire le sue pressioni. Nelle ultime settimane gli Usa hanno ripetutamente messo sotto accusa la Siria. Prima il Segretario alla difesa Donald Rumsfeld e poi il vice presidente Dick Cheney hanno messo in guardia Damasco fino ad accusarla di aver offerto protezione ai membri del regime iracheno in fuga da Baghdad. «E' giunta l'ora di abbattere gli altri maestri del terrore», ha scritto Michael Ledeen, del centro di studi di Washington, American Enterprise Institute, in un articolo-dichiarazione di guerra intitolato «Ora tocca a Siria e a Iran». Ledeen preme per colpire subito Teheran, convinto che la Siria non potrebbe resistere da sola contro quella che definisce la «rivoluzione democratica» che ha già «sconvolto Kabul e Baghdad». Non sembra perciò un caso che le forze armate americane stiano prendendo il controllo di Qaim, cittadina strategicamente importante nell'Iraq occidentale al confine con la Siria. Il generale Victor Renuart del Centcom ha detto che in quella zona combattono ancora unità della Guardia repubblicana speciale, forze paramilitari e soldati dell'esercito regolare. In realtà gli Usa vogliono prendere il controllo di una zona da dove, provenienti dalla Siria, continuano ad entrare volontari dei paesi arabi per combattere le forze d'occupazione. Il prossimo passo americano, quello che tutti si attendono, è la richiesta, perentoria, della chiusura nella capitale siriana degli uffici delle organizzazioni cosiddette «terroristiche» nonché il disarmo in Libano di Hezbollah che tiene sotto pressione la frontiera settentrionale di Israele. Damasco si è fatta più cauta per non fornire pretesti per nuove accuse, ma, allo stesso tempo, ha esortato la comunità internazionale a compiere tutti gli sforzi per porre fine all'occupazione anglo-americana dell'Iraq e mettere gli iracheni in condizione di scegliere il loro futuro politico. «La Siria - ha detto un portavoce ufficiale - ribadisce il proprio impegno più totale per garantire l'unità e l'integrità territoriale dell'Iraq». Incerta la posizione di Londra. Ieri il ministro degli esteri Straw ha auspicato che Siria e Iran «contribuiscano a costruire un futuro migliore per l'Iraq» cercando di allentare la tensione. Ma il vero interrogativo è quello che ha posto Johann Hari sul pagine dell'Independent : cosa farà Blair se i falchi della destra Usa punteranno con decisione l'indice contro Damasco? " [MAN]

"Si contano i morti. Anzi no, «impossibile»
Il conto è facile per americani e inglesi: 106 più 30, fino a ieri sera, totale 136. Difficile o meglio «impossibile» per gli iracheni: «migliaia» o «decine di migliaia»? Quanti erano «militari» e quanti «civili»?
M.M.
Adesso che la guerra americana all'Iraq è finita (o no?), si contano i morti. Se il conto dei caduti dell'asse anglo-americano è presto fatto e probabilmente preciso, quello dei morti iracheni è - e resterà - difficile. Forse impossibile. Tanto più che non interessa quasi a nessuno e meno ancora ai vincitori che sono quelli che scrivono la Storia. Cominciamo dai morti dell'asse Stati uniti-Gran Bretagna, i soli a dover essere conteggiati in quanto gli altri componenti della coalizione - Australia e Spagna - sono usciti indenni dai campi di battaglia: non si ha notizia di militari australiani caduti o dispersi, mentre fra gli spagnoli gli unici morti sono stati due giornalisti.

Ufficialmente, fino a ieri sera, Washington e Londra davano le seguenti cifre: soldati americani uccisi in battaglia dagli iracheni, 91 (ma il totale non include i possibili-probabili morti delle Special Forces bombardate dal fuoco amico a sud di Mossul il 6 aprile e i tre marines che possono essere morti nell'attacco suicida di ieri a Baghdad); soldati inglesi uccisi dagli iracheni, 8; militari americani uccisi dal friendly fire o in incidenti di percorso, 15; militari inglesi, 22 (un'ecatombe di cui devono ringraziare l'amico americano). Il totale dà 106 americani e 30 inglesi, 136. Oltre a questi 136 sicuramente morti, ci sono 11 marines americani dati per «missing», scomparsi che non si sa se siano morti o nelle mani del nemico (ma il nemico ormai non dovrebbe esserci più, almeno come entità organizzata). Il bilancio dà anche 423 americani e 74 inglesi feriti.

