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[Cronologie di guerra] 15.04.03 ventisettesimo giorno
by blicero Wednesday April 16, 2003 at 01:26 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 15.04.03 ventisettesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.




15 aprile 2003 : ventisettesimo giorno
[fonti : quotidiani del 16 aprile 2003]

"Aiuti umanitari
L'Italia si arrampica sul carro del vincitore Sì del parlamento alla missione militare in Iraq Frattini chiama l'opposizione: «C'è fretta» Il grosso dell'Ulivo si accoda, il voto è bipartisan 2.500 carabinieri «per proteggere gli aiuti» E in Iraq il dopoguerra parte con una rivolta Manifestazioni e proteste a Baghdad e Nassiriya A Mossul spari sulla folla: 10 morti Bush: «La guerra al terrore continua» Gli Usa tagliano il petrolio iracheno alla Siria" [MAN]

"Ieri i marines hanno sparato su un gruppo di iracheni dissidenti che protestavano contro il nuovo governatore di Mosul. Purtroppo ne hanno uccisi dieci, ma la democrazia non è un pranzo di gala. " [MAN]

"Gli astenuti
ANDREA COLOMBO
Domenica scorsa i Ds affermavano che mai l'Ulivo avrebbe approvato una missione italiana in Iraq senza mandato Onu. Ventiquattr'ore più tardi l'imperativo era già cambiato: appoggio alla spedizione sì, ma solo insieme a tutta la Ue. Ieri, la maggioranza della Quercia e la Margherita hanno sostenuto, con l'astensione, una missione che non è dell'Onu né della Ue ma della sola Italia, che si fa chiamare umanitaria ed è militare. Una missione nella quale duemila soldati italiani, oltre a scortare cinquecento operatori umanitari, si metteranno agli ordini degli ufficiali americani, troppo occupati a difendere il petrolio per prendersi cura di ospedali, musei o convogli di medicinali. Dalla conquista di Bagdhad in poi, quella dell'Ulivo è stata una corsa scomposta, segnata dall'ansia di lasciarsi alle spalle la sgradevole parentesi pacifista il prima possibile. La parola stregata che da sempre danna la sinistra italiana, «governabilità», è tornata a impazzare. E' per «mostrarsi forza di governo» che il grosso dell'Ulivo ha presentato ieri una mozione nella quale, proprio come nel discorso del ministro degli esteri Frattini, la parola guerra non compare. In Iraq c'è un'emergenza umanitaria. Come un diluvio, o un terremoto.

E' una impostazione complessiva, culturale e politica, che comporta una frattura profonda all'interno del centrosinistra. E' ormai lecito parlare di due Ulivi che convivono sotto lo stesso tetto, e se il centrosinistra ne prendesse atto sarebbe un bene per tutti. A impedirlo, ormai, è in gran parte l'indecisione della minoranza diessina, che oscilla tra l'affermazione della propria autonomia e il rispetto della disciplina di partito. Ieri quell'indecisione ha portato a una scelta bizantina (astenendosi sul voto di astensione dell'Ulivo) per la stragrande maggioranza degli italiani incomprensibile. Non è una posizione che possa essere sostenuta a lungo, né che convenga sostenere a lungo.

Anche perché il voto di ieri sigla il distacco aperto della leadership ulivista dai movimenti. Non solo da quello pacifista, ma da tutti quelli che negli ultimi due anni avevano turbato l'ordine dei gruppi dirigenti mettendo in campo priorità diverse da quelle della «governabilità». A spingere l'Ulivo verso l'astensione, ieri, non è stata l'«emergenza umanitaria» ma proprio la decisione di prendere le distanze da quelle istanze, poco riformiste, non adatte a una «classe di governo»." [MAN]

"Marines dentro, tank fuori
Truppe Usa fanno irruzione al Palestine in cerca di kamikaze, i carri armati circondano l'albergo. Gli occupanti tentano di calmare Baghdad ma gli iracheni sembra non vogliano saperne
GIULIANA SGRENA
inviata a Baghdad
«Evitate di lasciare le vostre case durante la notte, dopo la preghiera della sera e prima della chiamata alla preghiera del mattino», si legge nel «messaggio ai cittadini di Baghdad» diffuso dalle forze della coalizione. Il coprifuoco, che non era stato imposto nemmeno durante la guerra, è arrivato con l'occupazione anglo-americana. L'arroganza e la violenza sono all'odine del giorno e non risparmiano nemmeno i giornalisti, soprattutto quelli che per poter accedere all'hotel Palestine mostrano il vecchio accredito giallo rilasciato dagli iracheni. Evidentemente gli americani devono averci annoverati tra gli «elementi ostili» se ieri all'alba hanno fatto irruzione in alcune camere ai piani alti del Palestine, abbattendo la porta, puntanto il fucile a raggi infrarossi e costringendo i malcapitati giornalisti a sdraiarsi per terra mentre loro perquisivano le stanze in un clima di reale intimidazione. Non gli era bastato sparare una cannonata contro le stanze del quattordicesimo e quindicesimo piano uccidendo due giornalisti e ferendone altri, evidentemente ora tentano anche maldestramente di giustificarsi. Per non parlare del trattamento riservato agli iracheni.

Ormai tutto la zona intorno al Palestine è circondata da carri armati e filo spinato, il filtro è sempre più impenetrabile e gli iracheni sono tenuti a debita distanza, tranne i mercenari e i collaborazionisti. Così la piazza Firdaus, qui davanti, è diventata il ricettacolo di tutte le proteste e le manifestazioni. Gruppi di familiari di prigionieri politici spariti nelle carceri di Saddam chiedono ai «liberatori» di farsi carico della ricerca dei loro parenti nel sotterraneo di un edificio che si trova nel compound dei servizi segreti militari, dove sarebbero rimasti sepolti vivi nelle celle, ora coperte anche da metri d'acqua. «E' una questione di diritti umani. Bush non ha detto che veniva a liberarci? E dovrebbero occuparsene anche le organizzazioni umanitarie» dice Sabi Mohammed Abduhadi che è alla ricerca del fratello Khais, rinchiuso 22 anni fa. Ma gli americani sono scettici e non credono alla «leggenda» degli iracheni, così hanno occupato il compound e sbarrato i cancelli con i carri armati. Altri manifestanti gridano ogni mattina «né Saddam, né Bush» e la loro protesta è destinata a estendersi man mano che lo scontento aumenta: i saccheggi continuano, e con essi i dubbi sulla loro origine, la sicurezza è tutt'altro che assicurata dagli uomini che scorrazzano armati, le riserve alimentari costituite con le razioni mensili anticipate dal precedente regime stanno per finire, il personale degli ospedali, peraltro saccheggiati, è senza stipendio, e comunque la maggior parte della popolazione è senza lavoro. Baghdad continua ad essere senza luce e senz'acqua. Tra i manifestanti, nei giorni scorsi, è circolato anche un volantino del Partito comunista che invita la popolazione a costituire comitati popolari nei quartieri.

