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[Cronologie di guerra] 12.04.03 ventiquattresimo giorno
by blicero Wednesday April 16, 2003 at 01:13 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 12.04.03 ventiquattresimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.



12 aprile 2003 : ventiquattresimo giorno
[fonti : quotidiani del 13 aprile 2003]


"Non è finita
Centinaia di migliaia di persone in marcia a Roma, Londra, Washington, Berlino E' la prima mobilitazione del «dopoguerra»
Mentre in Iraq continuano saccheggi e uccisioni Battaglia a Baghdad, depredati musei e ospedali Bush: «E' l'euforia della liberazione» Gli Usa riscoprono la polizia irachena, Berlusconi prepara i carabinieri Si arrende un generale fedelissimo di Saddam" [MAN]

"CONTRORDINE
Bambini di guerra
ALESSANDRO ROBECCHI
E così tornano di moda i bambini. Vinta (ma non finita) la guerra, si cercano alla rinfusa tra le macerie le sue ragioni, compiuto il massacro, urge ribadire che era giusto farlo. E a questo servono, per l'appunto, i bambini. Piccoli bimbi iracheni sballottati dalla Storia, prima affamati dal regime, poi ammazzati dall'embargo, poi bombardati dai liberatori, resi orfani o cadaveri, ora aiutati da Il Giornale con apposita sottoscrizione, sparati in copertina dal Foglio. E' un cinismo senza limiti, forse al di là dell'umano: mostrare i bambini spauriti e feriti dell'Iraq sotto le bombe, parlarne, provare infinita tristezza era - fino a qualche giorno fa - segno di debolezza, malafede, intelligenza col nemico, pacifismo cacasotto e calabraghe. Troppo facile mostrare i bambini che soffrono per contestare una guerra, mezzuccio mediatico di bassa lega, roba da comunisti. Così che, specie ai cattolici belligeranti (quelli con Dio dalla loro parte, mica da quella del papa) saltava il tappo spesso e volentieri: dovendo scegliere tra lo schieramento pro-Bush e la propria coscienza non avevano dubbi, data la latitanza delle coscienze. E davano di matto contro la volgare propaganda pacifista. Ora, a missione compiuta, i bambini vengono buoni. Sorridono tutti (forse perché non hanno più il rombo dei bombardieri sulla testa), tranne quelli fucilati ai check-point, che però di colpo non sono bambini, ma «errori». Il passaggio da bimbo ad errore è velocissimo: il tempo di una pistolettata
Naturalmente parlare genericamente di «bambini» è troppo semplice: i feldmarescialli dell'informazione a guida laser hanno buon gioco a prendersela con le «anime belle» che si commuovono facile. E poi si sa, perché una campagna mediatica funzioni serve un caso singolo ed emblematico, un volto, un nome, una storia che diventi paradigma delle storie.

Ed eccolo, trovato. Ali Ismail Abbas ha perso in un bombardamento due braccia e tutta la famiglia. Dopo aver volteggiato a lungo in cerchio nel cielo di Bagdad Il Giornale scende a terra con un battito d'ali e apre una sottoscrizione per il piccolo Ali. Date, date, date. Se va bene, Ali avrà un futuro (forse in Inghilterra) dove gli attaccheranno due braccia nuove (di plastica) e condurrà un giorno la sua vita da simbolo: bombardato, liberato, ricucito. Non dice, Il Giornale, se la bomba che ha centrato Ali e la sua vita era di quelle all'uranio impoverito. Nel qual caso, dopo quell'aerosol di isotopi, il simbolo sarebbe a scadenza, perché non c'è ancora un modo rimediare al cancro e alla leucemia, nemmeno con la sottoscrizione.

Non è la prima volta e non sarà l'ultima: i generali argentini che buttavano i genitori dissidenti in mare dall'elicottero, che li torturavano e li facevano sparire, usavano adottarne i figli. Cambia qualche dettaglio, ma il metodo è quello: inserire nel bagaglio bellico degli aggressori qualcosa che all'opinione pubblica e alle telecamere possa sembrare pietà. Ali avrà due braccia di plastica: che volete di più. Ma la sua foto compare piccolina, quasi un francobollo, ben meno «sparata» delle immagini dei bambini di Bagdad un po' più fortunati. Perché anche il cinismo ha la sua falsa coscienza e il freno a mano tirato: va bene l'atto di generosità di aiutare chi abbiamo fatto a pezzi cinque minuti prima, ma che non si veda troppo, che non si colgano bene i dettagli, gli occhi, la bocca, i moncherini sopra i gomiti.