Tutto sommato se la sono cavata con poco, considerato che temevano «migliaia» di morti nella battaglia strada per strada di Baghdad che alla fine non c'è stata.

Il discorso cambia totalmente se si passa al campo iracheno. Le cifre ufficiali del Pentagono, sempre fino a ieri sera, davano 2320 militari e 1252 civili iracheni uccisi (e 5103 civili feriti).

Cifre assolutamente inattendibili. Sia perché il numero dei morti diffuso dal Pentagono riguarda per sua stessa ammissione solo i militari uccisi nella battaglia dentro o intorno a Baghdad. Sia perché, come scriveva ieri il New York Times, «il problema dei nemici morti non rientrava nei briefing quotidiani del Comando centrale» di Doha, nel Qatar, e «agli ufficiali americani non si richiedeva di conteggiare le perdite irachene».

Cifre inattendibili, quindi, ma anche inaccurate e quasi ininteressanti (per loro). «Il numero dei morti iracheni forse non si saprà mai», era il titolo dell'articolo del Nyt.

Innanzi tutto: «chi è un civile e chi è un soldato?», iracheno naturalmente. E porta l'esempio dell'ospedale di Bassora dove «autisti delle ambulanze e medici» stimano di avere contato fra mille e due mila corpi nelle tre settimane di guerra. Alcuni erano sicuramente militari, altri sicuramente civili - «donne, bambini e anziani» -, altri erano talmente bruciati dalle bombe americane da risultare irriconoscibili.

Lo stesso «puzzle» di Bassora, dice il New York Times, lo si può riscontrare in tutto il paese e a Baghdad. Una settimana di combattimenti a terra ha «ridotto praticamente a zero» la divisione Baghdad della Guardia repubblicana, secondo un ufficiale dei marines. Dove sono finiti quei 10 mila uomini? Morti? Fuggiti? «Nei bombardamenti di quelle divisioni il livello di distruzione è stato terrificante - ha detto lo stesso anonimo marine -. Intere divisioni sono state distrutte. Molti sono andati a casa, ma molti sono stati uccisi. Sarà solo a guerra finita che potremo avere dati più precisi».

C'è da dubitarne. Sarà un lavoro improbo per i gruppi che si occupano dei diritti umani, per gli storici e per i giornalisti. Non certo per i «liberatori» americani e inglesi che, al massimo, sparano cifre legate a questo o quell'episodio, a questa o quella battaglia. Una fra tante: quella fornita dal Comando centrale sabato scorso quando disse che «da 2000 a 3000 soldati iracheni sono stati uccisi in tre ore di attacco in una parte di Baghdad ad opera di una colonna blindata americana».

Spacconate dei rambo? Forse. Ma c'è una diffusa convinzione che la campagna di bombardamenti sull'Iraq e su Baghdad abbia «quasi certamente» ucciso «migliaia» o «decine di migliaia» di soldati iracheni. Solo soldati? Mark Burgess, un ricercatore del Center for Defense Information di Washington, dice che questa guerra ha presentato «problemi inusualmente difficili nella stima dei morti perché poche unità militari irachene hanno combattuto in un modo organizzato» e pertanto il numero dei morti «è una domanda a cui non si può rispondere», come pure sulla qualità dei morti - militari? civili? «irregolari»? - in quanto la spaventosa efficacia delle bombe usate da americani e inglesi - le bombe «intelligenti» - hanno lascito «centinaia o migliaia di vittime polverizzate, bruciate o fatte a pezzi». " [MAN]

