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[Cronologie di guerra] 11.04.03 ventitreesimo giorno
by blicero Sunday April 13, 2003 at 05:50 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 11.04.03 ventitreesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.


11 aprile 2003 : ventitresimo giorno
[fonti : quotidiani del 12 aprile 2003]

"Non si riesce a seppellirli tutti, i morti stivati dentro camion frigo I saccheggiatori non risparmiano gli ospedali, le case e i musei Rapine, linciaggi e «errori di mira» continuano a mietere vittime Due bambini uccisi dai marines a un posto di blocco a Nassiriya Rumsfeld dice che non c'è caos Si indigna la Croce rossa: «Le potenze d'occupazione hanno dei doveri» Si infiamma il confine con la Siria" [MAN]

"Fuoco al check point,uccisi due bambini
Ancora vittime civili Nasiriya, un'auto non si ferma all'alt: i marines sparano e ammazzano due bimbi. Tikrit è sempre sotto le bombe. Ucciso anche un fratellastro di Saddam
M.M.
Altri due bambini. Uccisi dai marines americani a un check-point vicino a Nasiriya, nel sud dell'Iraq, ieri mattina. «Uno spiacevole incidente», se l'è cavata così il capitano Jay Delarosa, portavoce della quindicesima U.S. Marine Expeditionary Unit. Anche «il nostro comando lamenta questo incidente». Amen. Ma, ha poi spiegato il capitano Delarosa, quei bambini o chi per loro, se la sono cercata. Perché il pullmino su cui viaggiavano non si è fermato a un posto di blocco e «i nostri marines sono entrati in azione per proteggersi contro quello che credevano fosse un attacco suicida». E secondo le regole d'ingaggio fissate dai comandi centrali americani dopo i numerosi attacchi kamikaze durante le tre settimane di guerra, prima si spara e poi si si vede.

I marines, ha spiegato il capitano ed è comprensibile che sia così, sono molto nervosi, sempre sul chi vive e con il dito sul grilletto.

Secondo la ricostruzione ufficiale, un veicolo carico di gente si è avvicinato a un ceck-point a Nasiriya verso le sei e tre quarti di ieri mattina. «Ad alta velocità».

«Al veicolo è stato ingiunto più volte di fermarsi, con segnalazioni e ingiunzioni dei marines». Ma, chissà perché, il mini-bus «ha cominciato ad aumentare le velocità e a zigzagare fra gli ostacoli posti di fronte al posto di blocco». A quel punto i marines «hanno sospettato, a causa dei precedenti, che si trattasse di un attentatore suicida. E hanno sparato».

Solo che dentro il veicolo non c'erano kamikaze o fedayn, ma solo povera gente in fuga dalla guerra e dal caos in cui «la guerra di liberazione» e il collasso del regime saddamista hanno sprofondato l'Iraq.

Due bambini che erano a bordo sono stati uccisi e altri nove passeggeri feriti. Una successiva ispezione effettuata dai marines ha accertato che nessuno era armato né di bombe né di altre armi.

«Uno spiacevole errore».

Intanto nel cosiddetto «fronte nord», dopo la caduta ieri di Mosul, Tikrit - città natale di Saddam Hussein - resta l'unico centro iracheno strategico che gli eserciti anglo-americani non hanno ancora «conquistato». Sulle sorti di Tikrit, nonché di Saddam e della leadership irachena che sembrano svaniti nel nulla, le voci e le speculazioni si rincorrono.

I generali Usa sostengono di aver osservato i militari iracheni scavare trincee ed erigere fortificazioni attorno a Tikrit, che gli americani considerano l'ultimo bastione della resistenza irachena.

«Ci stiamo concentrando su Tikrit per evitare che il regime ricostruisca un comando nella città o riesca a rifugiarsi all'interno», ha dichiarato il portavoce del Comando centrale americano, generale Vincent Brooks. «Concentrarsi» su Tikrit significa che la città - 200.000 abitanti,175 chilometri a nord di Baghdad - viene martellata dai bombardamenti dell'aviazione militare Usa. Durante uno di questi raid, ieri un aereo americano ha sganciato sei bombe «intelligenti» a guida satellitare sulla casa di Barzan Ibrahim Hasan al-Tikriti, fratellastro di Saddam Hussein ed ex capo dei servizi segreti iracheni. Al-Tikriti - che secondo la televisione araba al-Jazeera sarebbe morto, seppellito sotto le macerie della sua abitazione - era stato posto da tempo fuori dal regime e messo sotto sorveglianza in seguito a dissidi con Qusai e Uday Hussein, figli di Saddam. Dunque le bombe «intelligenti» hanno ucciso un uomo agli «arresti domiciliari», un ex notabile che non contava quasi più nulla nella struttura di potere del regime iracheno.