Per metafora, ma non tanto, ad Ali Ismail Abbas è stato fatto ciò che è stato fatto al suo Paese. Prima affamato, poi privato delle medicine con l'embargo, poi devastato dalle bombe e dal fuoco, e infine riimmesso sulla retta via dai liberatori.

Gli aggressori sono al lavoro - contratti alla mano - per ridare due braccia all'Iraq, pompargli via il petrolio, cacciare via il cattivo e vendergli una democrazia (di plastica), attaccata come una protesi. Forse, per celebrare la vittoria del Bene contro il Male, Ali meriterebbe una statua in bronzo, un busto celebrativo, un monumento, magari al posto del grottesco statuone di Saddan tirato giù in mondovisione. Un monumento al bambino senza braccia e senza famiglia, a futura memoria della generosità di chi gliele ha strappate. (alessandro robecchi)" [MAN]

"Si combatte a Baghdad
Non c'è pace nella capitale irachena. Durante la notte è stata bombardata una moschea, mentre ieri i feddayan hanno ingaggiato una sparatoria contro le truppe americane. Si combatte ovunque, e in città regna il terrore
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
Bsh Down» (abbasso Bush) dicono avvicinandosi a noi alcune donne velate in lacrime. Ci troviamo davanti alla moschea sunnita Abu Hanifa, nel cuore del vecchio quartiere Safina di Baghdad, che è stata bombardata nella notte tra venerdì e sabato. Uno squarcio ha rovinato il bel minareto, un altro missile ha colpito anche all'interno, vicino alla tomba di Abu Hanifa, dalla parte della moschea dove pregano le donne. E' stata bombardata anche una preziosa biblioteca ospitata in un antico edificio dalla parte opposta della piazza. Così come numerose abitazioni qui intorno, tutte pesantemente danneggiate, ma per fortuna non ci sono stati morti, solo feriti. Il bombardamento è iniziato alla cinque del mattino ed è durato tre ore, raccontano. Nella via accanto, invece, la casa di Mohammed Nouri è stata attaccata con un elicottero che è sceso basso a bombardare dopo poco l'una di notte. Un'ala della casa è completamente distrutta, per fortuna tutta la sua famiglia, 22 persone, dormivano dalla parte opposta. Nei giorni scorsi si diceva che nella moschea si nascondessero dei mujaheddin (combattenti provenienti da diversi paesi arabi: Siria, Libano, Yemen, Egitto ecc.) che avrebbero alimentato resistenza anche nel vicino quartiere al-Adhamiya. La gente che ci circonda al nostro arrivo assicura che non c'era nessun mujahidin nascosto nella moschea ieri sera. La tensione sale. «Così Bush è venuto a liberarci?», ci dicono minacciosi gli uomini che stazionano davanti alla moschea, armati. Cerchiamo di spiegare che noi siamo contro Bush e contro la guerra. Non basta nemmeno la presenza di un amico algerino, arabo e musulmano (non confessa che è ateo), a calmarli: «Anche gli arabi ci hanno tradito, sono tutti amici dei suddisti, complici della distruzione dell'Iraq», urlano minacciosi. «Siamo stretti tra Saddam e Bush, se parlano di liberazione dovrebbero salvare i civili, invece è un nuovo colonialismo quello che si sta instaurando, tra poco cominceremo a rimpiangere Saddam», dice con rabbia Mohammed.

L'esternazione di tanta rabbia viene bruscamente interrotta dall'arrivo di una jeep da cui scendono infermieri del vicino ospedale Noman con camice e kalashnikov, trascinano un uomo con le mani legate dietro la schiena, è stato catturato mentre era intento a saccheggiare l'ospedale. La folla inferocita è pronta al linciaggio: lo assale, lo pesta, con pugni e bastoni, calci. Diventa sempre più violenta quando arrivano altri ali baba (come chiamano i ladri), trascinati per terra, mentre vengono pestati a sangue, prima di essere buttati dentro la moschea. Forse entreranno in funzione le corti islamiche in mancanza di governo, giustizia, polizia e sicurezza. Una deriva già conosciuta da altri paesi.

La situazione si fa sempre più pesante, meglio allontanarsi. Del resto si combatte in tutta la città. I feddayn sono infatti tornati in azione ingaggiando due sparatorie con le truppe americane, due brevi battaglie finite con l'uccisione dei miliziani e la conquista da parte degli americani di due postazioni ancora in mano ai fedelissimi del regime.

