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[Cronologie di guerra] 14.04.03 ventiseiesimo giorno
by blicero Wednesday April 16, 2003 at 01:22 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 14.04.03 ventiseiesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.


14 aprile 2003 : ventiseiesimo giorno
[fonti : quotidiani del 15 aprile 2003]


"Sulla via di Damasco
«La Siria è uno stato terrorista» Escalation della Casa bianca verso la prossima guerra Damasco: «Vengano gli ispettori» Blair ambiguo, arabi in fermento, Europa e Russia in allarme I marines arrivano a Tikrit Il comando Usa trionfante: «Presi tutti i pozzi di petrolio» Ancora caos e saccheggi da Mossul a Bassora Continua il mistero Saddam" [MAN]

"L'ordine islamico s'allarga su Baghdad
Gli imam - sciiti e sunniti - allargano la loro influenza, i volontari gestiscono il ritorno all'ordine. L'unico embrione di legge che governa la città è quello del Corano: «Se gli americani non se ne andranno sarà jihad»
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
Una improvvisa sparatoria ci blocca in mezzo al traffico nel quartiere al-Taifiya, davanti alla moschea intitolata all'imam Ali: non si tratta di una battaglia contro i tank americani, è la nuova «polizia islamica» che sta intercettando i saccheggiatori per requisire le merci rubate. E lo fa bloccando le auto e i camion con kalashnikov, pistole e bastoni. Gli ordini arrivano direttamente da Najaf, la città santa che ospita il santuario dell'imam Ali capostipite dello sciismo e che continua a forgiare nelle sue madrasa i quadri dell'islamismo sciita. Da una madrasa di Najaf arriva anche lo sheikh Walid al Zawi, inviato qui dall'imam Mukhtada al-Sadr, figlio del famoso ayatollah al-Sadr assassinato dal regime nel 1999, la cui morte aveva provocato il movimento di insurrezione sciita più importante dopo la rivolta del 1991, e nella cui memoria è stato ribattezzato anche il più grande quartiere sciita di Baghdad: Saddam city è così diventata Sadr city. Sono peraltro due i Sadr - Muhammed Baqer e Muhammed Sadeq - «martiri della fede», vittime entrambi del regime, alla cui «arabità» si rifà il partito Dawa in contrapposizione alla eccessiva «iranità» di altri leader religiosi sciiti. Lo sceicco Walid al-Zawi, in accordo con l'imam locale, Abdul Munir Massawi, controlla l'opera dei suoi giustizieri, la refurtiva, macchine comprese, viene immagazzinata in un grande deposito di autobus che si trova proprio di fronte alla moschea Ali. L'imam Mussawi dice che il bottino sarà riconsegnato ai legittimi proprietari, come insegna il corano, se non si troveranno sarà distribuito tra i bisognosi. Avete contatto con gli americani? chiediamo allo sceicco Walid al Zawi. «Non abbiamo contatti con nessuno, né con gli americani né con i gruppi di opposizione, riceviamo oridini solo dall'imam al-Sadr». La lotta per il potere degli islamisti sembra aperta con il processo di radicalizzazione che tende ad isolare il più «moderato» ayatollah Sistani.

Il movimento sciita dell'interno rifiuta l'intervento americano ma per il momento, più che a manifestare la propria opposizione all'invasione, sembra interessato ad occupare lo spazio lasciato libero dal vuoto di potere per mettere il nuovo governo, che gli americani stanno faticosamente cercando di costruire, di fronte al fatto compiuto. Si tratta di un copione classico, già sperimentato altrove. Collassato il precedente regime e tutta la sua rete assistenziale, sicuramente il movimento islamista sciita - l'islamizzazione voluta da Saddam era a favore della minoranza sunnita al potere - è il più preparato - nonostante la repressione subita - a supplire alle carenze con la rete di solidarietà delle moschee. L'opposizione laica è stata invece completamente eliminata da Saddam, che aveva sterminato i comunisti con una forte base tra la comunità sciita favorendo così la componente religiosa. La «polizia religiosa» non è l'unico esempio di occupazione degli spazi istituzionali in una situazione di anarchia, alla quale l'arroganza militare americana per ora non mette freno. L'abbiamo verificato anche nell'ospedale al-Kindy.