La protezione della città natale di Saddam Hussein era stata affidata alla settima divisione meccanizzata «Adnan» della Guardia repubblicana. Secondo gli Stati uniti adesso quest'ultima sarebbe stata rinforzata dalla Guardia repubblicana speciale, i Feddayyn di Saddam ed elemnti del partito Baath rimasti fedeli al rais. Non è chiaro se Saddam sia sopravvissuto agli almeno due tentativi da parte degli americani di assassinarlo con le bunker buster, bombe che penetranno nei rifugi sotterranei e che hanno un micidiale effetto distruttivo. Tuttavia i generali Usa pensano che il rais possa essersi rifugiato proprio a Tikrit e sono pronti a dare alla città l'assalto finale. Nel frattempo, da giorni, la bombardano con l'aviazione colpendo centri radio, caserme della Guardia repubblicana e istallazioni militari. Dal Pentagono si dicono pronti a quella che definiscono una «grande battaglia». Le forze speciali Usa hanno anche chiuso la strada che da Baghdad porta a Tikrit, per bloccare un'eventuale ritirata di forze irachene dalla capitale.

E a nord di Tikrit le forze speciali Usa avrebbero scoperto cinque piccoli aerei «nascosti» che - secondo fonti militari amricane - forse dovevano servire per la fuga di esponenti di spicco del regime." [MAN]

"Gli Usa convocano gli «oppositori»
Nelle moschee risuona il rifiuto verso gli «occupanti aggressori»
La data e il luogo sono stati annunciati ieri dal Dipartimento di stato americano: martedì 15 aprile, a Nasiriya, Iraq meridionale. La lista dei partecipanti però è incerta. Chi andrà alla prima riunione dell'opposizione irachena nell'Iraq «liberato»? Almeno tre sigle hanno risposto senza dire se accettano o meno l'invito. Sono il Iraqi National Group (Ing), il Supremo Consiglio della rivoluzione islamica in Iraq (Sciri) e l'Unione patriottica del Kurdistan (Puk). Tutti e tre hanno fatto sapere, tramite portavoce, che stanno valutando se partecipare.

Il fatto è che lo scopo stesso della riunione è ancora oggetto di contesa. La vera amministrazione ad interim è quella che guiderà l'ex generale Jay Garner, con uno stuolo di consiglieri: ieri Washington ha annunciato anche l'invio di 26 consiglieri di politia e giudiziari.

La riunione degli oppositori, ha detto ieri il portavoce del Dipartimento di Stato, è il primo di «una serie di meeting regionali», per dare agli iracheni «un forum per discutere del futuro» in vista di una conferenza nazionale. In termini ben diversi l'aveva annunciata Ahmad Chalabi, l'ex banchiere di una ricca famiglia sciita che nel `92 a Washington ha fondato l'Iraqi National Congress -sponsorizzato dal Pentagono al punto che domenica scorsa è stato portato in aereo a Nasiriya, con 700 uomini armati e un paio di reporter con telecamere. Chalabi ne parla come di una riunione che definirà il prossimo governo ad interim «degli iracheni». Giovedì aveva annunciato che gli Stati uniti hanno già selezionato 43 nomi di iracheni, exilés e oppositori rimasti all'interno, per partecipare a questa riunione. Ma Latif Kubba, che guida il Ing e afferma di rappresentare circa 500 exilés, ha criticato l'operazione di paracadurate Chalabi con i suoi uomini armati, «è come dare il segnale che ciascuno può farsi avanti con le sue milizie». (Gli uomini di Chalabi, chiamati Forze dell'Iraq Libero, sono quelli addestrati dal Pentagono nei mesi scorsi in Ungheria).

Il Puk si mantiene cauto dicendo che «non c'è accordo sullo scopo della riunione». Mentre un portavoce dello Sciri, Hamid al Bayati, ha detto che tutto dipende da come si delinea una nuova amministrazione irachena: «Potremmo non poter prendere parte a un governo sotto occupazione militare».

