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Da Bishara a Warschawski: "Due popoli, uno Stato"
by Warschawski Tuesday April 22, 2003 at 11:16 PM mail:  

Il discusso testo dello scrittore israeliano rilancia il progetto binazionale. Il ruolo della sempre più numerosa comunità di palestinesi nello Stato d'Israele e la lotta di Azmi Bishara

Da Bishara a Warschawski: "Due popoli, uno Stato

"Il Terzo Millennio vedrà la nascita di uno stato palestinese. La cosiddetta Seconda Intifada non è altro che la guerra d’indipendenza palestinese, così come la violenza commessa dall’esercito israeliano e dai coloni non è che l’espressione sanguinaria dell’odio coloniale e vendicativo di fronte ad una rivoluzione di cui ben conosciamo gli inevitabili risultati. E non è la prima volta in mezzo secolo che una forza occupante si rivela sconfitta”.

Questo passo sembrerebbe scritto da uno scrittore palestinese fermamente convinto che Israele sarà sconfitto. L’autore è invece lo scrittore israeliano Michel Warschawski, fondatore e dirigente del Centro d’Informazione di Gerusalemme.

Il passo citato apre il suo celebre volume “Israël-Palastine: le défi bi-national”, uscito in Francia nel 2001, tradotto nello stesso anno in arabo e ristampato a Damasco dalla casa editrice "Iskandarun”. In molti hanno trascurato questo importante libricino e continueranno a non considerarlo anche dopo la fine della ri-occupazione israeliana.

Secondo Murid al-Barghuthi (il poeta che ha dato alla Seconda Intifada il nome di "Intifadatu l-Aqsa" [dal nome della Moschea di al-Aqsa su al-Haram ash-Sharif di Gerusalemme, ndt.]): "Sotto le macerie delle nostre case non è stato seppellito solo il nostro futuro ma anche quello di Israele". Michel Warschawski sposa questa tesi, e con il suo libro offre una piattaforma su cui intavolare uno scambio serio di domande e risposte, e tenta di osservare la questione da un punto di vista culturale più ampio.

Su cosa si fonda questa visione di cui parla Warschawski? Fondamentalmente su un dato cultural-demografico presente all’interno d’Israele: se da un lato i palestinesi-israeliani assediati dietro le linee del ‘48 stentano a far sentire la propria voce, dall’altro costituiscono una realtà cultural-demografica notevole. Essi rappresentano, infatti, il 22% degli abitanti israeliani e il loro tasso di natalità è due volte superiore a quello degli israeliani. A questo s’aggiunga il fatto che circa la metà degli immigrati giunti in Israele dall’ex Unione Sovietica non è ebrea né si considera tale. Questi sono infatti il 10% della popolazione, accanto ad un altro 8% di individui provenienti dal Sud-ovest asiatico, dall’Europa orientale e dall’Africa. Quello Stato che i padri fondatori volevano fosse “ebreo”, oggi si compone per il 40% di non ebrei.

Di questa minoranza, chi più soffre sono ancora oggi gli arabi-palestinesi: sono loro ad affrontare più di chiunque altro la xenofobia e il razzismo. Nonostante siano riusciti, dopo decenni di sanguinose lotte, a raggiungere delle posizioni nelle università, nelle società private (luoghi che erano un tempo interdetti agli arabi), negli organi d’informazione, nella Knesset [il Parlamento israeliano, ndt.], negli ambienti culturali e persino nelle squadre di calcio.

Tante le discriminazioni e le oppressioni subite: ci sono terre palestinesi date ad ebrei (come è successo a Ruha a pochi chilometri da Umm el-Faham, la seconda più grande città palestinese in Israele) e restituite solo dopo dieci giorni di violentissimi scontri. Allo stesso tempo, è sempre più evidente la necessità da parte degli abitanti palestinesi di Gerusalemme di ottenere dei permessi di soggiorno, mentre sono ancora frequenti i processi contro chi manifesta perché venga concessa una più ampia rappresentanza degli arabi-israeliani nella Knesset (valgano da esempi i casi di `Azmi Bishara e at-Tibi).