Cerchiamo di raggiungere il museo. Non è facile. Dovunque carcasse di macchine bruciate, altre sono crivellate di colpi abbandonate ai lati della strada, quando non in mezzo. La strada che avevamo percorso solo il giorno prima è bloccata: sono in corso tafferugli, ci fanno segno di tornare indietro. Riusciamo ad avvicinarsi al quartiere al Mansour, dove la situazione è sempre particolarmente esplosiva, passando accanto al Shopping Center saccheggiato venerdì. Allora c'era solo fumo che usciva da un'ala dell'edificio, ora è quasi completamente crollato. Solo frutto del fuoco? Sembra sia stato bombardato.

Giriamo per oltre un'ora intorno al quartiere, nella zona di Zoura sono in corso scontri, ci fanno deviare da una via all'altra, tornare al punto di partenza, mentre tutto intorno si spara. I marine scorrazzano per la città, ma non riescono ad eliminare tutte le sacche di resistenza. Ieri pomeriggio, due carri armati che sostano accanto al nostro albergo sono scesi sulla riva del fiume per bersagliare di cannonate una costruzione a due piani sull'altra riva del Tigri, dove si sarebbe nascosto un gruppo di mujaheddin. Loro da lì non riescono a raggiungere questa riva con le armi che hanno a disposizione tanto meno ad infastidire gli elefantiaci Abrahms. Pare comunque che i mujaheddin siano riusciti a fuggire dal retro della palazzina.

Gli scontri che bloccano varie vie della città cominciano a provocare code, ieri le macchine hanno ripreso a circolare come al solito, si vedono anche più persone per strada, ma i negozi continuano a rimanere chiusi. E' ricomparsa solo qualche bancarella di frutta e verdura, mentre continuano le code per il pane.

L'hotel Palestine, sede dei marine a Baghdad, continua ad essere il luogo più protetto e al centro dell'attenzione della città. Qui si sono arresi al comandante delle forze americane Mcoy quattro alti ufficiali dell'esercito, presentatesi in divisa per proporsi di collaborare con le truppe di invasione per formare la nuova polizia militare. Ma la resa più clamorosa è senza dubbio quella del generale Amir al-Saadi, consigliere di Saddam quale controparte degli ispettori Onu per l'Iraq, e tra i 55 super ricercati dalle truppe Usa.


Al Palestine sono intanto approdati anche gli 80 «volontari» Freedom Iraqi Fighters (Fif), mercenari iracheni arruolati dai marine addestrati in Ungheria. Il più noto tra loro si chiama Hashen Oldery, ma «chiamami Larry», mi dice, in perfetto stile americano. 50 anni, occhiali da sole, vivace, è curdo, nato a Arbil, dice di aver fatto il giornalista e di non aver mai militato in un partito, ma di essere finito in testa alla lista nera di Saddam perché si batteva per la libertà. Così nel 1996, dopo l'intervento dell'esercito iracheno nel Kurdistan in difesa del partito democratico del Kurdistan di Massud Barzani contro la rivale Unione patriottica nel Kurdistan di Jalal Talabani, aveva deciso di lasciare l'Iraq per trasferirsi con la famiglia negli Stati uniti. E' rientrato in Iraq con i marine. Perché è tornato? «Sono tornato come volontario per servire il mio popolo, sto lavorando con gli americani per ripristinare l'elettricità, la distribuzione dell'acqua, garantire la sicurezza». Ma chi è stato a bloccare il funzionamento delle centrali elettriche? «Saddam che ha sabotato i generatori, interrompendo la fornitura di carburante per farli funzionare», la risposta è per lo meno ingenua. E cosa ne pensa dei saccheggi che stanno distruggendo i ministeri, gli ospedali, musei.... «piango dentro di me, ma questo sta succedendo solo a Baghdad, perché sono gli uomini di Saddam a compiere atti di vandalismo». E le donne che aiutano a svuotare i magazzini? «Saranno le mogli degli uomini di Saddam».

Hashen è circondato da irakeni che vengono a chiedere lavoro ai marine, lui fa il mediatore con gli americani, anche per problemi di lingua, e assicura che presto sarà ricostituita anche la polizia irachena. L'alleanza anglo americana ha lanciato un messaggio attraverso la radio per invitare gli ingegneri, poliziotti, specialisti vari a rivolgersi al comando dei marine che necessita di mano d'opera per riparare i danni dei bombardamenti e ricostituire un apparato nello stato liquidato. E la sicurezza al primo posto. Ma per ora i marine si preoccupano solo di proteggere se stessi. Fin dalla prima mattina di fronte all'Hotel Palestine si sono formate lunghe code di iracheni in cerca di lavoro. Entrata ovviamente preferenziale per un dirigente dell'ex ministero della sanità che chiedeva protezione per gli ospedali. Ma è solo uno dei tanti a mettersi al servizio dell'esercito di Bush. " [MAN]