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MEDIA
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"Va in onda TeleLibertà, ma nessuno la vede
Un aereo trasmette su Baghdad il telemessaggio di Bush e Blair. Però non c'è l'elettricità...
George W. Bush «In questo momento il regime di Saddam sta per essere rimosso»: sfondo rosso e sottotitoli in arabo per la prima comunicazione del presidente americano agli iracheni. Un ripetitore era stato risparmiato per trasmettere il messaggio. Ma le centrali elettriche no
Tony Blair «Sono lieto di poter parlare con voi per dirvi che il regime sta cadendo». Anche il leader britannico appare sottotitolato in arabo. Il messaggio era stato registrato a Belfast, durante il vertice tra Bush e Blair nel castello di Hillsborough, poco prima della presa di Baghdad
F. PAN.
NEW YORK
George Bush sente educatamente il bisogno di presentarsi: «Sono George Bush, il presidente degli Stati Uniti». Tony Blair invece va subito al sodo: «Sono lieto di poter parlare a voi oggi per dire che il regime di Saddam Hussein sta cadendo». L'idea era di piombare sui disperati iracheni con un «benvenuti nel mondo libero» proveniente direttamente dalla voce e la faccia dei vincitori al massimo livello, con le loro parole rese comprensibili dai sottotitoli in arabo, convinti che ciò avrebbe immediatamente diffuso un senso di sicurezza, tranquillità, fiducia nel futuro. E tanto erano stati considerati importanti, quei messaggi, che una buona parte del tempo che Bush e Blair avevano trascorso insieme in Irlanda del Nord martedì scorso era stata dedicata appunto alla loro registrazione. Un C-130 Hercules era stato attrezzato alla «messa in onda» e i trasmettitori della tv irachena erano stati «risparmiati» dai bombardamenti perché al momento opportuno diventasero i portatori del nuovo verbo. Ma ieri, al momento di realizzare il piano, si è scoperto che due pezzi non proprio secondari mancavano all'appello. Uno era la certezza che la gente di Baghdad, invece che arrabbattarsi a trovare qualcosa da mangiare per i propri figli, se ne stesse attaccata davanti ai televisori. L'altro era che anche se qualcuno avesse voluto farlo, non c'era la corrente elettrica per accenderlo, il televisore. Così quelle facce e quelle voci le hanno ascoltate tutti nel mondo (un po' come Bin Laden su Al Jazeera) tranne quelli cui erano diretti. E l'immagine di quel C-130 che volteggia nel cielo con il suo messaggio che non va in nessun posto e di quei cinque milioni di persone che là sotto non lo possono ascoltare e comunque hanno ben altro a cui pensare supera ogni immaginazione surrealistica. «In questo momento il regime di Saddam Hussein viene rimosso dal potere e una lunga era di paura e crudeltà sta finendo», diceva Bush dal C-130 ma in fondo questo i suoi mancati ascoltatori lo sapevano già. «I nostri scopi sono chiari e limitati: porre fine a un regime brutale la cui agressività e le cui armi di distruzione di massa ne facevano una minaccia di portata unica per il mondo intero», continuava il prode, anche se quelle famose armi sono ancora un altro pezzo mancante di questa storia. «Le nostre forze vi aiuteranno a mantenere il rispetto delle legge e dell'ordine», e intanto Baghdad era in preda ai furti, ai saccheggi e all'arraffa tutto quello che puoi e quelli smarriti in quel caos non potevano neanche consolarsi con il fatto che comunque Bush li ama («Voi siete gente buona e brava, eredi di una grande civiltà che dà il suo contributo all'intera umanità») e li aprezza: «Rispetteremo la vostra grande religione i cui principi saranno essenziali nel futuro dell'Iraq».