Ma i Palestinesi in Israele riemergono e questo fenomeno, secondo Warschawski “è stato accompagnato dall’emergere di nuovi punti di vista non solo tra i palestinesi, ma anche tra gli israeliani stessi. La nuova generazione dei palestinesi nati dopo la Nakba [il "disastro” del 1948, ndt.] non accettano più le briciole offerte dagli israeliani ed insistono oggi sul diritto all’eguaglianza e alla protezione della propria cultura.

Nel 1992 un gruppo di politici arabi ed ebrei, provenienti da ambienti di Sinistra, ha creato e presentato "la Carta dell’uguaglianza". Qui si chiedeva la trasformazione di Israele “da regime razziale a repubblica laica democratica” in cui non vi fosse alcuna discriminazione tra i cittadini. Si rivendicava anche l’autonomia della minoranza araba, che avrebbe dovuto anche ottenere gli strumenti adatti per condurre degnamente la propria esistenza.

In questo stesso contesto è nato in Israele un nuovo partito politico arabo, il Partito Democratico dell’Alleanza Nazionale, rappresentato nel parlamento israeliano da `Azmi Bishara. Quest’ultimo, tra i fautori della Carta dell’uguaglianza, così commentò queste rivendicazioni: "Chiedere un eguale trattamento dei cittadini, di tutti i cittadini, è una richiesta che contrasta con la natura sionista di Israele. Adottare questo progetto politico imporrebbe ai palestinesi-israeliani di combattere il sionismo e di rafforzarsi nella loro identità nazionale e culturale" (in Studi palestinesi, estate 1999).

L’“intellettuale combattente” Bishara spiegava così la “sua” Carta dell’uguaglianza ed ecco perché è stato messo sotto processo dagli israeliani, ed è per questo che ci troviamo a parlare di binazionalismo.

Secondo Warschawski, il sionismo si appresta alla sua fine attraverso tre diversi modelli:



1) il primo è quello non democratico, che mantiene un parte notevole di cittadini in una situazione d’oppressione. E’ un modello colmo di tensioni e di contraddizioni insanabili interne, persino tra gli stessi governanti.

2) Il secondo si basa sulla completa divisione tra "nazionalismo" e "stato", tra "etnos" e "popolo". E’ lo Stato che non si preoccupa dell’origine etnica o geografica dei suoi cittadini. E’ il sistema generato dalla Rivoluzione francese (che volle la costituzione di uno Stato composto da cittadini senza tener conto della loro appartenenza etnica o religiosa) ed anche quello teorizzato da Nelson Mandela.

3) Il terzo consiste in uno stato multinazionale che stabilisca la coesistenza di numerosi popoli (shu’ub) con proprie identità nazionali, e che riconosca la varietà di ciascuna nazionalità (qawmiyya) in un unico Stato.

E’ da questo terzo esempio che comprendiamo meglio il progetto binazionale, da cui è emersa la richiesta di uno Stato binazionale.

Per ora, lasciateci non credere molto all’idea di Stato binazionale e aspettiamo che sia messo alla prova, anche perché, come già detto, contrasta chiaramente con la filosofia sionistica: una filosofia che mira a smembrare, ad espellere, una filosofia che rifiuta il pluralismo e che si richiama all’unità etnica fondata sullo slogan "Uno stato, un popolo, una nazione, una cultura, un’ideologia". Lo stato, il popolo, la nazione, la cultura, l’ideologia sono ebraici, da un punto di vista politico prima che religioso.

Eppure, il semplice fatto che emerga la richiesta di uno stato binazionale rivela una profonda crisi all’interno di Israele, dove circa la metà della società ebraica rifiuta l’unicità dello Stato. E Warschawski ricorda come gli agglomerati arabi d’Israele sono luoghi in cui convivono cittadini di varie nazionalità diversamente da quanto accadeva fino a trent’ anni fa: "Haifa, Giaffa e Ramla -si legge- sono città cosmopolite e multiculturali dove convivono, israeliani, russi e arabi. Il sud di Tel Aviv è ormai un vero e proprio miscuglio etnico.". Ma se per molti i pensieri dello scrittore israeliano sono un sogno utopico, per altri sono un vero e proprio incubo, specie dopo quanto è accaduto negli ultimi mesi. Sharon, infatti, continua ad essere per uno Stato ebraico che dal Giordano arrivi al mare e promette di “rigettare i palestinesi dietro il Giordano”.