L'opposizione a un governo d'occupazione è risuonata ieri in molte moschee dell'Iraq meridionale. A Bassora, nella moschea principale l'Imam che ha officiato la preghiera ha polemizzato in modo duro con le forze britanniche che controllano la città: «Non possiamo accettare la designazione del potere da parte degli occupanti aggressori». Si riferiva alla decisione di affidare l'amministrazione della città ai capi tribù: «Le istituzioni devono rapresentarci, non essere strumenti di oppressione e divisione nelle loro mani»." [MAN]

"Rumsfeld: non è caos, è solo «confusione»
Bassora, i militari sparano sui saccheggiatori, 5 morti. La Croce Rossa parla di responsabilità delle «potenze occupanti»
MARINA FORTI
Caos? Non esageriamo. Per il segretario statunitense alla difesa Donald Rumsfeld i saccheggi e il disordine in cui è piombato l'Iraq sono solo un momento di «confusione»: «Nessuno condona i saccheggi, ma d'altra parte si può capire...». Il saccheggio è cosa normale nei momenti di transizione, ha dichiarato ieri a Washington - quasi infastidito, perché la conferenza stampa doveva trattare dei successi militari in Iraq. Comunque sia, «Abbiamo l'obbligo di aiutare a dare sicurezza, e le forze della coalizione lo stanno facendo». La realtà è che via via che il vecchio regime evapora, le città irachene piombano nel caos. Saccheggi e violenze avvengono per lo più sotto gli occhi delle truppe americane o britanniche, mentre i comandi minimizzano. Il portavoce della Casa Bianca Ari Fleischer ieri ha detto che «il regime [di Saddam Hussein] ha perso il controllo e questo rappresenta una grande svolta per gli iracheni», ma «la missione militare continua»: di ordine e sicurezza non ha fatto parola.

Le potenze occupanti però sono chiamate in causa: ed è il Comitato internazionale per la Croce Rossa a usare questo termine, occupanti. «Nelle zone sotto il loro controllo, le forze della coalizione hanno responsabilità precise come potenze occupanti in base alla legge umanitaria internazionale», afferma un secco comunicato diffuso ieri; queste «includono prendere tutte le misure ... per restaurare e mantenere l'ordine pubblico e la sicurezza» e «assicurare che la popolazione abbia rifornimenti in termini di acqua, cibo, e cure mediche». Giovedì il segretario generale dell'Onu Kofi Annan si era detto allarmato: «Ristabilire legge e ordine deve essere la priorità». Ma «Le forze della coalizione sembrano incapaci di fermare i saccheggi o imporre un qualche freno alle bande che ora governano le strade», ha commentato Veronique Taveau, portavoce dell'ufficio di coordinamento delle Nazioni unite in Iraq.

Così, dopo giorni di reticenza Londra e Washington sono costrette a rispondere. La Gran Bretagna ha annunciato «una svolta»: bisogna mettere fine a saccheggi e banditismo, ha affermato ieri il colonnello Chris Vernon, portavoce delle truppe britanniche. «Nelle prossime 72 ore vedrete cambiare il nostro atteggiamento in questa che chiamiamo operazione di sicurezza interna», ha detto. Il colonnello Vernon non ha spiegato quali metodi adotteranno le sue truppe, ma le notizie giunte da Bassora sono un'indicazione. Militari britannici di pattuglia nella seconda città irachena giovedì sera hanno sparato e ucciso 5 uomini che stavano cercando di rapinare una banca. «Gli uomini hanno impegnato la pattuglia», ha riferito il portavoce Usa al Comando centrale in Qatar - eufemismo per dire che i rapinatori avevano sparato sui soldati britannici che gli avevano intimato di fermarsi; i soldati hanno risposto al fuoco e ucciso. Non ci sono altre versioni dei fatti.


Il portavoce americano, brigadiere generale Vincent Brooks, ha commentato: le forze della coalizione non intendono assumere ruoli di polizia in Iraq, ma la «ferma azione» della pattuglia britannica «ha scoraggiato» altri saccheggiatori. I comandi militari ripetono che la priorità resta sbarazzarsi delle «sacche di resistenza», l'ordine pubblico verrà dopo. I marines a Baghdad non si fanno scrupolo di dire che non è affar loro. Un ufficiale sulla torretta del suo carrarmato dice al New York Times: perché non fermiamo i saccheggi? perché non abbiamo avuto ordine di farlo, e comunque «non avremmo abbastanza truppe». Ieri i comandi Usa hanno parlato di istituire il coprifuoco. Hanno anche annunciato di voler istituire un centro per le operazioni civili (al Palestine Hotel), e fatto appello a funzionari e impiegati che gestivano i servizi pubblici a farsi avanti, per aiutarli a rimettere in funzione la città. A Baghdad e Bassora molti cittadini cominciano a difendersi sparando o linciando chi viene colto a rubare: la spirale del caos è completa. " [MAN]