La trasmissione del messaggio era l'inaugurazione di un canale televisivo nuovo. Il suo nome è «Verso la libertà», la sua gestione è affidata ai militari americani e inglesi e i suoi programmi consisteranno in cinque ore al giorno, cinque giorni la settimana." [MAN]

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ITALIETTA
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"Cavaliere a stelle e strisce
Berlusconi canta vittoria: «L'americanismo è vincente. Con il sangue dei loro cittadini gli Usa compiono interventi umanitari. Troppi hanno fatto gargarismi antimilitaristi. Pronti a inviare in Iraq i nostri militari. E forse sarà necessaria una tassa»
ANDREA COLOMBO
ROMA
Finita (o quasi) la guerra, è finito anche quello che Silvio Berlusconi definisce il suo «più stretto riserbo». Il premier è a Pescara per sostenere il candidato della Cdl Carlo Masci, ma di elezioni parla pochissimo. L'argomento del giorno è la vittoria, e un altro leader così trionfalista non lo si trova in tutto l'occidente. Sovreccitato quando parla dei mai abbastanza esaltati Stati uniti: «Il filoamericanismo è vincente. Gli Usa sono una grande democrazia che con il sangue dei suoi cittadini compie interventi umanitari». Offensivo quando allude al pacifismo: «Troppe persone sono andate in giro a fare gargarismi di antimilitarismo». Sprezzante nei giudizi sull'opposizione: «La sinistra non ha gioito per la fine della guerra. Se ci fosse un Tony Blair dovrebbe venir fuori e battere un colpo, ma non c'è. Le aperture di D'Alema sono solo passi di ttrantella». Prodigo, come sempre, di complimenti per se stesso: «Ho mantenuto sempre una continuità di rapporti con tutti, chi non ha un atteggiamento prevenuto nei confronti del governo non può che aver apprezzato il nostro riserbo».Audace, ora che non ce ne è più bisogno: «Non partecipare alla coalizione antiterrorismo sarebbe un atteggiamento vile». Ma tra le alte grida di giubilo e le raffiche di insulti che riserva alla sinistra, Silvio Berlusconi infila anche un'informazione seria, del resto già ampiamente anticipata sin dalla vigilia del conflitto. L'Italia risponderà positivamente alla richiesta degli Usa e della Gran Bretagna. «Il governo - scandisce - ha risposto di essere disponibile a inviare un contingente di mlitari in Iraq, una volta finita la guerra. Ogni decisione in proposito sarà sottoposta al parlamento e assistita da una decisione delle camere».

Di più il premier non dice. Evita i dettagli. Non conferma e non smentisce che la richiesta anglo-americana riguardi l'arma dei carabinieri, segnatamente la Seconda brigata mobile comandata dal generale Leonardo Leso, quella che raduna militari come i parà del «Tuscania», i commandos del Gis, le Unità specializzate multinazionali. Ragazzi che si sono coperti di gloria su diversi fronti, in particolare quello pericolosissimo di Genova, nei non dimenticati giorni del G8. Incidentalmente, l'operazione potrebbe comportare una nuova tassa. Berlusconi «non lo esclude». Giura di «non averne ancora parlato con Martino e Tremonti». Certo, aggiunge però minaccioso, «il costo per l'operazione di peace keeping sarà elevato».

Vaghissimo sui tempi (anche perché è impossibile dire quando la guerra finita finirà davvero), Berlusconi racconta tuttavia di aver già affrontato la faccenda in un colloquio col ministro della Difesa Antonio Martino. Quindi illustra il futuro prossimo dell'Iraq, dopo la fine delle operazioni militari: «Ci sarà una prima amministrazione da parte delle autorità alleate: non potrà essere diversamente. In un secondo tempo avremo l'intervento della comunità internazionale».

In quale di queste fasi sia previsto l'invio dei militari italiani, Berlusconi non lo dice, ed è sintomatico che neppure di sfuggita nomini l'Onu. Il suo governo ha detto sì agli americani e agli inglesi, non al Palazzo di vetro. Di Nazioni unite parla in compenso il ministro degli Esteri Frattini. «Dovranno avere un ruolo importante - assicura - un ruolo guida». Non significa però che l'Italia debba perder tempo ad aspettarle. Al contrario, precisa Frattini, «l'Italia deve essere pronta ad agire subito e anche senza l'Onu per assistere la popolazione. Non si può lasciar passare del tempo se le condizioni umanitarie richiedono un intervento».

E' difficile credere che parole simili siano state pronunciate a caso. Tutto, al contrario, dalle fanfare suonate dal premier al colloquio tra lui e Martino sino all'allusione precisa di Frattini, induce a pensare che la richiesta di supporto italiano sia già stata avanzata per quella «prima fase» in cui l'Iraq sarà sotto il protettorato diretto delle forze armate anglo-americane.