"Testimonianza: «Ho visto i marine uccidere i civili iracheni»
«Ho visto i marines americani uccidere a sangue freddo civili iracheni, donne, vecchi, bambini ... sono una truppa agguerrita che agisce in nome dello slogan `Search and kill', cerca e uccidi». E' la terribile testimonianza, raccolta da Le Monde, del fotografo belga Laurent Van der Stockt (agenzia Gamma), al seguito dei 1.500 marines al comando del colonnello Bryan P. McCoy - che comanda i marine a Baghdad - per conto del New York Times Magazine. Il fotografo racconta che, nell'avanzata dal Kuwait verso Baghdad, l'esercito iracheno «è stato praticamente inesistente, un fantasma». «Il 6 aprile siamo alla periferia di Baghdad - racconta - i tiratori americani hanno ricevuto l'ordine di sparare su tutto quello che avanza verso di loro: quella notte, un adolescente che attraversa il Baghdad Highway Bridge è abbattuto. Il mattino dopo i marines decidono di passare il ponte ma un colpo di mortaio cade su un veicolo blindato e due marines vengono uccisi. Il percorso assume un andamento da tragedia, i soldati sono stressati, urlano...,».

Poi, è la volta di «una camionetta che non si ferma agli spari di intimidazione: i marines sparano da tutte le parti, qualcuno grida `stop the fire!». Segue un silenzio sconvolgente: due uomini e una donna, dei civili, sono stati crivellati di colpi. Poco dopo, la scena si ripete con un'altra macchina, i passeggeri sono eliminati. Arriva un vecchio con il bastone, cammina lento, sul marciapiede: anche lui ucciso dai marines. Si salvano per miracolo due donne e un bimbo nonostante la raffica contro la loro auto: ma si rifugiano in una casupola, falciata da una mitragliata di tank».

E prosegue: «I marines sono condizionati dall'imposizione dell'obiettivo a tutti i costi...Sui loro carri sono dipinte le parole `Carnivore', o `Blind killer', killer cieco. Ho visto in diretta una quindicina di civili uccisi in due giorni. Ho coperto guerre a sufficienza per sapere che la guerra è sempre sporca, che i civili sono le prime vittime. Ma così, è assurdo», dice Van der Stockt: «Parecchi marines sono disorientati, protestano di non essere andati in Iraq per uccidere civili». «Ho trasportato in macchina un padre con due bambini feriti», conclude il fotografo: «Ci ha detto `non capisco, camminavo con i miei figli per mano ... Perché non avete sparato in aria? Perché avete sparato a me?»." [MAN]

"Tra le rovine e i «cocci» del museo
Gli archeologi in lacrime accusano: «I marines hanno permesso lo scempio»
GIU. SGR.
BAGHDAD
«Ma che me ne faccio di questa liberazione?», dice piangendo Nidal Amin, che per dieci anni ha diretto l'Iraq Museum, il museo archeologico iracheno dove erano esposti i reperti più preziosi delle civiltà della Mesopotamia. Il Museo non è stato risparmiato dall'orda dei saccheggi che stanno investendo in questi giorni Baghdad. Quattro giorno fa, alle 5 di mattina, degli scalmanati hanno fatto irruzione nell'enorme edificio e sono riusciti a penetrare nei magazzini dove erano state conservate le opere per proteggerle dalla guerra e dai bombardamenti. 170 mila pezzi sono stati distrutti o trafugati, sostiene Nidal Amin. Nei locali del museo tra cocci di vasi, frantumi di statue, pezzi di oggetti preziosi di quelli che costituivano le sale del tesoro, libri distrutti, carte svolazzanti, filmati srotolati, cassetti rovistati, troviamo, esterrefatto, anche il dottor Mohsen, archeologo. Non riesce a crederci, «ho passato tutta la mia vita a catalogare le opere: tutto distrutto, migliaia di anni di storia della Mesopotamia. Sono dei barbari». Si è distrutta una parte della memoria di un popolo e di un paese «per il Medioriente l'Iraq è come Roma per l'Occidente», mi dice uno studente algerino, che era venuto qui per laurearsi in archeologia, ma proprio mentre stava per discutere la tesi è scoppiata la guerra. Un dipendente del museo non vorrebbe nemmeno farci vedere questo «esempio di inciviltà» lo ritiene troppo umiliante per il suo popolo. Lo comprendiamo ma poi lo convinciamo a farci entrare: è importante anche denunciare quanto è successo. Il museo di Baghdad era infatti uno dei meglio organizzati, dove le opere erano tutte attentamente classificate: un registro di popoli e culture che fiorirono nella Mesopotamia dai tempi immemorabili. Il Museo offriva la possibiltà di ammirare reperti preistorici, dell'arte dei Sumeri, Babilonesi, Assiri, Caldei, Farti, Sassanidi e Abassidi, in un susseguirsi cronologico. Accanto all'esposizione vi era anche una preziosa biblioteca decisiva per gli studi sulla Mesopotamia. Tutto questo non c'è più, e l'archeologo ci mostra sconsolato un catalogo miracolosamente intatto tra i pezzi di carta, che poi ci regala. Quando, alla vigilia dei bombardamenti, ero andata al museo per vedere gli effetti della guerra passata e quelli probabili futuri su siti archeologici e opere d'arte, mi avevano assicurato che le opere erano state messe al sicuro. E speriamo che qualche opera importante non fosse rinchiusa in quelle stanze con doppia porta, tutte sfondate. Forse la costruzione avrebbe potuto perfino resistere alle bombe, se non fossero state quelle perforanti, ma gli archeologi non avevano fatto i conti con la violenza dei vandali. Quando sono arrivati, i guardiani sono corsi a chiamare i marines appostati sui carri armati poco lontano: hanno risposto che non hanno compiti di polizia e hanno permesso che lo scempio si compisse. Ora i dipendenti del museo temono nuove irruzioni e l'archeologo Mohsen ha chiesto il nostro aiuto. Lo abbiamo accompagnato al comando dei marines per perorare la sua causa: i marines devono proteggere il museo, tutti i musei. Anche l'Unesco ne chiede la tutela militare. Non abbiamo le forze, ma presto ci sarà la polizia irachena, e poi dobbiamo pensare anche agli ospedali, ci rispondono. Giustissimo, peccato che nel frattempo quasi tutti gli ospedali e il museo siano già stati saccheggiati e distrutti. «Perché proteggono solo il ministero del Petrolio?»." [MAN]