Gli americani chiedono l'aiuto della popolazione per ristabilire i servizi che hanno distrutto con i bombadamenti, mentre maldestramente cercano di piazzare i loro burattini nelle amministrazioni locali, ma le trattative per il governo sono in alto mare, come ha dimostrato ieri il sostanziale fallimento della riunione di Nassiriya. Del vuoto politico approfittano gli islamisti. E per vedere la reazione degli sciiti alle trattative in corso e soprattutto per sapere le loro opinioni sul candidato numero uno alla successione di Saddam, l'impresentabile corrotto ex banchiere sciita Ahmad Chalabi, bisogna andare a Kerbala.


Il centinaio di chilometri che separa la capitale dalla città santa è ormai priva di posti di blocco, il traffico è ripreso e con esso gli ingorghi. Scendendo verso Kerbala, a sud-ovest di Baghdad, sono soprattutto civili, mentre sulla corsia opposta scorrono lente lunghe colonne di carri armati, blindati, anfibi, prima americani e poi britannici. Sono i rinforzi per l'occupazione di Baghdad. Sulla strada, a partire da al-Dora, alla periferia meridionale della capitale dove si è combattuta una delle battaglie più sanguinose di questa guerra, restano sul terreno molti mezzi militari distrutti, ma anche macchine, camion e bus incendiati. Avvicinandoci a Kerbala, mentre sullo sfondo appare imperiosa la cupola d'oro della moschea dedicata all'imam Hussein, figlio del capostipite degli sciiti Ali, ai lati della strada appaiono cumuli di macerie, quel che è rimasto di molti edifici distrutti dai bombardamenti, che avevano fatto temere anche per i luoghi santi.

La città ora appare tranquilla, degli americani non c'è ombra, si sono ritirati nel loro quartier generale costituito dentro l'università. Intorno, un gruppetto di iracheni che vanno a perorare cause diverse. Ma la maggior parte dei cittadini preferisce ignorare per quanto possibile la loro presenza. «Non abbiamo nessun rapporto con gli americani», rispondono sia cittadini che imam della moschea. L'imam che avevamo incontrato nella nostra precedente visita, un mese e mezzo fa, non c'è più. «Era legato al regime di Saddam», dicono. Effettivamente nella sala, all'interno della moschea, dove l'avevamo intervistato, faceva sfoggio una foto del rais e una del figlio Udai, che aveva frequentato la madrasa (scuola coranica) della moschea. Sparito anche il ritratto di Saddam che compariva spregiudicatamente sulla facciata del santuario dell'imam Hussein, così come poco lontano, quella che appariva nella moschea speculare dedicata al fratello di Hussein, l'imam Abbas. Del resto i ritratti di Saddam sono scomparsi da tutta la città, e quelli rimasti sono deturpati. Anche un governatore scelto in un primo tempo per le sue conoscenze dell'amministrazione locale, Said Youcef, è stato fatto fuori, dopo che è stata denunciata la sua passata appartenenza al partito Baath. Ora alcuni anziani sono andati dagli americani a chiedere che il governatore venga eletto.

Ma i più non hanno nessuna fiducia negli americani, riconoscono di essere stati aiutati a liberarsi di Saddam, ma sanno benissimo che l'hanno fatto per il petrolio. Il fatto che l'unico ministero ad essere stato protetto dai saccheggi con i carri armati americani sia stato quello del petrolio ha fatto scandalo. «Questa è la liberazione: Baghdad saccheggiata, ministeri incendiati, museo distrutto, biblioteca nazionale in fiamme, ospedali devastati e senza medicine? No, questa è occupazione militare», inveisce Ahmed Fallah, farmacista che lavora nell'ospedale ginecologico. E che ne pensate di Chalabi e degli altri leader dell'opposizione irachena candidati a governare il paese? «Non vogliamo né Chalabi né nessun altro che mentre il popolo iracheno soffriva viveva tranquillamente all'estero, non vogliamo nessuno imposto dagli americani che servirebbe solo gli interessi degli Stati uniti», risponde il farmacista e tutti intorno a lui annuiscono. Ma chi è allora il vostro riferimento? «L'ayatollah Sistani di Najaf». Nella madrasa di Najaf si sono del resto formati anche tutti gli imam di Kerbala. Anche quello della moschea Hussein, sheikh Abdel Mahdi As-Salami, rifiuta gli americani, soprattutto li ignora e lui stesso ha lanciato un appello ai cittadini perché cooperino nella ricostruzione della città.

Ma il clima si è fatto pesante anche a Kerbala, la tensione intorno alla moschea è molto alta, l'aggressività di tutti i presenti, ma in particolare di alcuni fanatici con una fascia nera sulla fronte che porta la scritta Hussein, contro gli occidentali si scatena soprattutto contro le donne. Non era stato così l'altra volta che eravamo venuti. Persino un imam che ci ha rivolto la parola è stato minacciato dai presenti. E contrariamente alla nostra precedente visita non era permesso accedere nemmeno al cortile della moschea, peraltro semivuoto. Quando sono riuscita ad entrare, con un pretesto, coprendomi integralmente con un chador prestatomi da una donna, sono stata immediatamente circondata e buttata fuori ad grido di «haram, haram», peccato, peccato." [MAN]

"Via il dinaro, arriva Lincoln
Esperti del Tesoro Usa andranno a Baghdad per sostituire il dinaro o con il dinaro svizzero o una moneta nuova di zecca. Comunque, subito, sarà sostituita l'immaggine di Saddam con A. Lincoln" [MAN]

"Il sigaro della resa
Il generale iracheno Mohammed Jarawi si è arreso ieri alla III divisione di fanteria americana. Il colonnello Potts, a capo della divisione Usa, lo ha ringraziato e gli ha offerto un sigaro" [MAN]