Un carro armato è ora appostato davanti al centro traumatologico, uno degli ospedali più grandi della città, con decine di sale operatorie, che serviva anche per la formazione universitaria. Ma è arrivato troppo tardi, l'al-Kindy era già stato completamente saccheggiato e i circa 400 pazienti sono stati costretti a fuggire, la maggior parte sono andati a casa, alcuni hanno cercato riparo in altri ospedali, quei pochi che si sono salvati. Qui erano state ricoverate anche le vittime della guerra, quelle civili, mentre i militari erano stati dirottati sullo Yarmuk. Alcuni cadaveri sono ancora rinchiusi in una cella frigorifera, altri su un camion. «Aspettiamo ancora 24 ore, per vedere se i familiari vengono a cercarli, altrimenti saremo costretti a seppellirli, anche senza riconoscimento», dice il dottor Ali Rodan Schwelf, capo del dipartimento chirurgico. Dei circa 500 dipendenti, tra medici, infermieri e inservienti vari, ne sono rimasti solo una cinquantina. Quelli che non si rassegnano alla chiusura dell'ospedale. Avevano chiesto protezione ai marine, inutilmente, allora si erano rivolti agli imam (religiosi), sunniti e sciiti, nel rispetto delle due componenti islamiche presenti in Iraq, racconta il chirurgo. E sunniti e sciiti hanno subito risposto approfittando dell'occasione per spartirsi la gestione dell'ospedale, garantendo anche la guardia notturna con 250 militanti islamisti. Stanno tentando la riapertura dell'ospedale che per ora funziona solo come ambulatorio.

Incontriamo sheikh Munir al-Obeida, sunnita, imam di una moschea di al Kindy, e lo sheikh Abbas, sciita dell'ex Saddam city e studente in una madrasa di Najaf, intenti nel loro lavoro. I vostri rapporti con gli americani? «Non abbiamo rapporti con gli americani», risponde sheikh Munir, «non accettiamo di essere colonizzati, vogliamo la nostra libertà, per questo eravamo contro Saddam, ma rifiutiamo gli stranieri». Eppure gli americani sono qui, si stanno occupando di formare un nuovo governo..., insistiamo. «Se entro sei mesi non se ne andranno, li combatteremo». Con il jihad (guerra santa)?, suggeriamo. «Con il jihad», risponde entusiasta sheikh Abbas che convinto di aver intuito una comprensione sul terreno religioso ci investe con una raffica di domande. A salvarci è l'arrivo di un gruppo di «volontari» con un carico di medicine. Gli imam hanno lanciato un appello perché si metta fine ai saccheggi e la refurtiva venga raccolta nelle moschee. Forse anche queste medicine sono state recuperate in questo modo.

Molti dei pazienti o dei bisognosi di pronto soccorso sono ora dirottati su uno dei pochi ospedali risparmiati dai vandali, quello che era l'ex ospedale pediatrico Saddam, che ora non solo ha cambiato nome - si chiama al-Iskan - ma non è più riservato solo ai bambini. Trovandosi ai margini del quartiere al-Mansour il più colpito dalla guerra, ha dovuto far fronte agli effetti dei bombardamenti e degli scontri. E' un via vai continuo di autoambulanze che arrivano e partono a sirene spiegate, trasportano donne, bambini, anziani, giovani che vanno a riempire il pronto soccorso. Eravamo stati qui prima della guerra a vedere i bambini vittime dell'embargo. La situazione allora era drammatica, ora è la catastrofe. Vediamo bambini morenti trasportati qui dai genitori che sfuggono alle battaglie ancora in corso e ai controlli degli americani che non fermano i saccheggiatori ma le autoambulanze sì, donne dal volto bruciato, anziani che si sono trascinati qui da un altro ospedale con l'ago della flebo infilato nella gamba.

Neanche i morti possono riposare in pace. Qualche giorno fa, proprio nel giardino dell'ospedale, avevamo assistito a delle sepolture, nel frattempo le tombe si sono moltiplicate, da una parte i musulmani e dall'altra i cristiani con le loro croci, i cadaveri vengono sepolti nelle fosse uno sopra l'altro, non c'è abbastanza posto. E il lavoro dei monatti di Baghdad non è ancora finito. Arriva un pick up che vomita altri cadaveri sul selciato, il fetore è insopportabile. Alcune sono le vittime delle quattro abitazioni distrutte con un missile ad al Mansour diversi giorni fa, gli americani pensavano che in quel luogo fosse in corso un pranzo di Saddam con i figli.