"L'assedio degli ospedali di Baghdad
Senza medicinali né elettricità, con i feriti che si accalcano. Gli americani non li difendono, medici e infermieri girano armati per evitare i saccheggi
VAURO
INVIATO A BAGHDAD
Nonostante il coprifuoco deciso dagli americani, per tutta la notte si sono continuati a sentire colpi di arma da fuoco e sventagliate di kalashinov, segnale inequivocabile che i saccheggi e i regolamenti di conti non sono terminati. Siamo alloggiati nei locali dell'ambasciata italiana di Baghdad con Gino Strada e lo staff di Emergency. La decisione di lasciar parcheggiati all'interno dell'ospedale di Kerbala i due camion di medicinali e materiale di consumo chirurgico e di raggiungere Baghdad per farsi prima un quadro il più possibile preciso della situazione nella città si è rilevata molto saggia. Anche Kerbala è, come tutte le altre città «liberate» irachene senza governo e abbandonata a se stessa. Ma Kerbala è una delle principali città sante dell'Iraq e le autorità religiose sono in qualche modo riuscite a costituire in loco una forma di amministrazione che ha finora evitato che si assistesse alle scene di saccheggio selvaggio e diffuso che stanno avvenendo a Baghdad. Con Gino Strada cominciamo un giro per visitare alcuni ospedali di Baghdad per capire dove sia più necessario e dove sia possibile installare il team chirurgico di Emergency. Lasciamo l'ambasciata diretti all'ospedale di Al Nu Man. A cinquanta metri dalla via di accesso all'ospedale veniamo fermati da un improvvisato posto di blocco. Sono ragazzi, alcuni con il camice azzurro da infermieri, armati di bastoni di legno, spranghe di ferro, altri hanno il kalashinov o la pistola in mano. Sono stati costretti ad auto-organizzarsi per difendere l'ospedale dal pericolo di saccheggio. Eppure a non molta distanza da lì un blindato sta presidiando l'ingresso di uno dei palazzi presidenziali di Saddam, evidentemente il comando americano ritiene più importante salvaguardare i palazzi del ex-regime che gli ospedali.