Sarà necessario, è vero, un passaggio parlamentare, e non è escluso che dalle file dell'Udc possa qualche grattacapo. Non a caso sin dalle prime ore della caduta di Baghdad il partito cattolico e in particolare il ministro per le Politiche comunitarie Rocco Buttiglione hanno iniziato a insistere sulla necessità che l'Onu prenda subito in mano la situazione in Iraq. Ma non è un problema che possa impensierire Berlusconi, tanto più che a controbilanciarlo ci sono le difficoltà in cui già si dibatte l'Ulivo, dopo il breve momento di effimera unità pacifista.

Se arriverà una richiesta di intervento immediato, subito dopo la fine della guerra, il governo italiano la accoglierà con entusiasmo, il parlamento controfirmerà con altrettanta solerzia. Ora che il conflitto è finito («Con meno vittime di quanto molti temevano», ci tiene a sottolineare il Cavaliere), ora che si avvicina il semestre di presidenza italiana che lavorerà per «una ricucitura europea», Silvio Berlusconi ci tiene a far sapere che lui è stato sin dall'inizio dalla parte giusta. Quella del vincitore. " [MAN]

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KURDI e TURCHI
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"I peshmerga fanno da soli
I miliziani kurdi anticipano gli americani e prendono Kirkuk, la «capitale» kurda e soprattutto il tesoro petrolifero della regione. E la Turchia, che teme la formazione di uno stato kurdo, minaccia: «I peshmerga devono andarsene, altrimenti interverremo noi». Gli Usa temono una guerra nella guerra, nella città conquistata si scatenano i saccheggi agli edifici pubblici e il rituale assalto alla statua di Saddam
ORSOLA CASAGRANDE
In tarda serata si è «arresa» la Guardia repubblicana a Mosul e in mattinata era «caduta» Kirkuk. Le immagini della conquista di Kirkuk da parte dei peshmerga kurdi hanno immediatamente provocato il governo turco ad annunciare l'invio di osservatori militari nella città nordirachena per assicurarsi - ha detto il ministro degli esteri Abdullah Gul - che l'occupazione kurda «duri solo il tempo per il passaggio di consegne dai kurdi agli americani». A Kirkuk si è ripetuta la cerimonia della caduta di Saddam: decine di persone hanno fatto crollare la statua del rais che dominava la piazza centrale. Quando poi si è sparsa la voce che quella che i kurdi considerano da sempre la loro capitale era in mano ai peshmerga, a migliaia si sono messi in viaggio da Arbil per unirsi ai festeggiamenti. Anche a Kirkuk, come già a Bassora e Baghdad, la gente ha preso d'assalto edifici pubblici e del governo, saccheggiandoli. Al posto di Saddam sono comparse le fotografie del leader kurdo Barzani (e di suo padre).

Intanto ad Ankara Abdullah Gul, in una conferenza stampa convocata d'urgenza, ha sottolineato di aver avuto «assicurazioni precise dagli Stati uniti» sul fatto che i guerriglieri kurdi saranno «rimpiazzati rapidamente da truppe americane» e ha aggiunto di «aver concordato con il segretario di stato americano Powell l'invio di osservatori militari a Kirkuk». Non solo. Il ministro ha anche detto che Powell ha promesso alla Turchia di inviare «le truppe Usa necessarie a prendere il posto dei peshmerga nel giro di ore». Ankara ha offerto di inviare proprie truppe nel caso non ci fossero sufficienti soldati americani pronti a sostituire i kurdi. «L'offerta - ha detto Gul - è stata rifiutata. Adesso aspettiamo e controlliamo gli avvenimenti molto da vicino». I guerriglieri kurdi hanno dichiarato di aver preso la città di Kirkuk dopo che la popolazione aveva cominciato a scendere per le strade inscenando una rivolta. Nonostante le scene di gioia e le dichiarazioni vittoriose dei peshmerga, il portavoce Usa al comando centrale ha in serata messo in guardia da facili entusiasmi.