"Mattatoio Baghdad, dove i medici sono becchini
All'ospedale pediatrico medici e infermieri seppelliscono montagne di cadaveri che ormai non trovano più posto da nessuna parte. E' l'ennesima prova che la guerra non rispetta neanche i morti in una città dove dominano caos e violenza e dove bastano cinque dollari per comprare un kalashnikov. E dove, per paura dei saccheggi, i commercianti, difendono armati i propri negozi
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
La guerra non ha pietà nemmeno per i morti. Non c'è stata finora sepoltura per molte delle vittime di questa guerra. Molti cadaveri giacciono ancora per le strade dove sono stati colpiti a morte, sempre più gonfi, deformati, prima di imputridirsi. Soprattutto nel quartiere al Mansour, il più devastato dai bombardamenti e dai combattimenti. Accatastati in camion poi rinchiusi in una stanza in attesa di trovare il posto per una tomba, i cadaveri depositati presso l'ospedale pediatrico al-Iskan, l'ex-Saddam (saranno molti i luoghi da rinominare vista l'inflazione dei luoghi dedicati a Saddam), che si trova proprio a ridosso di al Mansour, alla fine hanno deciso di seppellirli nel giardino. L'odore era ormai insopportabile, erano morti da almeno tre giorni, in spregio ad ogni credenza musulmana che vuole la sepoltura immediata, ieri, pale alla mano, i dipendenti dell'ospedale hanno scavato le fosse. Comunque troppo piccole e troppo poche per accogliere tanti morti: bambini, donne, uomini finiti sotto i bombardamenti o nelle sparatorie. Rinchiusi in sacchi di plastica azzurri, sono stati tirati fuori, e deposti nelle fosse appena scavate, una preghiera, un versetto del corano per ognuno di loro, qualche centimetro di terra e poi via, sopra un altro. Un rito interminabile sotto un sole cocente, i cadaveri non finivano mai. Infermieri, con camice e mascherina per proteggersi dal fetore, trasformati in becchini. Mentre le autoambulanze continuavano a partire a sirene spiegate, per recuperare altri feriti, altre vittime. A al Mansour gli scontri non sono ancora terminati, e nemmeno in altre parti della città, come ad al-Kadhimiya. Andiamo a cercare Majid, un traduttore che non vediamo da qualche giorno, non si è fatto più fatto vivo all'hotel Palestine, come molti altri del resto. Per poter arrivare oltre il fiume tentiamo di attraversare diversi ponti, tutti chiusi, alla fine ci riusciamo. Majid è asserragliato in casa da giorni, esce ad aprirci diffidente con una pistola nella cintola, vicino a casa sua i combattimenti sono stati pesanti. Racconta di aver visto gli americani sparare dal minareto della moschea poco lontana, e, tre giorni fa, di aver visto centrare un'autoambulanza che stava trasportando all'ospedale una donna con le doglie, che ha avuto il corpo spezzato in due. Un medico dell'ospedale Yarmuk è poi andato dagli americani a chiedere di poter almeno seppellire i morti. «Purché faccia in fretta», era stata la risposta.

Non c'è tempo per la pietà. A Baghdad è il tempo della vendetta, favorita dal vuoto politico. Un regime è crollato e l'ordine dell'occupante non è stato ancora instaurato. Gli americani troppo impegnati nel proteggere se stessi non si preoccupano certamente dei saccheggi e delle distruzioni. Le strade sono disseminate di fogli svolazzanti provenienti dai ministeri prima bombardati - gli intenditori dicono che si tratta di bombe all'uranio impoverito - e poi saccheggiati. Come si farà a ricostruire una parvenza di amministrazione? Gli americani per ora si preoccupano solo di occupare la città: dal sud, sulla strada proveniente da Kerbala, ieri mattina abbiamo visto arrivare una colonna interminabile di carri armati e mezzi militari di diverso genere. Ma non è facile occupare una città di circa 5 milioni di abitanti e con un diametro di circa cinquanta chilometri. Si vogliono regolare i conti con il passato regime, ma tutti i responsabili sono spartiti come d'incanto, e allora ci si accanisce contro quel che resta. I familiari degli scomparsi hanno preso d'assalto il palazzo che ospitava i servizi segreti, per cercare se vi fossero detenuti i loro parenti, inutilmente.


Nell'anarchia più totale i saccheggi e le distruzioni colpiscono anche i luoghi più prestigiosi della capitale, come il museo archeologico, straordinaria testimonianza delle antiche civiltà della Mesopotamia. L'Iraq museum era stato chiuso proprio in vista della guerra e, secondo quanto ci era stato detto da uno dei responsabili, le opere, come quelle di altri musei, erano state messe in salvo, anche se probabilmente non per tutte è stato possibile. Speriamo sia vero e che i vandali abbiano trovato solo opere di minor valore. Queste distruzioni danno comunque il segno dell'imbarbarimento provocato dalla guerra. E c'è chi osa parlare di liberazione.