Sulla strada di al-Kadhimiya ci imbattiamo con uno dei pochi poliziotti che ha deciso di riprendere servizio. Il colonnello Laher Jellab al Bahakri si definisce un «volontario» e dice di non essere un collaboratore degli americani, ma forse è solo per non deludere la folla che lo circonda e lo applaude. " [MAN]

"Gli Usa: avanti il prossimo
Damasco nel mirino E' la Siria il prossimo paese messo all'indice da Bush. Che minaccia: «Sarà meglio che collabori con noi. Spero che lo faccia»
Le accuse Per gli Usa il governo siriano offre aiuto ai gerarchi iracheni in fuga e sarebbe in possesso di armi di distruzione di massa
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Eadesso è il turno della Siria. Non vi preoccupate, dicono pressoché simultaneamente da Washington e da Londra Colin Powell e il ministro degli esteri britannico Jack Straw, «non ci sono piani» di prolungare la guerra invadendo la Siria, però il regime di Damasco farà bene a darsi una regolata. Gli interventi dei responsabili della diplomazia dei due Paesi sono arrivati ieri mattina, probabilmente nell'urgenza di «mettere in bella» l'avvertimento che George Bush in persona aveva lanciato alla Siria durante la sua conferenza stampa di domenica, in cui il senso delle sue parole era risultato abbastanza chiaro ma la loro - come dire - esposizione era stata alquanto faticosa. «Io penso che noi crediamo che ci sono armi di distruzione di massa in Siria...Adesso siamo in Iraq e la seconda cosa riguardo alla Siria è che ci aspettiamo collaborazione. E spero che riceveremo collaborazione». Quelle parole, oltre a costituire una specie di prova ulteriore di ciò che Robin Williams dice del suo presidente («Parla l'inglese come se fosse la sua seconda lingua»), hanno anche allarmato non poco la comunità mondiale, sicché Powell e Straw hanno cercato di «spiegare», senza peraltro riuscire a tranquillizzare. Alla luce del «nuovo ambiente» creato dalla caduta del regime iracheno, ha detto Powell, la Siria dovrebbe «riesaminare le proprie azioni e il proprio comportamento, non solo rispetto a quelli che stanno trovando rifugio in Siria e rispetto alle armi di distruzione di massa, ma anche - specialmente - rispetto al sostegno alle attività terroristiche». Lo schema è uguale a quello che ha preceduto l'attacco contro l'Iraq, ma è anche diverso. Uguale perché questa campagna contro la Siria si basa su affermazioni che non vengono sostenute in alcun modo, proprio come avvenne con l'Iraq. Diverso perché le minacce non sembrano implicare l'uso della forza, o almeno non sembrano implicarlo a breve scadenza, pur non escludendolo. «Esamineremo - ha detto testualmente Powell - la possibilità di misure diplomatiche, economiche o di altra natura». Come al solito, però, la «distinzione» di Powell dal resto dell'amministrazione Bush (compreso il presidente stesso), è apparsa abbastanza chiara di lì a poco, quando è «sceso in campo» Ari Fleischer, il portavoce ufficiale della Casa Bianca, che ha aperto il suo consueto «briefing» con la stampa sparando un brutale «arruolamento» di Damasco nei ranghi dell'asse del male. «La Siria - ha detto - è da tempo uno stato canaglia».

Strano destino, quello del regime siriano. Per anni, nell'elenco dei buoni e dei cattivi stilato regolarmente dal dipartimento di Stato, è stato messo regolarmente nella colonna dei sostenitori del terrorismo, tanto che le indagini sull'attentato di Lockerbie (l'aereo della Pan Am fatto esplodere nel cielo della Scozia nel 1988) indicavano la Siria come il Paese che probabilmente «era dietro» ai suoi autori. Poi, all'improvviso, sotto l'amministrazione di Bush padre la Siria diventò «buona» (o quasi) e gli investigatori di Lockerbie si concentrarono sulla Libia, ottenendo in cambio la partecipazione (simbolica ma politicamente importante) di Damasco alla Guerra del Golfo numero uno.