"Piazze accese, summit spento
Nasiriya, gli imam sciiti chiamano ventimila persone a manifestare «contro l'America, contro Saddam». A poca distanza, in una base americana, la conferenza di oppositori e rappresentanti di fazioni e tribù iracheni convocati dagli Usa: doveva avviare la costruzione di un nuovo governo per il paese «liberato». Ha tenuto un basso profilo
MARINA FORTI
Alla fine si sono riuniti, i rappresentanti iracheni scelti da Washington: hanno approvato all'unanimità un documento che parla di Iraq democratico e federale, e si sono riconvocati tra dieci giorni. Ma se doveva avviare la costruzione di un governo iracheno del dopo-Saddam Hussein, la conferenza tenuta ieri in una base americana nell'Iraq meridionale è davvero un esordio di basso profilo, tra defezioni e contestazioni. La contestazione: nella mattinata le vie di Nasiriya si sono riempite di persone - ventimila, dicono i giornalisti presenti - cantando «Sì alla libertà, sì all'islam, no all'America, no a Saddam». La manifestazione era condotta da leader religiosi e i cartelli erano espliciti: «Vogliamo che la nostra voce sia quella della Hawza», la scuola religiosa sciita di Najaf. Uno degli imam alla testa del corteo, Warrad Nasrallah, ha dichiarato all'Agence France Presse che «spetta alla Hawza, e non agli Stati uniti o la Gran Bretagna, scegliere i rappresentanti del popolo». La manifestazione è una risposta alla conferenza di oppositori convocata dagli americani, ha aggiunto. Il comunicato letto alla fine, davanti alle macerie della sede locale del partito Baath, è ancora più esplicito: «La Hawza di Najaf è la nostra legittima rappresentante», le decisioni prese dai notabili riuniti nella base americana «non ci impegnano». Se le richieste degli sciiti non saranno considerate, «risulterà che un regime tirannico sarà stato sostituito da un altro regime tirannico». Cosa chiedono gli sciiti? «Che se ne vadano le forze americane e britanniche. Ci hanno liberato da Saddam e la loro missione è terminata», dicono manifestanti citati dall'Afp: «se contano di occuparci, noi ci opporremo». Dunque i leader religiosi sciiti dell'interno, lasciati da parte dalla Casa Bianca quando ha scelto i suoi interlocutori iracheni, ora fanno pesare la propria influenza popolare. Anche se non chiedono né un governo religioso, né sciita - come spiega un altro manifestante all'Afp: «Siamo contro il confessionalismo. Ma vogliamo una rappresentatività onesta degli sciiti». Gli eventi degli ultimi giorni a Najaf - l'uccisione di un leader sciita appena tornato da Londra, Abdel Majid al-Khoei, e l'assedio armato di gruppi estremisti contro il vecchio grande ayatollah al Sistani, sono un altro segno di difficoltà della ricostruzione politica dell'Iraq.

La riunione di Nasiriya del resto sconta defezioni illustri. In primo luogo, quella della maggiore organizzazione sciita «in esilio», il Supremo consiglio della rivoluzione islamica in Iraq (Sciri): dalla capitale iraniana Tehran dove i leader dello Sciri vivono in esilio il portavoce Abdel Aziz al-Hakim ha dichiarato che non accetta di «mettersi sotto l'ombrello degli Stati uniti o chiunque altro, perché questo non è nel'interesse degli iracheni». Lo Sciri aveva partecipato alle precedenti conferenze dell'opposizione sciita (l'estate scorsa a Washington, nel dicembre 2002 a Londra, infine in febbraio a Salahuddin nel Kurdistan iracheno). Poi, allo scoppio della guerra il leader Mohammed Baqr al-Hakim, molto legato all'Iran (da cui è protetto), aveva preso una posizione analoga alla «neutralità» enunciata da Tehran: non difendere il regime di Saddam, non collaborare con le truppe anglo-americane. Non è escluso che lo Sciri partecipi alle prossime riunioni.

Anche l'oppositore più sostenuto dal Pentagono non è andato ieri a Nasiriya: Ahmad Chalabi, capo del Congresso Nazionale Iracheno, nel timore di essere visto come un burattino americano ha mandato un suo rappresentante.

Chi c'era dunque ieri pomeriggio sotto la tenda allestita nella base aerea di Tallil, presso l'antica Ur, accanto ai resti di un'antica ziggurath? L'ottantina circa di partecipanti rappresentano da un lato le sigle di opposizione giudicate a suo tempo potabili dalla Casa Bianca (il Cni di Chalabi, i due partiti kurdi, il Movimento d'intesa nazionale che raccoglie ex alti ufficiali e transfughi del regime di Saddam, sostenitori della vecchia monarchia, altri gruppi di esiliati sciiti). Insieme, un mosaico di capi clan e notabili «dell'interno», tra cui ex notabili del partito Baath (il Dipartimento di stato lo aveva annunciato: sono stati invitati «iracheni che non abbiano fatto parte del regime e che possono partecipare in quanto dirigenti locali o personalità locali»). E dire che i capi tribù erano negli ultimi anni uno dei pilastri del consenso del regime...

Di fronte a questo uditorio dunque ha preso la parola ieri pomeriggio Jay Garner, l'ex generale Usa che governerà l'Iraq in quanto capo dell'Ufficio per la ricostruzione e l'assistenza umanitaria all'Iraq, istituito dal Pentagono (Garner risponderà direttamente al generale Tommy Franks, comandante dell'invasione dell'Iraq). Con una bandierina irachena puntata sulla camicia blu, Garner ha esordito proclamando «L'Iraq libero e democratico comincia oggi». L'inviato speciale della Casa Bianca, Zalmay Khalilzad, ha assicurato che gli Stati uniti «non hanno intenzione di governare l'Iraq». Il documento in 13 punti approvato alla fine dice che l'Iraq sarà democratico, non basato su identità comunitarie, un sistema federale da basare su un'ampia consultazione nazionale. Lascia aperta la discusisone sul ruolo della religiose, evoca il rispetto del ruolo delle donne. Decreta che bisogna dissolvere il Baath. Il circo è riconvicato tra 10 giorni, luogo da stabilire." [MAN]

"Chalabi, il loro uomo in Iraq
Fuggì per debiti da Amman nel baule di un'auto, ora punta su Baghdad. Con l'aiuto del Pentagono