In mattinata il ministero del commercio è stato dato alle fiamme, in quello del petrolio era ancora in corso il saccheggio, le strade sono percorse quasi esclusivamente da camion, pick up, vecchie macchine e carretti stracarichi di masserizie. Ieri abbiamo assistito al saccheggio del Shopping center di al Mansour. Probabilmente colpito da un colpo di cannone, perché aveva un'ala che stava crollando e un incendio in corso, la gente si fiondava nella nube di fumo per raccattare il raccattabile. E usciva di corsa con la refurtiva pigiata all'inverosimile dentro qualsiasi mezzo a disposizione. Sulla porta alcuni uomini con il fucile, poco rassicuranti. Ma dopo i ministeri, le ville della nomenklatura, i grandi magazzini, le sedi dell'Onu, gli ospedali, è cominciato l'assalto alle case, prima dei funzionari del regime, e poi a quelle più benestanti, e non solo. Tanto che gli abitanti di alcuni quartieri hanno iniziato a organizzarsi per difendersi. Sul Lungotigri ci siamo imbattuti in gruppi di uomini armati che minacciavano un taxista perché ritenuto un aspirante saccheggiatore. Ne siamo sfuggiti velocemente: in questo clima di tensione ed eccitazione può sempre partire un colpo, più o meno volutamente. Per poi rischiare di incappare in un gruppo di mujahidin - provenienti da diversi paesi arabi - allo sbando, appostati sulla piazza di al Mansour da dove si dirama la strada che porta verso la Giordania. Poco più in là un nuovo tafferuglio: urla, spari, rissa per accaparrarsi della benzina contenuta in un'autocisterna. Non ci sono nemmeno più code ai distributori, il carburante è finito. Lunghe code continuano invece la mattina davanti ai forni del pane, uno dei pochi alimenti ancora disponibili, e il cui prezzo non resterà calmierato a lungo.


Tutti i negozi comunque restano ancora chiusi. La gente continua a rimanere in casa, anche ieri, giorno della preghiera. Persino le moschee erano meno frequentate del solito, in alcune per la presenza dei carri armati, come quella che si trova sulla piazza Firdaus, in altre perché la popolazione è ancora incerta sul da farsi. Il venerdì è particolarmente sentito a Saddam city, il quartiere più fatiscente e più esplosivo della capitale. E la tensione è in aumento anche per quando sta succedendo a Najaf - l'assassinio degli imam, tra cui uno dei figli del famoso ayatollah Khoi -, dove i fedeli del quartiere sciita si recano spesso in pellegrinaggio al santuario di Ali, loro capostipite. Ma a surriscaldare il clima hanno contribuito anche i rastrellamenti degli americani, e pensare che proprio qui avevamo sentito alcuni ragazzi inneggiare a Bush mentre saccheggiavano la sede della polizia con il kalashnikov in spalla. A Baghdad molti sono armati, chi non possiede ancora un'arma la può trovare in qualche deposito abbandonato oppure al mercato, con pochi soldi, un kalashnikov si recupera con cinque dollari. Le truppe americane non saranno contrastate finché non impediranno il caos e l'anarchia, ma appena cercheranno di intervenire per portare il loro ordine troveranno pane per i loro denti. Il primo kamikaze di Baghdad si è fatto saltare in aria davanti a un carro armato proprio qui, a Saddam city, giovedì sera. Gli sciiti che dovevano essere gli alleati delle truppe anglo-britanniche - sciita è anche lo screditato ex-banchiere Ahmed Chalabi, uno degli aspiranti alla successione di Saddam - rischiano di diventare la spina nel fianco di Bush. Anche se molto dipenderà dal ruolo che vorrà giocare l'Iran nella crisi irachena. Non solo quella di Saddam city, tutte le moschee rischiano di diventare un referente per l'organizzazione dell'opposizione alla presenza anglo-americana. Ieri, dalla moschea al-Nidha di al-Adhamiya, crivellata giovedì da proiettili perché secondo gli americani vi si sarebbe trovato nascosto Saddam Hussein, l'imam ha lanciato un appello alla resistenza contro l'occupazione americana. Nella moschea avrebbero trovato riparo gruppi di mujahidin e, forse non a caso, è uno dei quartieri dove le truppe americane sono state ingaggiate in pesanti scontri nei giorni scorsi. I bombardamenti sono finiti, per ora, ma il futuro di Baghdad è più incerto che mai. E la popolazione lo sa. " [MAN]