Ora è tornata «cattiva» e per dimostrarlo il portavoce Ari Flaischer, in una mossa che tutti hanno interpretato come la voglia di «alzare il tiro» rispetto a Powell, si è riferito a un rapporto della Cia che riguarda il periodo gennaio-giugno dell'anno scorso. «La Siria - dice quel rapporto letto da Fleischer ai giornalisti durante il "briefing" - ha cercato di acquisire un expertise sulle armi chimiche rivolgendosi a varie fonti durante il periodo in questione. La Siria dispone già di uno stock di gas nervino sarin, ma apparentemente sta cercando di sviluppare agenti nervini più tossici e più persistenti». E perché l'amministrazione Bush tira fuori queste informazioni solo adesso, visto che ne è stata in possesso per quasi un anno?, è stato chiesto (abbbastanza ovviamente) a Fleischer. E la sua «non risposta» è stata: «Si tratta di un fatto rilevante».


La Siria, come si sa, ha già negato di possedere armi di distruzione di massa ed ha anche detto che se vogliono gli Stati uniti possono intraprendere un'azione nell'ambito delle Nazioni unite affinché vengano mandati degli ispettori a verificare. Una «provocazione» che il tasso bassissimo di senso dell'umorismo nel governo repubblicano di Washington non ha neanche colto. Ha anche detto, Damasco, che non sta dando rifugio a nessun «dignitario iracheno» e che il suo confine con l'Iraq è stato chiuso da quando è partito l'attacco americano. «Se hanno qualcosa di specifico da denunciare saremmo lieti di saperlo», diceva ieri un membro della missione siriana alle Nazioni Unite. Ma come gli avvenimenti recenti hanno insegnato l'amministrazione Bush rifugge dalle cose specifiche e preferisce le affermazioni vaghe. Quella coniata nel caso della Siria è che il confine con l'Iraq sarà pure chiuso, ma è anche «poroso». " [MAN]


"SIRIA
Damasco apre all'Onu
«Mandateci gli ispettori, ma il vero pericolo è Israele»
Obiettivo Golan Lo scopo inconfessabile della campagna Usa è spingere la Siria a rinunciare ai territori occupati dal 1967 dallo stato ebraico
MI. GIO.
GERUSALEMME
Anche l'Egitto, oltre alla Turchia, prenderà parte venerdì prossimo al vertice promosso dall'Arabia saudita con i ministri degli esteri dei paesi confinanti. Ma ieri sera era ancora molto vaga l'agenda di questo summit post-Saddam Hussein e non si avevano notizie precise sugli altri partecipanti invitati dal ministro degli esteri saudita, Saud al Faisal. Tutti si chiedono se la difesa della Siria dall'offensiva di accuse americane sarà il tema dominante dell'incontro o se invece i partecipanti discuteranno soltanto del futuro dell'Iraq occupato da statunitensi e britannici. Le prime indicazioni, davvero poco confortanti per Damasco, sono venute ieri dai colloqui al Cairo tra il presidente egiziano Hosni Mubarak e re Abdallah di Giordania che si sono tenuti a distanza dal confronto acceso tra Usa e Siria sul quale soffia sempre più forte Israele. Egitto e Giordania chiedono il ritiro di tutte le forze straniere dall'Iraq e la creazione di un governo iracheno «designato dal popolo, che rappresenti tutti gli strati della popolazione e sia capace di mantenere l'unità territoriale del paese». Lo hanno detto i ministri degli esteri Ahmed Maher (egiziano) e Marwan Moasher (giordano) durante la conferenza stampa alla fine dell'incontro tra Mubarak e re Abdallah, che hanno anche discusso in audioconferenza dal Cairo con il presidente palestinese Yasser Arafat degli sviluppi della «road map», l'iniziativa diplomatica sponsorizzata dal «Quartetto» (Usa, Russia, Ue e Onu). E il sostegno alla Siria? Damasco non si fa illusioni, ha già compreso che i «fratelli arabi» saranno i primi a tirarsi indietro di fronte al prevedibile aumento della pressione americana sulla questione delle armi chimiche. Sa che dovrà manovrare, sostanzialmente da sola, per aggirare l'attacco di Washington. Butheina Shaaban, portavoce del ministero degli esteri di Damasco, ha detto che, se la comunità internazionale nutre timori allora dovrebbe rivolgere le proprie attenzioni verso Israele, unico paese del Medioriente ad essere in possesso di ordigni nucleari. «Per noi da questo punto di vista non ci sarebbero problemi», ha risposto la portavoce quando le è stato chiesto se il suo governo sarebbe disposto ad accogliere una squadra di ispettori sul disarmo. «Credo che invece Israele i problemi li avrebbe ad accettare un'idea di questo genere - ha aggiunto - per quanto ci riguarda non vediamo l'ora che il Medioriente venga liberato dalle armi di distruzione di massa». Ma la pressione di Washington continua. Bush e i suoi consiglieri di estrema destra sono convinti che la Siria, isolata e circondata da vicini alleati degli Stati uniti, finirà per capitolare. Non lo dicono apertamente ma uno degli obiettivi di questa nuova campagna mediatica è quello di indebolire Damasco fino a costringerla a rinunciare ai suoi diritti sulle alture del Golan occupate da Israele nel 1967.