Il gruppo dei ragazzi di guardia all'ospedale è molto nervoso, parlano concitatamente tra loro poi, rassicurati dalle insegne di Emergency sui cofani delle nostre auto e dal fatto che siamo italiani - l'ospedale al-Nu Man è stato costruito da italiani - ci lasciano passare e ci scortano fino all'ingresso della struttura ospedaliera. L'ospedale di al-Nu Man, ci dice il direttore, è uno dei pochissimi che si è salvato dal saccheggio, una équipe di quattro chirurghi continua ad operare nell'ospedale e c'è ancora una scorta di medicinali che però va rapidamente esaurendosi. Il direttore ci indirizza verso il Kindi Hospital in un'altra area della città, completamente sprovvista di copertura sanitaria. Si ripete la scena degli infermieri e volontari che con spranghe ed armi difendono l'ospedale. Il Kindi Hospital è una struttura abbastanza vasta, all'ingresso e sulle finestre sacchetti di sabbia a protezione di chi è pronto allo scontro a fuoco per difenderlo. Nell'androne di ingresso su barelle giacciono dei feriti, alcune infermiere fanno quello che possono per soccorrerli. «Siamo potuti tornare all'ospedale soltanto ieri - ci dice sconfortato il dottor Alousi - ma non possiamo per adesso far funzionare l'ospedale. Non tutti i medici sono tornati, questa è una zona poco sicura». I colpi secchi delle armi da fuoco che si sentono a tratti riecheggiare nelle vicinanze ne sono la conferma. «Ci sono ancora le attrezzature chirurgiche - continua il dottor Alousi - ma non c'è elettricità, i generatori che abbiamo non li possiamo attivare perché manca il carburante. Prima ci veniva fornito dal Ministero del petrolio, ma ora non c'è più nessun ministero, non c'è ancora nemmeno il mercato nero come nell'altra guerra. Ci hanno ridotto a mangiare erba - il dottor Alousi è affranto - abbiamo perso il nostro ospedale» conclude scuotendo la testa. Gino Strada comincia a pianificare con lui la possibilità di intervenire nel Kindi Hospital per tentare di rimettere in funzione un reparto di chirurgia di urgenza. Si pensa di cercare di far arrivare il carburante dal nord del paese prelevandolo dalle scorte dell'ospedale di Emergency che si trova a Sulymanya. Gino e il dottor Alousi si rincontreranno il giorno successivo. «E' da pazzi - dice Strada - che un paese dove si cammina sul petrolio sia privato anche del carburante per far funzionare i generatori degli ospedali».

A qualche strada di distanza dal Kindi Hospital, nei pressi di un incrocio, staziona un carro armato americano con i motori accesi, basterebbe il gasolio che ha nei serbatoi per far funzionare per settimane il generatore per la sala chirurgica del Kindi Hospital. Un ospedale che funziona c'è, presidiato dagli americani, nei pressi dell'Hotel Palestine ma, non si sa perché, lì non si curano feriti di guerra, solo cardiochirurgia, ci spiegano. Uno dei marines di guardia vede che ho un telefono satellitare, mi si avvicina un po' imbarazzato togliendosi l'elmetto, un viso da ragazzino spunta dalla tenuta da guerriero, non avrà più di 20 anni. «Con quello - mi chiede - si può telefonare anche negli Stati uniti?» «Certo» gli rispondo «Sono tre mesi che non sento la voce di mia moglie». Quando gli porgo il telefono il suo volto si illumina, sorride felice come un bambino. Fa il numero senza il codice per gli Stati uniti, come se telefonasse da un quartiere all'altro della sua city, deluso dal non riuscire a fare la chiamata. Gli compongo io il prefisso per gli Usa perché lui non lo conosce e finalmente riesce a parlare, si rannicchia in un angolo della strada con la voce di sua moglie tra le mani. Quando mi restituisce il telefono sorride ma ha gli occhi pieni di lacrime che gli scendono sulle guance. La gente di Baghdad invece non ha più nemmeno le lacrime. " [MAN]

"Mosul-Bassora, morti e caos
A nord scontri a fuoco tra arabi e curdi, emergenza umanitaria a sud
MI. CO.
Come nella capitale Baghdad, anche nelle altre grandi città irachene «liberate» dagli eserciti americano e britannico non si fermano le violenze e i saccheggi, che si intrecciano a episodi di resistenza contro le truppe dei sedicenti «liberatori». La situazione è particolarmente tesa a Mosul - nel nord del paese - dove l'esercito iracheno si è arreso venerdì, lasciando entrare in città le milizie curde peshmerga e i militari Usa. Ieri a Mosul - un milione e mezzo di abitanti, in maggioranza arabi, con una forte minoranza curda - è entrato il primo gruppo consistente di militari americani, a bordo di una cinquantina tra mezzi corazzati e jeep. Secondo quanto riferito dai giornalisti dell'agenzia britannica Reuters, la situazione in città resta «anarchica e pericolosa», con frequenti scontri a fuoco tra arabi e curdi, nonostante la presenza delle truppe americane.