"Assalto al palazzo dei servizi
Folla di iracheni alla ricerca dei parenti inghiottiti dalla repressione di Saddam
S. D. B.
Nell'atmosfera di totale anarchia che si è ormai impadronita di Baghdad, una folla di civili iracheni ha cinto d'assedio ieri mattina il palazzo dei servizi segreti di Saddam, vicino alla moschea sciita dei Kadhimiya, nell'omonimo quartiere nord-occidentale della capitale. Erano centinaia, riunitisi spontaneamente - a quanto racconta l'agenzia Reuters - mossi tutti dalla speranza di ritrovare i propri cari scomparsi da anni nei corridoi oscuri della repressione del regime. Dopo un primo momento di trepida esitazione, la foga si è impadronita della folla, che ha fatto irruzione all'interno dell'edificio. Sono seguite urla, strattoni, alcune esplosioni. Il panico ha allora preso il sopravvento: alcuni assicuravano di aver sentito le grida di prigionieri provenire dal sottosuolo e implorare per un po' di cibo dopo giorni di totale abbandono. Altri hanno cominciato a scavare con le mani nel pavimento alla ricerca di resti dei loro parenti. Un uomo ha gridato disperato che voleva trovare i suoi fratelli, arrestati vent'anni fa e da allora scomparsi. Nel momento in cui la tensione cresceva e si diffondeva il caos qualcuno ha gridato: «ma dove diavolo sono gli americani?». E gli americani alla fine sono arrivati: alcuni marines, richiamati lì dal rumore e dalle sollecitazioni di alcuni degli intervenuti sono entrati nell'edificio, si sono spinti nei meandri più bui, sono penetrati nei piani bassi - dove era situato il carcere o le temute camere di tortura - ma sono usciti a mani vuote: non hanno trovato altro che celle disadorne. E' a quel punto che la disperazione e la speranza (per quanto vana essa fosse) hanno lasciato spazio allo scoramento. «Devono essere tutti morti, che il Signore abbia pietà delle loro anime», ha gridato sconsolata in un urlo quasi liberatorio una donna anziana che cercava suo fratello fin dal 1980.

Secondo quanto riferito dai soldati statunitensi, il luogo doveva essere utilizzato come centro per un interrogatorio preliminare per i prigionieri, prima che essi venissero trasferiti altrove. Impossibile stabilire con certezza da quanto tempo il palazzo non veniva utilizzato per la repressione degli oppositori; sicuramente il luogo era dei più oscuri del regime, in cui tutti i parenti degli scomparsi pensavano venissero rinchiusi i loro cari.

L'irruzione nel palazzo dei servizi segreti e la scoperta delle attrezzature per interrogatorio e torture fanno seguito agli analoghi ritrovamenti di martedì scorso a Bassora. Subito dopo la conquista definitiva della grande città sciita del sud, le truppe britanniche sono infatti penetrate in un grande edificio denominato dalla popolazione locale il «Leone bianco», perché la gente che vi entrava veniva inghiottita per sempre. Le scene raccontate dalle truppe britanniche erano raccapriccianti: dall'odore di sangue rappreso ai materiali più rudimentali per infliggere scariche elettriche, ai ganci da macellaio appesi alla pareti, fino a un gigantesco archivio in cui venivano schedati tutti i prigionieri passati di lì e i tipi di tortura che venivano inflitti loro. Il «Leone bianco» aveva una sezione maschile e una femminile e appariva organizzato in modo meticoloso. L'edificio di Baghdad in cui si è raccolta ieri la folla disperata aveva un aspetto meno brutale, ma una fama altrettanto sinistra." [MAN]