Tutte queste pressioni puntano anche a costringere i governanti siriani a ritirare il loro sostegno ai gruppi di guerriglia anti-israeliani, in particolare gli Hezbollah libanesi. E infatti Israele ieri è tornato pesantemente alla carica. Da Ankara, dove è in visita ufficiale, il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom ha lanciato accuse durissime alla Siria. Il ministro della difesa Shaul Mofaz, invece, in una intervista al quotidiano Maariv, che sarà pubblicata per esteso domani, ha intimato ai siriani di rimuovere la «minaccia» degli hezbollah dal Libano del sud e di provvedere a chiudere gli uffici di Hamas e del Jihad Islami a Damasco. La stampa israeliana è stata arruolata in questa offensiva. Zeev Schiff, l'esperto militare del quotidiano (sempre meno progressista) Haaretz, ha addirittura scritto che Assad potrebbe puntare a una «libanizzazione» dell'Iraq. La ciliegina sulla torta è stata messa dall'ex capo del Mossad, Dany Yatom, secondo il quale la Siria rappresenterebbe una minaccia per la stabilità internazionale non dissimile da quella rappresentata dal regime di Saddam Hussein. «Se la sorte della Siria sarà analoga a quella dell'Iraq - ha detto Yatom - noi israeliani ne ricaveremo un notevole giovamento»." [MAN]

"Tikrit cade senza resistere
Dopo giorni di violenza, a Najaf una manifestazione «per l'unità di tutti i musulmani» e contro le persone «imposte dall'esterno»
I marines entrano nella città del rais e dal Centcom annunciano che la guerra «è vicina alla fine». A Baghdad, scontri e morti a Saddam city
MI. CO.
Imilitari americani entrano a Tikrit e dal Comando centrale in Qatar annunciano che la guerra è «vicina alla fine», e anche che tutti i pozzi di petrolio iracheni sono sotto controllo della coalizione anglo-americana. Un migliaio di marines - appoggiati da caccia ed elicotteri militari - sono entrati ieri nella città natale di Saddam Hussein e, secondo quanto riferito dai corrispondenti della Bbc, hanno incontrato scarsa resistenza da parte di «irregolari iracheni». Nel corso dei combattimenti sarebbero rimasti uccisi una ventina di iracheni che difendevano la città. Subito dopo aver occupato Tikrit, i militari Usa hanno iniziato una serie di perquisizioni casa per casa, alla ricerca di soldati iracheni. Caduto il centro cittadino, i combattimenti e la resistenza irachena si starebbero concentrando nella periferia a nord della città. Gli iracheni di Tikrit hanno «accolto» gli americani in maniera molto più fredda di quanto non sia avvenuto a Baghdad e tutti i simboli del regime sono rimasti intatti: né i militari Usa, né gli abitanti di Tikrit hanno abbattuto la statua equestre di Saddam nella piazza principale, nessuno ha mitragliato i ritratti del rais sparsi per la città.