Ritratto di un gentleman La famiglia fuggì a Beirut nel '58. Poi l'università in America, i contatti con l'entourage della Casa Bianca nel '91, il monumentale fallimento della sua Petra Bank in Giordania, la condanna a 22 anni di lavori forzati, la fuga, la fondazione dell'Iraqi national congress finanziato dalla Cia. Adesso Ahmad Chalabi ha fatto ritorno in patria, su un C-130 americano, con un migliaio di miliziani e un mandato: conquistare un paese de-saddamizzato
JOHN ANDREW MANISCO
Risale alla prima Guerra del Golfo la devozione di Ahmad Chalabi ai fautori della politica estera di Washington. Sciita, passaporto britannico, 47 anni (allora: adesso ne ha 59) fu scelto da Bush padre come rappresentante dell'opposizione a Saddam Hussein. Nel 1992 la Cia finanziò un gruppo di esuli iracheni che fondarono, a Vienna, l'Iraqi National Congress (Inc) e Chalabi venne eletto loro rappresentante. Quasi un salvacondotto per il faccendiere iracheno, che era sfuggito alle autorità giordane nel cofano di una macchina per aver provocato il più grosso fallimento bancario nella storia del paese. Nell'aprile del 1992 era stato infatti condannato da un tribunale di Amman a 22 anni di lavori forzati: l'accusa era appropriazione indebita, frode e ladrocinio per aver portato al collasso il suo istituito di credito, la Petra Bank. Secondo l'ex governatore della Banca Centrale della Giordania, Mohammed Said Nablusi, Chalabi era «un ladro che ha falsificato i libri contabili per nascondere i suoi crimini». Sparì mezzo miliardo di dollari, il 10% del prodotto interno lordo del paese. Chalabi insiste: macchè bancarotta, era un complotto ordito contro di lui da Saddam. La Cia decise di sostenerlo perché non aveva legami politici compromettenti in Iraq, ed era difficile che li avesse. Era dalla tenera età di 13 anni che non metteva piede in Iraq, cioè da quando la sua famiglia - aristocratici legati al repressivo regime hascemita di re Feisal II - scappò a Beirut dopo il colpo di stato del 1958. Dopo studi nelle migliori università americane, nel 1977 si stabilisce in Giordania dove inizia la sua avventura con la Petra Bank.

Nei primi anni 90 Chalabi e il suo Inc, con base nel Kurdistan, cercano di fomentare rivolte nelle forze armate di Saddam. Sempre finanziato dalla Cia, organizza un piccolo esercito «targato» Inc e cerca di metter d'accordo i gruppi kurdi, il Kdp di Barzani, il Puk di Talabani e l'ex baathista Iraqi National Accord (Ina). I tentativi di mediazione sono un disastro. Tutti sospettano di tutti, l'arroganza di Chalabi non è apprezzata e l'insistente intervento della Cia negli affari interni delle varie opposizioni provoca una atmosfera di paranoia nell'intera area. Nel 1995 i servizi segreti di Saddam si infiltrano nell'Ina mentre questi, insieme alla Cia, cercano di mettere a segno un colpo di stato a Baghdad. L'operazione fallisce miseramente. Lo stesso anno le forze Inc di Chalabi, insieme al Puk di Talabani riescono a sferrare un attacco contro le postazioni di Saddam nel nord del paese. Contemporaneamente a questo limitato successo, Talabani inizia a sviluppare più stretti rapporti con l'Iran. Il suo avversario kurdo Barzani chiede aiuto a Clinton che lo ignora, e questi si rivolge a Saddam. Nell'agosto del 1996 il Kdp di Barzani insieme alle forze di Saddam invadono la roccaforte Puk di Talabani a Erbil. Catturano e poi fucilano i militari del Puk e dell'Inc di Chalabi. L'opposizione a Saddam è distrutta, il Puk è marginalizzato, la presenza dell'Inc nel nord dell'Iraq eliminata, l'Ina chiude i battenti. Un disastro per la Cia, che accusa Chalabi di corruzione ed inefficenza.

A salvare il supposto leader iracheno da una vita di lussi a Londra interviene lo stesso gruppo di falchi neo-conservatori che lo avevano sostenuto quando occupavano posizioni influenti nell'amministrazione Bush padre, e nella infinita serie di gruppi di pressione di estrema destra legati al complesso militare industriale statunitense. Nel 1998 Randy Scheunemann, allora assistente al potente senatore repubblicano Trent Lott, scrive il disegno di legge chiamato «Iraq Liberation Act» che finanzia con 98 milioni di dollari il defunto Inc di Chalabi. Solo una parte di questi fondi però arriverà a destinazione, a causa di resistenze nel dipartimento di Stato e nella Cia. L'ex generale dei marines Anthony Zinni definisce l'Inc come «gente con giacche di seta e rolex ai polsi che vivono a Londra». Dopo il pasticcio elettorale in Florida e la vittoria elettoral-giudiziaria di Bush, Scheunemann viene promosso consulente sull'Iraq per il nuovo ministro alla difesa Donald Rumsfeld e poi, nel novembre del 2002, diventa direttore di un ennesimo gruppo di pressione chiamato «Comitato per la Libertà dell'Iraq». Il presidente del gruppo è Bruce P. Jackson, ex vicepresidente della Lockheed Martin ed ex presidente del «Comitato per l'Allargamento della Nato». Nel consiglio di amministrazione si trovano anche l'ex segretario di stato George Shultz diventato dirigente della Bechtel Corporation, l'ex generale Wayne Downing fautore dell'invasione fulminea dell'Iraq e già sostenitore di Chalabi, e il candidato democratico alle prossime presidenziali, il senatore Bob Kerrey.

Il «Comitato per la Libertà dell'Iraq» è praticamente un'estensione del «Project for a New American Century» (Pnac), un think-tank di destra paravento di neo-conservatori e fondamentalisti religiosi che sostiene la «guerra contro il terrorismo» di Bush jr e l'allineamento della politica mediorentale statunitense a quella del primo ministro israeliano Sharon. Tra le «lettere aperte» di questo gruppo, una del gennaio 1998 al presidente Clinton insiste su una più energica politica contro l'Iraq. «La politica estera americana non può continuare ad essere azzoppata da una fuorviante insistenza nel ottenere l'unanimità nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu» prima di agire militarmente in maniera unilaterale, scrive il Pnac al presidente. La lettera fu firmata da Rumsfeld, Paul Wolfowitz e Richard Perle. Otto giorni dopo l'undici settembre, un'altra lettera aperta fu mandata a Bush Jr. insistendo sulla necessità di estendere la «guerra contro il terrorismo» oltre a Al Qaeda: alla Siria, all'Iran, a Hezbollah in Libano, all'Autorità Palestinese e infine all'Iraq.