"Nord Iraq nel caos
Kirkuk in mano ai peshmerga, saccheggi anche a Mosul. Arrivati gli «osservatori» turchi Allarme turco Ad Ankara cresce la paura per la nascita di uno stato kurdo. I generali americani ammettono che nelle città del nord Iraq «la situazione è fuori controllo». L'unica cosa presidiata sono i pozzi petroliferi
ORSOLA CASAGRANDE
Kirkuk e Mosul sono in mano ai peshmerga kurdi e nonostante le rassicurazioni degli Stati uniti alla Turchia, ieri ancora nessuno dei guerriglieri aveva lasciato le due città nordirachene. Che, come già accade a Baghdad e Bassora, sono in preda a saccheggi e sparatorie. Impossibile stabilire quanti siano i morti, ma ieri da Kirkuk sono continuate a giungere notizie di sparatorie: vendette, rese dei conti tra clan, ma anche la «difesa» dei commercianti contro chi intendeva saccheggiare i negozi oltre ai luoghi-simbolo del potere di Saddam Hussein. La comunità turcomanna (e la notizia va presa con le pinze) ha ieri denunciato in un comunicato l'assassinio di almeno dodici persone. Lo stesso governatore (kurdo) della città però ha ammesso che «regna il caos» e che «nessuno controlla la situazione». Quanto poi alle truppe americane che sarebbero dovute arrivare (paracadutate) già giovedì notte, i corrispondenti delle televisioni internazionale al seguito dei peshmerga hanno ripetuto di non averne visto nemmeno l'ombra. Ogni tanto si vede un carroarmato statunitense per le strade di Kirkuk, ma nulla più. Del resto gli americani avevano dovuto abbandonare l'idea di dislocare nel nord Iraq le truppe che pensavano di poter far stazionare in Turchia (62mila di cui almeno la metà destinate proprio al nord Iraq) dopo il rifiuto del parlamento di Ankara di concedere l'utilizzo delle basi agli Stati uniti. Così nella zona liberata del Kurdistan iracheno c'erano soprattutto squadre (limitate nel numero) di forze speciali. La Turchia intanto ha inviato a Kirkuk quattordici osservatori militari che monitoreranno da vicino la situazione. Le truppe di Ankara sono ammassate al confine con l'Iraq pronte ad intervenire quando l'ordine dovesse arrivare. Perchè è chiaro che i turchi si fidano poco delle rassicurazioni americane sul passaggio di consegne da peshemerga a truppe della coalizione. Il fatto poi che ieri non si siano visti arrivare gli attesi soldati americani ha contribuito ad aumentare la tensione. La Turchia scalpita, anche perchè i peshmerga (si parla di ventimila guerriglieri presenti in città) che pure avevano assicurato che si sarebbero ritirati da Kirkuk, ieri hanno cominciato a modificare le loro dichiarazioni: il leader del Puk aveva detto che i suoi uomini avrebbero lasciato Kirkuk già ieri, ma i leader guerriglieri sul campo hanno cominciato a dire che se ne andranno solo quando «arriverà un numero sufficiente di soldati americani» a sostituirli e hanno aggiunto che comunque «molti peshmerga sono di Kirkuk e quindi di certo non lasceranno la loro città ora che sono riusciti a tornarvi». Insomma la situazione è più fluida che mai e rischia di precipitare se gli Stati uniti non «convinceranno» i kurdi ad andarsene il prima possibile. Una richiesta che già alcuni kurdi iracheni (soprattutto dall'esilio) giudicano «inaccettabile». L'accusa agli Stati uniti è soprattutto una: nelle trattative per l'Iraq post Saddam Hussein tra le opposizioni irachene, i kurdi avevano strappato (nella costituzione proposta) la promessa di poter coronare il loro sogno: Kirkuk sarebbe diventata la loro capitale. Impossibile, ribatte la Turchia e adesso i kurdi iracheni della diaspora accusano gli Usa di «tradimento» e di essere pronti a «cedere ancora una volta alle pressioni della Turchia».

Mentre a Kirkuk continuavano i saccheggi, cadeva anche Mosul. In mano alle forze americane, si affrettavano a dire i generali Usa evidentemente preoccupati per le possibili reazioni turche. In realtà, nonostante le assicurazioni dei peshmerga di Masud Barzani («ce ne staremo fuori dalla città»), a Mosul sono entrati anche i guerriglieri kurdi. Anche qui come a Kirkuk le scene dei saccheggi hanno fatto il giro del mondo: la folla ha assaltato prima di tutto le banche, quindi alberghi e anche la sede del catasto dove ha distrutto, a quanto pare, i certificati di proprietà immobiliare. Un atto che avrà ripercussioni quando le acque si calmeranno, visto che i certificati di proprietà sarebbero dovuti servire a dividere la popolazione su base etnica. Assaltati anche i locali dell'ospedale cittadino, mentre alcuni edifici pubblici sono stati dati alle fiamme." [MAN]

"Il Vaticano: riformiamo l'Onu
La Santa sede: ridare alle Nazioni unite quel «ruolo centrale» che avevano prima della guerra in Iraq. L'esortazione giunge nel quarantesimo anniversario dell'enciclica Pacem in terris" [MAN]