Dopo gli scontri e i saccheggi di venerdì, i soldati americani ieri hanno messo sù posti di blocco presso i principali incroci in città, alzando la bandiera americana in ognuno dei check point. Intensi combattimenti tra curdi e arabi, oltre che dalla Reuters, sono stati segnalati anche dalla televisione Arabiya di Abu Dabi, che ha parlato di una ventina di morti e duecento feriti soltanto nella giornata di ieri. Gli scontri più intensi si starebbero verificando nei quartieri di Faruk e Makawi, nel centro della città. Si tratta di zone a maggioranza araba, dove gruppi di uomini armati stanno tentando d'impedire l'ingresso in forze dei miliziani curdi, ritenuti responsabili di aver scatenato il saccheggi di venerdì

Fonti del locale ospedale al-Zaharawy hanno segnalato ieri un rapido aumento dei morti e dei feriti nel corso della mattinata, circostanza che confermerebbe l'intensità degli scontri a fuoco. A fare le spese della situazione anche due giornalisti turchi: Mesut Gengec e Kamal Batur, corrispondenti della tv turca Sky, sono stati feriti da un gruppo di uomini armati e ricoverati in un ospedale della vicina città curda di Arbil.

Anche a Bassora, la seconda città irachena, nel sud del paese, continuano le violenze e i saccheggi. Le forze britanniche, che ne occupano gran parte, non riescono o non vogliono mantenere l'ordine. Ieri i militari hanno annunciato una «svolta»: nell'arco di due giorni inizieranno a gestire l'ordine pubblico assieme a poliziotti iracheni. Anche se ieri il capitano Al Lockwood - portavoce delle truppe britanniche presso il comando militare anglo-americano in Qatar - ha dichiarato che i giornalisti stanno «esagerando» quella che lui definisce «un'esuberanza naturale» della popolazione dopo la caduta di Saddam Hussein, i militari britannici temono che la situazione esploda. Un altro portavoce militare ha dichiarato alla Reuters che i generali stanno prendendo contatti con personale dell'ex amministrazione irachena disposto a collaborare con loro, prima di far partire un pattugliamento congiunto di polizia.

La situazione attuale in Iraq, senza legge né ordine, porrebbe le potenze occupanti in violazione della Convenzione di Ginevra. Secondo il professor Paul Rogers - intervistato dalla Bbc - «qualsiasi potenza occupante che abbia distrutto un precedente regime, ha l'obbligo di mantenere in efficienza il servizio sanitario e la distribuzione di cibo». Rogers, che insegna «Peace studies» alla Bradford University, dice chiaramente che «i militari britannici non stanno adempiendo ai propri obblighi previsti dalla Convenzione di Ginevra».

La situazione umanitaria a Bassora continua a essere critica e, come denunciano le organizzazioni umanitarie, c'è preoccupazione per l'aggravarsi dell'emergenza umanitaria. Molte aree del paese continuano a essere inaccessibili alle organizzazioni umanitarie a causa dei combattimenti. Ma, conclude Rogers, le truppe «sono insufficienti e impreparate per mantenere l'ordine», come dimostrato dal fatto che «non sono state capaci di controllare i saccheggi». " [MAN]

"«Il futuro dell'Iraq è una partita ancora tutta da giocare»
Intervista a Loulouwa al-Rached, studiosa della società irachena: «Il caos e i saccheggi non sono gesti politici»
Come nel `91. «Ci furono violenze anche dopo la prima guerra del Golfo, ma allora il potere resistette, oggi invece si è dissolto»
La sfida. «Il regime non ha sradicato il sentimento nazionale degli iracheni. Ora bisogna ricostruire una società integrata»
MARINA FORTI
Le scene di saccheggio e anarchia per le strade di Bassora, Baghdad, Mosul, lasciano interdetti: come il caos fosse l'unico scenario non previsto della guerra irachena. Non è stupita però Loulouwa al-Rachid, ricercatrice di scienze politiche e studiosa della società irachena (è coautrice dell'ultimo rapporto dell'International Crisis Group, Voices from the Iraqi Streets, dicembre 2002). «Era del tutto prevedibile», ci dice al telefono da Parigi: «Si riproduce lo scenario del 1991, quando il potere centrale aveva perso il controllo sulla parte meridionale del paese. Anche allora avevamo visto saccheggi e atti di vandalismo. Solo che allora il potere centrale c'era e questo fenomeno è stato limitato al sud, e sappiamo come il governo ha ripreso il controllo. Ora il potere centrale si è dissolto e il disordine è esteso a tutto il paese. Credo sia importante notare che è qualcosa di spontaneo, non organizzato. Sì, prima la folla ha attaccato i simboli del potere, i palazzi dei figli di Saddam Hussein o dei notabili del regime, ma poi ogni edificio privato o pubblico, negozi, ovunque ci fosse qualcosa da rubare. Non è un gesto politico». Prima e durante la guerra c'era chi prevedeva scene di gioia popolare per la fine della dittatura, dove gli americani sarebbero stati accolti come i liberatori. C'era al contrario chi anticipava una resistenza urbana, la guerriglia strada per strada. Ma alla fine nessuna delle due cose è avvenuta. E per Al-Rashid neppure questo deve stupire: «Nel nostro rapporto avevamo previsto piuttosto un atteggiamento di attesa». Il regime, spiega, si preparava alla guerra delle città. Aveva mobilitato le milizie irregolari ancor più dell'esercito regolare. E questo aveva come risvolto il controllo sociale, poiché le milizie, mobili, erano disseminate nei quartieri, tra la popolazione civile. «Consideri che per 21 giorni il potere è stato fisicamente presente: presidente e ministri hanno fatto molta attenzione a comparire ogni giorno, alla televisione, con le conferenze stampa - non importa se per dire cose fantasiose o negare l'evidenza. Fino all'ultimo hanno dato l'impressione di avere le cose in mano. Anche per questo, non bisognava aspettarsi nessuna manifestazione publica di sollievo prima che i carrarmati americani arrivassero a Baghdad e il regime uscisse di scena». E il sollievo non si è tradotto tanto in festa quanto in disordine... «La cosa davvero inquietante per i baghdadini in questo momento è proprio il caos, la mancanza di un'autorità. E soprattutto il fatto che le truppe occupanti sembrano non preoccuparsene».