Il nervosimo turco per la conquista di Kirkuk da parte dei peshmerga (gli americani hanno aiutato i kurdi dal cielo, ma non via terra) si riflette nella frenetica attività diplomatica e di propaganda in corso da ieri a Ankara. Da una parte i turchi hanno cercato di evitare (per ora) le minacce di qualche settimana fa («se i kurdi entreranno a Kirkuk manderemo immediatamente le nostre truppe nel nord Iraq», aveva tuonato il primo ministro Recep Tayyip Erdogan). Ieri non c'è stata menzione del fatto che la conquista della città strategicamente ed economicamente più importante del nord Iraq rappresenta per la Turchia un «casus belli», ma Ankara si è affrettata a chiedere agli americani rassicurazioni sull'immediata cessazione dell'occupazione kurda. I peshmerga, hanno fatto sapere i turchi agli Usa, devono andarsene velocemente. Il rappresentante dell'Unione patriottica del Kurdistan (Puk) ad Ankara ha detto ieri sera che i guerriglieri si sarebbero ritirati già oggi, dopo l'arrivo dei parà Usa. I turchi hanno accolto con diffidenza l'annuncio preferendo continuare le loro pressioni sull'alleato Nato. Gli Stati uniti hanno cercato di dare garanzie ad Ankara. Non è un mistero che gli americani temano l'esplosione di un conflitto nel conflitto (turchi contro kurdi). Si tratta di capire se le minacce del governo turco costituiscano davvero un pericolo reale. Di certo c'è per ora solo il fatto che Ankara ha deciso di concedere agli americani «qualche ora» (più realisticamente giorni) per raddrizzare la situazione.

La palla dunque è nella metacampo statunitense. E la scelta che gli americani devono compiere è estremamente complessa. Perché qualunque cosa decidano di fare, non riusciranno ad accontentare entrambi i contendenti. Il peggiore degli incubi per gli Usa rischia di materializzarsi nei prossimi giorni. Perché se decideranno di rimpiazzare i peshmerga, faranno contenti i turchi, ma sicuramente i kurdi iracheni se ne risentiranno. Non è un mistero che per questi ultimi la conquista di Kirkuk (al di là delle dichiarazioni) è un evento decisivo. I kurdi infatti non solo vorrebbero mantenere il controllo della città, ma intendono giocarsi la sua conquista (praticamente da soli) al tavolo della divisione dei ruoli (e del potere) nell'Iraq post Saddam Hussein. E' evidente che i kurdi non si accontenteranno di essere un'etnia riconosciuta e alla quale viene concessa una limitata autonomia (come accadeva sotto Saddam) più culturale e politica che economica. Le frizioni, anche con gli altri gruppi di potere iracheni che si stanno posizionando per arraffare le fette di torta migliori, sono assicurate. Così come è certo il malumore non solo della Turchia, ma anche di Siria e Iran verso la creazione di uno stato kurdo indipendente. Proprio la Siria nei giorni scorsi ha invitato Iran e Turchia a mettere da parte le differenze e ad unirsi contro l'eventualità della creazione di uno stato kurdo nel nord Iraq. I kurdi iracheni hanno avvertito gli Usa che se la Turchia manderà le sue truppe non se ne staranno certo a guardare.

Kirkuk con i suoi quasi settecentomila abitanti è il cuore dell'industria petrolifera irachena ed una chiave importante per la stabilizzazione del nord Iraq. Circondata dai pozzi più importanti della regione è collegata a diversi porti del Mediterraneo via oleodotto. Nel 2002 ha inviato a Ceyhan (in Turchia) un milione di barili di grezzo al giorno. Non è un caso che i kurdi vorrebbero fare proprio di Kirkuk la capitale di un futuro stato kurdo. Un'eventualità contrastata dagli iracheni e dalla minoranza turcomanna." [MAN]