"La spartizione delle spoglie
Appalti miliardari per gli amici di Bush e Co. I democratici chiedono indagini
ANGELA PASCUCCI
Un contratto da sette miliardi di dollari in due anni per spegnere gli incendi dei pozzi petroliferi in Iraq, con un margine di profitto assicurato del 7%. Questa l'entità della commessa che il Pentagono ha assegnato, senza neppure passare per uno straccio di gara, alla Kellogg Brown & Root, sussidiaria della Halliburton (la società che ha avuto alla sua testa dal 1995 al 2000 Dick Cheney, attuale vice presidente Usa). L'informazione è arrivata ieri dal Corpo dei genieri dell'esercito sotto forma di lettera al deputato della Camera dei rappresentanti, il democratico della California Henry Waxman che l'8 aprile scorso, insieme ad un altro collega, John Dingell, del Michigan, aveva rivolto un'interrogazione al General Accounting Office, il braccio investigativo del Congresso, perché appunto investigasse sulle modalità con cui l'amministrazione ha assegnato ricchi contratti per la ricostruzione dell'Iraq. In particolare, nero su bianco, i due chiedevano lumi proprio sulla sussidiaria perché «i legami tra il vice presidente e la Halliburton» potrebbero far pensare «che abbia ricevuto un trattamento di favore dell'amministrazione». Nella lettera il comandante dei Genieri spiega che la società è stata scelta perché considerata l'unica in grado di fornire garanzie di intervento rapido ed efficace nelle condizioni di guerra date. La risposta non scioglie il quesito dei deputati, e tuttavia dà intera la dimensione delle spoglie di guerra che gli «amici» si stanno spartendo con la ricostruzione dell'Iraq, dopo essersi spartite quelle della distruzione. Un bottino da 100 miliardi di dollari che suscita avide brame e sospetti feroci anche all'interno degli Usa, come dimostra il risveglio dei democratici, che sulla questione hanno riscoperto una verve da opposizione che latitava da tempo.

Ma, ben al di là della guerra all'Iraq, è dall'11 settembre che la Kellogg Brown & Root fa affari consistenti. E' lei che ha costruito le gabbie di Guantanamo, e si è anche aggiudicato l'appalto esclusivo per la fornitura logistica alla marina e all'esercito: cioè cucina, costruzioni, generazione di elettricità, trasporto di carburante etc.

Un altro amico dell'amministrazione è il gruppo Bechtel, il maggiore appaltatore del paese e uno dei finalisti prescelti nella corsa all'Iraq. Il gruppo annovera tra i suoi dirigenti l'ex segretario di stato George Shultz, oggi anche presidente del gruppo dei consiglieri al Committee for the Liberation of Iraq, gruppo «ferocemente pro guerra dagli stretti legami con la Casa bianca», come ha scritto il 10 aprile il New York Times. Gruppo che si è detto anche fortemente impegnato , oltre alla «liberazione dell'Iraq» anche alla «ricostruzione della sua economia». Ben oltre lo scardinamento del regime, conterà dunque il rifacimento di un intero sistema economico a immagine e somiglianza dei «liberatori».


Le armate pronte all'azione non mancano. Secondo un rapporto speciale del Center for Public Integrity, un gruppo di osservazione del mondo politico che ha base a Washington (http://www.publicintegrity.org) dei 30 membri del Defense Policy Board, il gruppo di consiglieri del Pentagono, nove hanno legami con compagnie che tra il 2001 e il 2002 hanno firmato con il dipartimento della difesa contratti per 76 miliardi di dollari. Tra i nove c'è Richard Perle, costretto il 27 marzo scorso alle dimissioni dalla carica di presidente del Board per patente conflitto di interessi. Prendeva soldi dal gruppo Global Crossing per convincere il Pentagono a prendere decisioni in favore del gruppo medesimo. Tuttavia Perle resta nel gruppo dei consiglieri, costituito nell'85 per fornire al capo del Pentagono «consigli e opinioni indipendenti e competenti». I membri attuali sono stati tutti scelti da Douglas Feith, vice di Rumsfeld e appartenente al gruppo dei neo conservatori super falchi. Gli altri otto consiglieri segnalati da Public Integrity, hanno tutti forti legami con l'industria delle armi: Boeing, Northrop Grumman, Lockheed Martin, Booz Allen Hamilton. Come ad esempio l'ammiraglio David Jeremiah, 38 anni di gloriosa carriera nella marina, direttore o consigliere di amministrazione in almeno 5 corporations che nel 2002 hanno avuto dal Pentagono più di 10 miliardi di dollari di contratti. O come James Woolsey, ex capo della Cia, meglio noto oggi come il teorico della IV guerra mondiale, ma anche pezzo grosso del Paladin Capital Group, società che cerca capitali di investimento per imprese legate alla sicurezza interna degli Stati uniti. " [MAN]


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