Ieri dal Centcom di Doha, nel Qatar, è arrivato l'annuncio che tutti i pozzi di petrolio sono saldamente nelle mani degli amerticani: domenica i pompieri quwaitiani hanno spento l'ultimo pozzo in fiamme ad al-Rumeila, nel sud dell'Iraq. Dall'inizio dell'attacco anglo-americano sono stati incendiati o sabotati (e rapidamente spenti o riparati) una decina di pozzi. Gli Usa controllano adesso le riserve di greggio più grandi del mondo, immediatamente dopo quelle dell'Arabia saudita, con 112 miliardi di barili.

La situazione resta molto tesa nella capitale Baghdad, dove ieri ci sono stati scontri a fuoco nel quartiere di Saddam city, ribattezzato al-Sadr dopo la caduta del regime. Nel corso della sparatoria sono rimasti uccisi due miliziani, ma ci sono versioni contrastanti su cosa abbia originato il conflitto a fuoco. Secondo una ricostruzione si sarebbe trattato di combattimenti tra sciiti (a maggioranza nel quartiere) e feddayin palestinesi, siriani e libanesi giunti in Iraq per combattere al fianco di Saddam. Un'altra ipotesi dice che si è trattato di scontri tra bande rivali per il controllo del quartiere. Sia come sia, in questa zona di Baghdad le truppe Usa non mettono piede, a testimonianza del fatto che la situazione nella capitale - malgrado non si ripetano le scene di saccheggi dei giorni scorsi - è tutt'altro che sotto controllo degli americani.

Nella giornata in cui 2.000 poliziotti iracheni (un ventesimo di quelli in servizio durante il regime) si sono ripresentati a lavoro e hanno iniziato a pattugliare le strade della capitale insieme ai marines, si registra una protesta di piazza dei cittadini di Baghdad per invocare più sicurezza. Centinaia di iracheni si sono ritrovati davanti all'hotel Palestine per protestare contro la totale mancanza di legge e ordine in città. Un gruppo di una cinquantina di persone ha intonato slogan come: «Stato islamico, non americano».

La tensione starebbe crescendo anche a Camp Freddy, il campo nel sud del paese dove sono tenuti prigionieri oltre 6.000 iracheni catturati durante il conflitto. Joel Droba, un ufficiale medico di servizio nel campo, ha riferito alla France presse che gli scontri tra i prigionieri, con bottiglie piene di sabbia e a sassate, si ripetono da giorni.

Ieri altre due portaerei americane, la Kitty hawk e la Constellation, hanno ricevuto l'ordine di lasciare il Gofo persico. Restano nell'area la Nimitz e la Roosvelt, dopo che sabato la Abraham Lincoln aveva abbandonato la regione. Gli Stati uniti hanno ammesso ieri la morte di un altro loro pilota, il tenente Nathan D. White, il cui caccia bombardiere Hornet era precipitato al suolo lo scorso 2 aprile, forse colpito da un missile Patriot. " [MAN]

"Nasiriya, l'Iraq americano
Defezioni Il maggiore gruppo sciita non andrà alla riunione di oppositori convocata dagli Usa. Najaf, in piazza con gli ayatollah
MARINA FORTI
Decine di migliaia di persone ieri a Najaf hanno partecipato a una manifestazione di «unità» degli sciiti: organizzata dall'anziano grande ayatollah Ali al-Sistani, e dal ventiduenne sayyid Mukhtada al Sadr (figlio di un precedente grande ayatollah, ucciso nel `99 su ordine del regime), è la dimostrazione popolare intesa a mettere fine, per ora, alla lotta di potere esplosa nel clero sciita iracheno negli ultimi giorni: gli episodi chiave sono stati l'uccisione del leader religioso Abdul Majid al-Khoei, giovedì nella grande moschea di Najaf, e l'assedio alla residenza del grande ayatollah, domenica, con l'ultimatum a «abbandonare il paese entro 48 ore». Diversa la riunione che si terrà oggi a Nasiriya, cittadina dell'Iraq meridionale: dovrebbe essere il primo incontro dell'opposizione irachena in terra di Iraq «liberato», destinato a far emergere una nuova autorità civile per il paese. Convocata dall'ufficio «per la ricostruzione e l'assistenza umanitaria» americana in Iraq (Orha), la riunione sarà coordinata da Jay Garner - capo di quest'ufficio, ovvero prossimo governatore civile dell'Iraq. Ci sarà anche Zalmay Khalilzad, rappresentante della Casa Bianca presso l'opposizione irachena. L'ufficio di Garner prevede circa 60 partecipanti: gruppi kurdi, sigle di «esiliati», organizzazioni sciite, perfino rappresentanti della vecchia monarchia rovesciata nel `58. Non è chiaro però chi ci sarà: i più noti gruppi di exilés, compreso il Congresso Nazionale Iracheno sponsorizzato dal Pentagono, hanno annunciato che manderanno rappresentanti di basso livello, come a voler saggiare le acque - o forse per non mostrarsi troppo targati Usa. Lo stesso Ahmed Chalabi, capo del Cni, sbarcato una settimana fa a Nasiriya con qualche centinaio di uomini armati della sua «Free Iraqi Forces», ha fatto sapere che non parteciperà di persona. La riunione di Nasiriya dunque si annuncia sottotono - e tra gli iracheni i nomi di exilés come Chalabi non suscitano nessuna fiducia.