Ad applicare questa linea sono stati, come abbiamo visto, i padrini di Chalabi: il vicepresidente Cheney, il ministro della difesa Rumsfeld, il viceministro della difesa Paul Wolfowitz, l'ex presidente (si è appena dimesso) del Defense policy board Richard Perle. Le obiezioni alla scelta di Chalabi come nuovo leader dell'Iraq da parte della Cia e del dipartimento di stato sono state spazzate via dal solito stile dei neo conservatori: con un fait a compli. Domenica scorsa Chalabi e 700 suoi fedeli, muniti di divise simil-americane e riconoscibili dalle spalline con scritto Fif (Free Iraqi Forces) sono stati aerotrasportati con elicotteri del Pentagono dalla base ungherese dove si sono addestrati per mesi a una base irechena abbandonata nei pressi di Nassiriya. Ora raggiungeranno Baghdad.

Oltre al problematico passato di Chalabi le divisioni in seno alla Casa Bianca riguardano la struttura che un nuovo protettorato in Iraq dovrebbe avere. I neo conservatori vogliono applicare una forma di de-baathistizzazione del paese e ripulirlo completamente dai funzionari del partito di Saddam, esecuzioni incluse. Il Dipartimento di stato sarebbe più propenso a restaurare nelle loro posizioni i ranghi meno coinvolti col regime.

Un'altra e forse più importante ragione per il sostegno dei neo conservatori verso Chalabi riguarda le sue posizioni sul futuro del petrolio iracheno. Il faccendiere è il candidato preferito della Exxon Mobil e della Chevron Texaco (curiosità: quest'ultima ha chiamato una sua petroliera «Condoleezza», per servizi ricevuti). Già nell'ottobre dell'anno scorso Chalabi incontrò a Washington i dirigenti di questi colossi petroliferi e propose ufficialmente «un consorzio guidato da compagnie Usa per sviluppare i giacimenti petroliferi dell'Iraq. Compagnie americane avranno un grande ruolo («a big shot») nel petrolio iracheno». Secondo R. Gerald Bailey, che ha guidato le operazioni mediorentali della Exxon fino al 1997, «gli esuli iracheni ci hanno incontrato dicendo `potete avere il nostro petrolio se riusciamo a rientrare nel paese'. Tutte le più grosse aziente petrolifere americane hanno avuto incontri con loro, a Parigi, a Londra, a Bruxelles, ovunque. Stanno tutti prendendo posizione. Non si può ignorarlo, si deve concludere subito». Con Chalabi al potere in Iraq, il paese diventerebbe anche un trampolino di lancio più sicuro per le mire dei neo conservatori sull'Iran e sulla Siria. "[MAN]

"Strage americana a Mosul
I marines sparano sulla folla che protestava contro il nuovo governatore: almeno dieci morti, centinaia di feriti
ORSOLA CASAGRANDE
Sono dieci, forse dodici i morti. Almeno cento i feriti. Civili, gente che partecipava ad una manifestazione. Ieri a Mosul i marines americani hanno sparato sulla folla che ascoltava (protestando) il discorso del governatore della città (scelto e imposto dagli Stati uniti) Mashaan al-Juburi. E' successo tutto all'improvviso, dicono i testimoni alle agenzie di stampa: i soldati hanno sparato ad altezza d'uomo. Senza ragione. O meglio, per i marines le proteste della folla che ascoltava il discorso pro-coalizione del governatore targato Usa di Mosul sono state una ragione sufficiente ad aprire il fuoco. Per uccidere. Non hanno dubbi i testimoni del massacro: i soldati hanno sparato sulla gente, c'erano donne e bambini. C'è chi dice che i marines sono saliti sul tetto del palazzo del governo e hanno sparato da lì, mirando alla folla. Quindi hanno impedito i soccorsi. I dottori dell'ospedale cittadino confermano che i morti sono almeno dieci. I feriti un centinaio.


La versione dei marines arriva nel pomeriggio: «C'erano cento, centocinquanta persone che protestavano davanti al palazzo del governo. Poi ci sono stati colpi di arma da fuoco. Abbiamo risposto al fuoco». Che secondo il portavoce militare proveniva proprio dal tetto dell'edificio governativo. «Non abbiamo sparato sulla folla - ha detto - ma in direzione degli spari. C'erano uno, forse due uomini armati - ha continuato - abbiamo risposto al fuoco, non sappiamo se i cecchini sono rimasti uccisi». Nessun cecchino però è stato trovato sul tetto del palazzo di Mosul. La città è da giorni ormai scenario di tensioni soprattutto tra kurdi e arabi, con i marines a dare man forte ai peshmerga nel tentativo di «ripristinare l'ordine». Almeno venti erano stati i morti soltanto lunedì.

Le tensioni di Mosul riflettono quelle di Kirkuk, l'altra città strategicamente (ed economicamente) importante per i kurdi così come per gli arabi. E per i turchi che la settimana scorsa hanno inviato alcuni osservatori militari nella città petrolifera per verificare il ritiro dei peshmerga. Ritiro che non è ancora avvenuto completamente. Un certo numero di combattenti kurdi, infatti, resteranno - l'hanno detto gli stessi partiti kurdi. Kirkuk è la città del nord Iraq più ricca di petrolio. I kurdi la rivendicano come capitale della zona kurda liberata. I turchi hanno detto agli americani che se i kurdi manterranno il controllo della città invieranno l'esercito. Gli Usa hanno risposto che la città rimarrà in mano alla coalizione. Ma il segretario dell'Unione patriottica del Kurdistan (Puk), Jalal Talabani nella sua visita storica a Kirkuk sabato scorso ha detto di essere venuto a «chiarire alcune verità» con i rappresentanti delle comunità kurda, araba, turcomanna e assira. «La Turchia è un nostro vicino - ha aggiunto Talabani - così come la Siria e l'Iran. Noi vogliamo un Iraq unito e federato. Se la Turchia aprirà la questione di Kirkuk, dicendo che è una città turcomanna, allora noi apriremo il capitolo Diyarbakir. Nessuno può porre veti». Quanto alla presenza dei suoi uomini Talabani ha confermato che «un certo numero di peshmerga rimarrà a Kirkuk per proteggere le aree che la coalizione ci chiederà di difendere». Il Puk ha proposto la creazione di «un comitato formato da rappresentanti di kurdi, turcomanni, arabi e assiri, sotto la supervisione degli Stati uniti». Nelle intenzioni del leader kurdo questo comitato dovrebbe assumere il governo della città fino a quando non si svolgeranno elezioni locali o nazionali.