La grande domanda ora è cosa succede dopo. Gli Stati uniti hanno previsto un governo ad interim guidato da un ex-generale, Jay Garner, con uno stuolo di consiglieri americani e britannici. E però, impazienti di dimostrare che hanno «portato la democrazia in Iraq», vogliono che gli iracheni partecipino a una transizione politica. Ma quali iracheni? «E' una questione ancora senza risposta, la partita è aperta», risponde Loulouwa Al Rashid. «La stessa amministrazione statunitense è divisa e ogni `partito' ha i suoi iracheni preferiti. Poi ci sono diversi approcci tra americani e britannici, in particolare sul ruolo delle Nazioni unite. L'Onu stessa non sembra così impaziente di andare a governare l'Iraq. Quello che è chiaro è che gli Stati uniti terranno in mano il governo. Quanto agli exilés, molti stanno tornando: ma non hanno alcuna base sociale né credibilità politica, dipendono in tutto e per tutto dall'appoggio americano. L'uccisione del religioso sciita, l'altro giorno a Najaf, è un segno di cosa potrebbe avvenire. La società irachena ha pagato un prezzo molto alto ai 30 anni di dittatura. La società civile organizzata è distrutta. I personaggi che vediamo emergere come pretendenti alla successione non sono necessariamente rappresentativi. Il rischio è che gli americani prendano dei personaggi del tutto fabbricati, nella fretta di avere un governo locale».

Da parte americana e britannica sentiamo ripetere che tutte le componenti della società saranno rappresentate: sciiti, sunniti, kurdi... Ma leggere l'Iraq solo in termini etnico-religiosi è sbagliato e pericoloso, dice Loulouwa Al-Rashid. «Una cosa è riconoscere che una società è complessa, sfaccettata, plurale, altro è cercare di riordinare tutto in termini etnico-religiosi. Ignorano che l'Iraq ha vissuto una integrazione nazionale, dagli anni `20 in poi». La costruzione dello stato moderno e laico, l'istruzione di massa dagli anni `60, la nazionalizzazione del petrolio nel `72, un'amministrazione moderna, tutto ha concorso a formare una coscienza nazionale. «Certo, il regime ha oppresso le minoranze, ma nonostante tutto la dittatura non è riuscita a sradicare la coscienza di una società integrata e pluralista». Nelle ultime settimane abbiamo sentito Saddam Hussein e i suoi ministri parlare di jehad contro gli invasori, fare appello all'islam e alle tribu. La stessa Al Rashid segnalava di recente che il regime era tornato a far leva sui clan, già considerati elemento retrogrado e ora invece corteggiati dal potere. «La religione e il tribalismo sono strumenti tradizionali di controllo sociale, li hanno usati tutti. Ma insisto, il regime non è riuscito a sradicare il sentimento nazionale degli iracheni. Ora, la sfida è come ricostruire una società integrata: e credo che proprio il pluralismo delle diversità sarà una garanzia che non torneremo a un sistema politico blindato, a una dittatura. Il rischio però è che siano americani e britannici a manipolare le diversità, sempre per farsene uno strumento di controllo politico. Già abbiamo visto che i britannici a Bassora cercano i capi tribù per delegare loro l'ordine pubblico: c'è una straordinaria continuità con quanto avevano fatto durante il mandato britannico negli anni `20. Un vecchio vizio»." [MAN]

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