Soprattutto, alla riunione di Nasiriya non ci saranno rappresentanti del Supremo Consiglio della rivoluzione islamica in Iraq (Sciri), gruppo tra i più radicati tra gli sciiti iracheni. «Non andremo alla riunione di Nasiriya perché non è a beneficio della nazione irachena», ha dichiarato un dirigente dello Sciri, Abdelaziz Hakim, in una conferenza stampa nella capitale iraniana Tehran (dove risiede da 23 anni il leader, ayatollah Mohamad Baqr al Hakim). «Fin dal principio la nostra piattaforma è stata l'indipendenza (dell'Iraq). Non accetteremo di stare sotto l'ombrello Usa, o di nessun altro», ha detto Hakim. Posizione che riecheggia quella presa in Iran dal supremo leader della rivoluzione islamica, l'ayatollah Ali Khamenei, che ha chiesto all'opposizione irachena di rifiutare il governo di Garner: rovesciato Hussein, americani e britannici devono lasciare il paese. Ieri Tehran ha però anche messo in chiaro che non accoglierà dirigenti del vecchio regime: «Se dirigenti iracheni dovessero illegalmente entrare in Iran li arresteremo e processeremo per i crimini commessi contro la nostra nazione», ha detto un portavoce del ministero degli esteri.

E' per questo che gli eventi di Najaf non sono così estranei alla riunione di Nasiriya. Nel comisio finale, dirigenti religiosi hanno invitato la popolazione a mantenere l'ordine, basta armi per le strade, basta saccheggi. Hanno pronunciato parole di gioia per la fine del regime di Saddam Hussein. Hanno fatto appello all'unità non solo degli sciiti ma di tutti i musulmani, contro gli occupanti. «Non accetteremo che ci siano imposte persone legate agli invasori», è stato ripetuto. Messaggio preciso: Al-Khoei, il leader religioso ucciso giovedì, figlio di un precedente grande Ayatollah, era arrivato pochi giorni prima da Londra. Dell'uccisione sono stati accusati gli uomini armati del giovane Mukhtada al Sadr, che avrebbe tentato così di imporre la sua egemonia (nella sanguinosa irruzione nella grande moschea di Najaf è stato anche ucciso l'ex conservatore dela Tomba di Ali, luogo sacro sciita, accusato di essersi compromesso con il regime). Sono sempre gli uomini di al Sadr che hanno cercato di sloggiare il vecchio ayatollah Sistani. Domenica però negavano di aver mai dato un ultimatum. Sembra che a mettere fine al confronto siano intervenuti altri capi clan e leader religiosi. Da Tehran lo Sciri ha condannato simili episodi di estremismo. Sembra che le truppe americane non siano intervenute: un portavoce in Qatar ieri si è limitato a dire che quella di Sistani «è una questione irachena»." [MAN]