A Kirkuk come a Mosul continuano i saccheggi ma la cosa più preoccupante è l'escalation che stanno subendo le vendette personali e le lotte interetniche. Se la notizia del massacro dei marines ha fatto rapidamente il giro del mondo, altri attacchi rimangono sconosciuti. Il quotidiano inglese The Independent raccontava ieri la storia di un giovane kurdo, Sami Abdull, che da Dibbis, una cittadina kurda a pochi chilometri da Kirkuk, si stava recando a Hawaijah per assicurarsi che la sua famiglia stesse bene. A Hawaijah però Sami Abdull non è mai arrivato. Dopo aver accettato l'offerta di un gruppo di peshmerga che l'avrebbero scortato fino al villaggio, Sami e i suoi accompagnatori sono stati vittima di un'imboscata, secondo l'Independent, organizzata da un gruppo di miliziani arabi. Dodici peshmerga e Sami sono stati uccisi. La stessa tragica storia, di morti e vendette, è quella raccontata da un gruppo di arabi che accusano i peshmerga di aver scatenato una vera e propria caccia all'uomo, casa per casa, in alcuni villaggi, a maggioranza arabi, nei pressi di Kirkuk." [MAN]

"Tikrit, attacco kurdo 4 morti negli scontri
Quattro persone sono morte ieri negli scontri tra arabi e kurdi a Tikrit, città araba e famosa per avere dato i natali a Saddam Hussein, nel nord dell'Iraq. Dunque i kurdi non hanno avviato la pulizia etnica solo a Mosul e Kirkuk, ma anche più a sud lasciando intendere, a questo punto, mire pericolosissime e provocatorie per il futuro assetto del paese. Verso la balcanizzazione. La notizia è stata data da «Al Jazira». Secondo l'emittente araba, gruppi di kurdi si sono infiltrati nella città e hanno ingaggiato battaglie andate avanti per ore, con la popolazione araba locale che ha cercato di difendesri. Dalla zona di Tikrit ad un certo punto si è levata in cielo una colonna di fumo nero e secondo «Al Jazira» la situazione «è pericolosa». E, fatto ancora più grave, «sembra che i soldati americani non vogliano farsi coinvolgere negli scontri», insomma, lasciano tranquillamente fare. Preferiscono perquisire il palazzo presidenziale dove Saddam risiedeva, in cerca di elementi sulla fine del rais. " [MAN]
"«Iraq, privatizzare il petrolio»
Ibrahim, dell'Energy Intelligence, spiega a «Le Monde» il piano Usa: «Poi i giacimenti sauditi»
JOSEPH HALEVI
Con il passar dei giorni l'occupazione colonialista dell'Iraq, verso un assetto politico degli anni Venti, si rivela sempre più collegata alla guerra per il petrolio ed al ruolo che questa materia prima, tuttora necessaria alla produzione della quasi totalità delle merci e dei servizi del nostro Pianeta, assume nella lotta per il mantenimento dell'egemonia del dollaro. Su Le Monde datato13-14 aprile appare una lunga intervista con Youssef Ibrahim, giornalista americano e presidente dell'agenzia specializzata Energy Intelligence, dal titolo «La vraie bataille pour le pétrole commence» (comincia la vera battaglia per il petrolio). Ibrahim è stato per 24 anni giornalista del New York Times ed ha diretto sul Wall Street Journal la rubbrica sul petrolio. Prima di assumere la presidenza della Energy Intelligence era responsabile delle relazioni pubbliche della multinazionale Bp Amoco. Molto giustamente Ibrahim interpreta il grande disegno dei falchi di Washington come la volontà di ritornare all'era del patto effettuato nel 1945 sull'incrociatore Quincy tra il Presidente Roosevelt ed il re saudita Ibn Saud in base al quale gli Stati uniti garantivano il potere della monarchia whabbita contro lo sfruttamento esclusivo dei giacimenti a prezzi ragionevoli per le società petrolifere. In effetti, aggiungiamo, per tutti gli anni Cinquanta i prezzi al produttore erano talmente bassi che le compagnie maggiori potevano caricarci un buon margine di profitto. Come già documentato da Anthony Sampson in The seven sisters : the great oil companies and the world they made (London : Hodder and Stoughton, 1975), i margini di profitto vennero rosicchiati dall'aumento dei pagamenti richiesti dai paesi produttori la cui forza contrattuale aumentò significativamente negli sessanta in seguito all'emancipazione dal colonialismo, alla formazione dell'Opec ed ai progetti di nazionalizzazione provenienti soprattutto dall'Iraq. Ulteriori colpi al controllo Usa del petrolio e del Golfo Persico vennero, secondo Ibrahim, dalla caduta dello Shah e dall'occupazione irachena del Kuwait. Qui noi dobbiamo però chiederci: controllo rispetto a chi? In nessun modo il referente poteva essere l'Unione sovietica. La questione del controllo del petrolio del Golfo si pone nei confronti dell'Europa. Ed è all'Europa che si riferiva il segretario Usa alla marina James Forrestal quando alla fine del secondo conflitto mondiale affermò: «Non m'importa quali compagnie americane sviluppino le riserve arabiche, ma affermo con la massima enfasi che debbano essere delle società americane» (citato da Stephen Shalom, «The United States and the Iran-Iraq War», accessibile presso http://www.zmag.org/zmag/articles/ShalomIranIraq.html). Ed infatti Washington procedette ad escludere sistematicamente i britannici dall'Arabia saudita e poi, dopo il colpo di stato contro Mossadeq nel 1953, dall'Iran. Tuttavia il grande disegno americano significa ritornare al 1945 in un contesto in cui gli Usa essendo i maggiori importatori di capitale non possono più agire da coordinatori del capitalismo mondiale. Nell'intervista a Le Monde Ibrahim conferisce particolare importanza alla connessione Iraq-euro: «Le sanzioni erano terribili ma egli (Saddam Hussein, ndr) continuava a sfidare gli americani, in particolare suggerendo di sostituire il dollaro con l'euro nelle transazioni petrolifere. Donde la decisione strategica di riprendere le cose in mano. Voilà il grande disegno». A questo punto i giornalisti di Le monde chiedono come il grande disegno si applichi al petrolio. La risposta merita di essere riportata integralmente: «Si tratta di imporre i `valori americani' non soltanto politici ma anche e soprattutto economici. Si tratta di ritornare all'impresa privata, di distruggere le compagnie nazionali e di privatizzare il petrolio. Il che significa che Exxon ridiventa proprietaria del suo greggio, come era negli anni Cinquanta, che le riserve appartengono ad una delle società americane e non prestate o affittate come nel caso degli attuali contratti de ripartzione della produzione». Ora questi piani avvengono e non sorgono dal nulla. Il retroterra sia geopolitico che concretamente istituzionale è fornito dalla fine dell'Urss. Infatti, dice Ibrahim: «L'esempio viene dalla Russia ove, dopo lo sprofondamento dello Stato, il petrolio è stato privatizzato». L'occupazione colonialista dell'Iraq servirà da modello: «Verrà messo in sella un governo fantoccio il cui primo compito sarà di organizzare la privatizzazione del petrolio». Il processo escluderà i paesi europei e la monetizzazione della risorsa verrà effettuata in dollari per ottenere dei prestiti da parte della Banca mondiale. Questo è il vero significato delle spese per la «ricostruzione dell'Iraq». In un secondo momento Ibrahim individua la privatizzazione forzosa dei giacimenti sauditi dato che, di fronte a società private, diventa impossibile controllare la produzione. Dalla lucida analisi di Ibrahim emerge, per contrasto, la stolta cecità dei leader di quei paesi europei che inneggiano ad un'impresa che, oltre che ad essere assassina ed illegale sotto ogni aspetto, marginalizza l'Europa. Un processo iniziato con la prima guerra del Golfo ed, ahimé, acceleratosi con i bombardamenti ulivisti della Jugoslavia. " [MAN]