"L'arcipelago della rappresentanza kurda
O.C.
Nella regione kurda del nord Iraq ci sono più o meno quaranta partiti politici che rappresentano nazionalisti, socialisti, islamici. Alcuni di questi partiti sono sorti dopo la nascita dell'amministrazione kurda al termine della prima guerra del Golfo nel 1991. L'amministrazione è stata guidata dal Fronte Nazionale Kurdo, una coalizione di sei partiti, fino alle elezioni del 1992. Vincitori in quella tornata elettorale sono risultati i due partiti kurdi più influenti: il Pdk (Partito democratico del Kurdistan) ha ottenuto il 50.8% mentre il Puk (Unione patriottica del Kurdistan) ha ottenuto il 49.2%. Pdk e Puk sono sempre stati due partiti rivali (le relazioni tra kurdi sono caratterizzate da amori, alleanze e tradimenti costanti) ma prima della guerra in Iraq, e dopo una serie di negoziati, hanno deciso di unirsi, spartendosi equamente il controllo del parlamento kurdo. Il Pdk, guidato da Massoud Barzani è il più antico partito kurdo e quello con più seguito. Dopo la morte di suo padre, mullah Mustafa (nel 1979) Massoud Barzani è diventato leader del partito ed ha guidato il Pdk nelle lotte con il governo centrale di Baghdad per un'autonomia kurda, e nelle lotte con il Puk. Ha diverse decine di migliaia di guerriglieri (peshmerga) e controlla ampie zone a nord-ovest della regione kurda. Il governo regionale guidato dal Pdk ha sede ad Erbil: primo ministro è Nechirvan Barzani. Durante la guerra Iran-Iraq Barzani ha goduto dell'appoggio iraniano, ma negli anni `90 non ha esitato ad aprire negoziati con la Turchia, spesso in funzione anti-Pkk (il partito dei lavoratori del Kurdistan). Nel `96, messi da parte gli anni di lotta con il governo di Baghdad, Barzani ha chiesto a Saddam Hussein sostegno contro il Puk. Con l'aiuto delle truppe irachene il Pdk ha conquistato Erbil, sede del parlamento kurdo.

L'Unione patriottica del Kurdistan (Upk) gode di consensi soprattutto nel sud-est della regione kurda del nord Iraq. Il suo leader (dalla creazione del partito, nel 1975) è stato Jalal Talabani. Il partito dice di avere 150mila iscritti e di avere come scopo «la ricostruzione e la direzione della società kurda secondo standard moderni e democratici». Nel `91 il Upk ha giocato un ruolo centrale nelle rivolte (fallite) dei kurdi contro il governo di Saddam. I sostenitori dell'Upk sono concentrati soprattutto nel sud della regione kurda. Anche l'Upk aveva espresso riserve nei confronti della guerra americana contro l'Iraq, sostenendo di non essere pronto a svolgere il ruolo del «cavallo di Troia per le truppe americane». Come il Pdk, però, ha cambiato idea evidentemente lusingato dalle promesse statunitensi. Quelle promesse (di indipendenza per uno stato kurdo?) che oggi sembrano seriamente compromesse.

Il terzo gruppo kurdo (e il più consistente) è quello rappresentato dai quasi venti milioni di kurdi che vivono in Turchia e che sono certamente quelli che soffrono la repressione maggiore. Perseguitati da Ankara sono spesso stati vittima degli attacchi del Pdk, che non ha esitato ad allearsi con la Turchia (con la quale ha stretto accordi anche commerciali) per cercare di sterminare i guerriglieri del Kadek (ex Pkk). Anche in questa guerra (che il Kadek ha condannato) ad essere in pericolo sono soprattutto i kurdi della Turchia, che rischiano di rimanere schiacciati tra le forze turche e quelle kurde irachene.

Nel nord Iraq ci sono poi diversi movimenti e partiti che rappresentano altre minoranza etniche e religioni. C'è il movimento democratico assiro, che si batte per il riconoscimento dei diritti della minoranza assira in Iraq. Il movimento islamico è rappresentato da diversi partiti. Ansar al Islam è accusato dagli Usa di avere legami con al Qaeda. " [MAN]

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Titolo Autore Data
blicero joe Sunday April 13, 2003 at 04:38 PM
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