"Il petrolio iracheno sotto controllo Usa
Occupato il paese, comincia la spartizione. Poche gocce di oro nero agli alleati più fedeli
MANLIO DINUCCI
«Tutti i campi petroliferi iracheni sono ora sotto il controllo degli Stati uniti e dei loro alleati»: l'ha annunciato ieri, in un briefing a Doha, il generale Vincent Brooks. Egli ha precisato che le «forze alleate», dopo essersi «assicurate tutti i 1.000 pozzi petroliferi nell'Iraq meridionale, si sono impadronite della città settentrionale di Kirkuk, secondo centro petrolifero iracheno, dove vengono pompati fino a 900.000 barili di greggio al giorno». Solo uno dei pozzi nel nord è ancora in fiamme, ha aggiunto il generale, ma «risolveremo il problema appena possibile». A questo penserà la Kellog Brown & Root, unità della Halliburton (la società di cui Dick Cheney era direttore prima di diventare vicepresidente), la quale sta lavorando insieme al genio dell'esercito Usa per chiudere provvisoriamente i pozzi iracheni così che la pressione, aumentando, non li danneggi. Il fatto che la Kellog Brown & Root abbia ricevuto dal Pentagono, per mantenere in efficienza i pozzi iracheni, un contratto da 7 miliardi di dollari della durata di due anni, indica meglio di qualsiasi parola quali siano le intenzioni di Washington. Sotto il governatorato militare degli Stati uniti, con l'eventuale futuro avallo di un «governo» iracheno nominato da Washington, saranno le compagnie statunitensi a ottenere le più lucrose «concessioni» per lo sfruttamento dei pozzi iracheni e ad acquistare le infrastrutture petrolifere che verranno privatizzate a prezzi stracciati. Le grandi compagnie petrolifere statunitensi, e insieme a loro quelle britanniche, potranno così controllare le riserve petrolifere irachene, ammontanti a 112 miliardi di barili: le seconde del mondo dopo quelle saudite. Ad esse si aggiungono quelle scoperte negli ultimi anni nel deserto occidentale che, secondo la stessa Energy Information Administration (Eia) del governo statunitense, ammontano a circa 220 miliardi di barili. Le riserve complessive sono quindi, come minimo, di 332 miliardi di barili. Ciò significa che gli Stati uniti, occupando l'Iraq, hanno assunto il controllo delle maggiori riserve petrolifere del mondo.

Un petrolio doppiamente prezioso. Con una popolazione equivalente al 4,6% di quella mondiale, gli Usa consumano il 25,5% della produzione mondiale di greggio, ma, avendo riserve per appena 22 miliardi di barili, devono importare il 60 per cento di quello che consumano: hanno quindi bisogno sempre più di petrolio, ma deve essere un petrolio a basso costo perché l'economia statunitense possa restare competitiva. Allo stesso tempo gli Stati uniti potranno usare le riserve irachene per condizionare l'Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec), da cui proviene il 47% delle loro importazioni, condizionando anche la Russia, il cui petrolio subirà la pesante concorrenza di quello iracheno, ed Europa e Giappone, che dipendono più degli Usa dal petrolio del Golfo nella misura del 30% e 81%.

C'è però un problema: allo stato attuale, sono le Nazioni unite responsabili della vendita del petrolio iracheno sui mercati internazionali, in base al programma «Oil for food» stabilito dal Consiglio di sicurezza, e una modifica di tale regime richiede una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza, che Russia e Francia non hanno intenzione di far passare senza aver prima ricevuto garanzie su una loro compartecipazione allo sfruttamento del petrolio iracheno. Washington auspica un «coinvolgimento umanitario» delle Nazioni unite in Iraq, ma ha già detto chiaramente che il «ruolo centrale» spetta agli Stati uniti. Ha però bisogno che altri si addossino buona parte dei costi della ricostruzione del paese: si rivolge per questo al G-7, al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. Ha bisogno allo stesso tempo che altri contribuiscano a mantenere «l'ordine pubblico» in una situazione che si preannuncia non certo facile, così che le forze statunitensi possano concentrarsi nel compito fondamentale di installare in Iraq proprie basi militari da usare nelle prossime guerre. Da qui l'invito che Washington rivolge ai più fedeli alleati «non belligeranti», a partire dall'Italia, perché mandino forze a presidiare il territorio iracheno. E' comunque fuori discussione per Washington che, in ogni caso, saranno gli Stati uniti a svolgere in Iraq il ruolo politico, militare ed economico centrale. Gli alleati che avranno dato prova di fedeltà saranno generosamente ricompensati con qualche goccia di oro nero iracheno." [MAN]

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