"Bush chiude l'oleodotto alla Siria
Rumsfeld annuncia la prima mossa di guerra degli Usa: il petrolio dall'Iraq è «illegale». Il presidente: «La guerra al terrore continua. La nostra vittoria è certa, ma non ancora completa». Ma sulla prossima tappa a Washington si discute ancora
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Un oleodotto che collega Iraq e Siria è stato chiuso dalle «nuove autorità» irachene. Lo ha annunciato ieri Donald Rumsfeld, il segretario della difesa americano, sostenendo che il petrolio che passava in quell'oleodotto era «illegale», ma è chiaro che si tratta di un ulteriore passo dell'escalation americana nei confronti della Siria, nonostante alcune incongruenze. La prima: ecco George Bush presentarsi ieri con un raggiante «questi sono giorni buoni nella storia della libertà». L'occasione era quella di annunciare il suo piano di ulteriori riduzioni di tasse. Ma innanzi tutto bisognava celebrare il modo in cui sono andate le cose in Iraq e Bush lo ha fatto con poche frasi scandite rapidamente, ognuna con la sua brava pausa per dare spazio agli applausi. «In Iraq il regime di Saddam Hussein non c'è più. Il mondo è più sicuro. I terroristi hanno perso un alleato. Il popolo iracheno ha ripreso il controllo del proprio destino». Tuttavia «la nostra vittoria in Iraq è certa ma non è ancora completa», quindi per la celebrazione «vera» bisognerà ancora aspettare e intanto parliamo del nuovo taglio di tasse. E la Siria? Su di essa neanche una parola, da parte del presidente, e il perché lo ha spiegato un servizio pubblicato dall'inglese Guardian. Secondo le notizie raccolte dal suo corrispondente a Washington Julian Borger, la faccenda siriana è cominciata alcune settimane fa con due ordini impartiti proprio da Donald Rumsfeld. Il primo, di rivedere «i piani contingenti riguardanti la Siria alla luce della conquista di Baghdad», era diretto ai comandi militari; il secondo, di mettere nero su bianco tutte le malefatte della Siria, i suoi rapporti con i gruppi terroristi e i suoi traffici riguardanti le armi di distruzione di massa, era diretto a Doug Feith, il suo sottosegretario addetto agli affari politici, e a William Luti, il capo dell'ufficio «piani speciali» del Pentagono. Feith e Luti, per chi non se lo ricordasse, sono stati fondamentali a suo tempo per «convincere» Bush che quello di attaccare l'Iraq era un imperativo categorico anche se i rapporti della Cia dicevano il contrario. Il successo da loro ottenuto è sotto gli occhi di tutti, per cui i due hanno preso a procedere esattamanete come con l'Iraq, mettendo insieme carte che inchiodavano Bashar al-Assad, il giovane rampollo del defunto presidente Hafez che ha preso il posto del padre, alle sue responsabilità di sostenitore di Hezbollah e della Jihad islamica. Questa volta però non ha funzionato perché Bush, già impegnato in due «nation building», l'Afghanistan e l'Iraq, non se la sentiva di metterne in piedi un altro in un tempo in cui si cominceranno a intravedere le elezioni. Ma Rumsfeld evidentemente non era felice di quello stop. E' da supporre che i suoi argomenti li abbia ripresi in tutte le occasioni possibili e così si è arrivati a domenica scorsa, quando Bush, nel mezzo della celebrazione dei sette soldati liberati, se n'è uscito con il suo sconclusionato (ma dal senso chiarissimo) discorso sulla Siria, poi a lunedì con l'uscita ufficiale di Rusmfeld e Colin Powell che adombravano le sanzioni diplomatiche ed economiche e ai nuovi interventi di ieri, ancora di Powell (e di Rumsfeld, con l'annuncio della chiusura dell'oleodotto) che quelle sanzioni le annunciano in modo più concreto. Poi si è aggiunta anche la Condoleezza Rice, con il suo «è ora di cominciare a pensare a un diverso tipo di Medio Oriente» che non promette niente di buono.

C'è stata la reazione del segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, che si è detto «preoccupato che certe dichiarazioni dirette alla Siria», e c'è stata naturalmente la reazione della Siria, il cui Consiglio dei ministri, in una dichiarazione diffusa ieri, sostiene che «il crescente linguaggio di minacce e accuse da parte di alcuni membri del governo americano contro la Siria hanno lo scopo di minare la nostra fermezza e di influenzare le nostre decisioni nazionali e le nostre posizioni nel mondo arabo». Inoltre, «il Consiglio dei ministro respinge quelle accuse e quelle false insinuazioni e vede in esse una risposta agli stimoli di Israele e un servizio alle sue mire di avida espansione».

Già, Israele. In questa storia siriana Ariel Sharon ci si è gettato in pieno con un intervista al Yedioth Ahronoth in cui dà praticamente del cretino a Bashar al-Assad. «E' pericoloso», dice. «Ha la capacità di giudizio limitata». Sharon naturalmente gongola perché con il mirino americano che si sposta sulle «violazioni» della Siria lui vede la possibilità di farla franca con le sue, di violazioni. Ieri a Ginevra la Commissione per i diritti umani delle Nazioni unite, per esempio, ha votato quattro risoluzioni contro le pratiche seguite dalle forze armate israliane e una di esse riguarda proprio l'occupazione del Golan. Dei 53 paesi membri della commissione, sono stati 31 a votare in favore della risoluzione sul ritiro israeliano da quelle colline, uno (gli Usa) ha votato contro e 21 si sono astenuti." [MAN]

"«In piazza pacifisti, ora conniventi»
Social forum e ong all'attacco dell'Ulivo che non vota: rispolverata l'ipocrisia della guerra umanitaria
ANGELO MASTRANDREA
Avevano chiesto all'opposizione «nessuna complicità con chi ha scatenato la guerra», si sono ritrovati con l'Ulivo ancora una volta spaccato in due, come in occasione dell'invio degli alpini in Afghanistan. Solo che questa volta tutte le forze politiche del centrosinistra avevano convenuto sulla illegittimità di un attacco unilaterale all'Iraq, e per questo risulta più difficilmente comprensibile quell'astensione che suona come un assenso all'invio di forze armate italiane nella regione, sia pur sotto spoglie definite «umanitarie». Tanto più che una fetta del centrosinistra, la stessa che si è astenuta, ha poi votato a favore della mozione Andreotti, non meno interventista. E l'irritazione, nel mondo delle ong impegnate nell'assistenza umanitaria alla popolazione irachena e nell'arcipelago pacifista, è palpabile, come dimostra la dura reazione del Forum sociale europeo, secondo il quale l'invio di truppe in Iraq è un «fatto di inaudita gravità» che trasforma l'Italia in un paese pienamente belligerante e appare come «un incoraggiamento all'amministrazione Bush a proseguire la sua guerra preventiva e infinita, avvicinando l'apertura di un nuovo fronte nei confronti della Siria». Per questo i pacifisti esprimono «sconcerto nei confronti di quelle forze politiche che, pur avendo partecipato alle manifestazioni per la pace, assumono oggi posizioni di connivenza con il governo, rispolverando tutto l'ipocrita armamentario ideologico della "guerra umanitaria e per la democrazia"». «Ma come, fino a ieri avevano detto che il ruolo dell'Onu era fondamentale, e oggi non si oppongono alla decisione unilaterale di inviare truppe in Iraq. Cosa è successo?», sbotta al telefono Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace, appena gli comunichiamo dell'avvenuto voto. Eppure, lui rappresenta un mondo che alla fin fine non si sarebbe opposto all'invio se deciso unitariamente dall'Unione europea, «perché avrebbe rappresentato un contrappeso allo strapotere americano». «Sarebbe bastato aspettare qualche giorno, fino al vertice Ue di Atene», invece è arrivato questo voto che «mina ulteriormente la credibilità dell'Italia alla vigilia dell'assunzione della presidenza Ue». E l'astensione del centrosinistra non rappresenta altro che «un cedimento alla logica del più forte», visto che il governo italiano non ha fatto altro che dare seguito alle richieste fatte da Bush alla vigilia della guerra. «Si presenta come umanitaria una missione che sarà di ordine pubblico. Ma per conto di chi? E poi, quanto ci costerà, chi pagherà e per quanto tempo durerà?», si chiede Lotti, per il quale l'Italia rischia di spendere di più per garantire la sicurezza degli aiuti che per gli aiuti stessi.


Tantopiù che chi già opera nel Golfo, e che avrebbe comunque rifiutato un appoggio governativo, come le ong che hanno aderito al Tavolo di solidarietà, ma anche il Forum del terzo settore, non sono state affatto contattate. Lo avessero fatto, avrebbero spiegato al governo Berlusconi che «le ong abituate a gestire situazioni di post-conflitto sanno che gli aiuti umanitari sotto scorta armata ingenerano diffidenza, paura e spesso reazioni incontrollabili tra la popolazione locale», come dicono i portavoce del Forum del terzo settore Edoardo Patriarca e Giampiero Rasimelli, e il presidente delle ong italiane Sergio Marelli. Che si preoccupano perché «la copertura finanziaria di questa operazione umanitaria non può essere distolta dalle già magre risorse stanziate per la cooperazione internazionale né essere garantita attraverso l'istituzione di una tassa straordinaria» e perché «la professionalità del personale da impiegare nelle missioni umanitarie non può essere ridotta alla sola esperienza tecnica, ma deve comprendere la capacità e l'esperienza di saper agire in contesti di post-conflitto», criteri con i quali sono selezionati i volontari delle ong impiegati in tali situazioni.

Senza considerare che proprio nelle ore in cui il parlamento italiano votava l'invio delle truppe da Amman partiva un carico di aiuti umanitari del Tavolo di solidarietà diretto a Baghdad, senza alcuna scorta armata. Ed è proprio dalle associazioni promotrici del Tavolo, considerato il «braccio operativo» del movimento no war, che arrivano delle critiche molto pesanti al governo. «Non è bello che chi divide la responsabilità di tante vittime si faccia poi bello del soccorso portato agli scampati. Invece ci sembra che il governo italiano stia mettendo in atto un intervento abborracciato, fuori dal coordinamento Onu e politicamente finalizzato», dice Fabio Alberti di Un ponte per. Di «strumentalizzazione al fine di militarizzare gli aiuti umanitari» parla invece Raffaele Salinari, presidente di Terre des hommes. Mentre per Giulio Marcon dell'Ics «l'invio del contingente italiano risponde alle logiche dell'occupazione militare in appoggio alla coalizione angloamericana, non della pacificazione e dell'aiuto alla popolazione irachena, che può venire solamente sotto il mandato delle Nazioni unite», e per questo «non collaboreremo con le forze militari italiane e con le forze di occupazione dell'Iraq e non accetteremo fondi dal governo italiano per gli interventi umanitari»." [MAN]


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