Ma Elias Sanbar, autore della postfazione con cui si conclude il volume di Warschawski, ricorda come l’idea del doppio nazionalismo è antica e risale agli anni ‘20 del secolo scorso, quando venne teorizzata da uno sparuto gruppo di intellettuali ebrei giunti in Palestina. L’idea del doppio nazionalismo –sostiene Sanbar- non è frutto della mente di `Azmi Bishara ma dalla “realtà della sua società".
M.H.

In rete si veda:

http://www.azmibishara.info/ : il sito ufficiale di 'Azmi Bishara per la "difesa dei diritti della minoranza palestinese in Israele" (in inglese)

http://www.adalah.org/ : "il centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele" (in inglese)

http://www.arabhra.org/ : il sito ufficiale dell' "associazione araba per i diritti dell'uomo" ovvero "associazione al servizio della minoranza arabo-palestinese in Israele" (in inglese)

http://www.arabhra.org/article26/factsheet6.htm : la situazione dei diritti umani dei bambini palestinesi in Israele (in inglese)

http://www.arabhra.org/wrap/wraphome.htm : rassegna della stampa palestinese in Israele del 2002 (in inglese)







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WARSCHAWSKI
by informazione Tuesday April 22, 2003 at 11:22 PM mail:  

ISRAELE-PALESTINA LA SFIDA BINAZIONALE
un "sogno andaluso" del XXI secolo

Edizioni SAPERE 2000 - Euro 9,90

Michael Warschawski, militante contro la guerra e tra i primi a rifiutare di combattere fuori dei confini di Israele (per questo è stato più volte imprigionato).

http://www.palestina-balsam.it/d15.html


IL SILENZIO DEL CAMPO DELLA PACE

di Michel Warschawski*

(Traduzione di Titti Pierini)

Il silenzio del campo israeliano della pace è stato ampiamente richiamato negli ultimi mesi sulla stampa internazionale, insieme al rientro di molti dei suoi principali esponenti al pantano da unità nazionale e al loro sostegno critico degli interventi criminali dell’esercito israeliano e del governo laburista (cfr. "Lettera aperta"). Anche i palestinesi hanno sottolineato questa tendenza e numerosi intellettuali e militanti politici hanno espresso la propria amarezza, se non l’indignazione. Gli amici di ieri sono diventati di nuovo nemici quando hanno prestato la loro reputazione per cercare di dare legittimità alla macchina propagandistica dei criminali di guerra.

I palestinesi hanno il diritto di indignarsi di fronte al comportamento di questi ipocriti e di denunciarne la mancanza totale di spina dorsale, dal punto di vista etico. Hanno anche il dovere di rivedere la loro collaborazione con il cosiddetto "campo israeliano della pace" e di porre nuove più drastiche condizioni per eventualmente rinnovarlo. Accanto alla collera manifestata dai palestinesi, è anche possibile cogliere un enorme disillusione, quasi un atteggiamento del genere da parte della stragrande maggioranza di questo campo non fosse prevedibile. Il disinganno è comunque il risultato dell’illusione di cui sono stati vittime molti palestinesi. Tale illusione è cominciata ad emergere fin dal 1982, quando parecchi palestinesi sono rimasti affascinati dalle centinaia di migliaia di israeliani che manifestavano contro i massacri a Sabra e Shatila. "In nessuna capitale araba si sono viste manifestazioni tanto grandi contro l’aggressione israeliana al Libano", erano soliti dire i militanti palestinesi, esprimendo così, a un tempo, la delusione per l’assenza di solidarietà nei paesi arabi e l’ammirazione stupita di fronte al nuovo delinearsi di un campo della pace in Israele. Senza dubbio tale fenomeno non poteva essere ignorato dal movimento radicale palestinese e andava inserito nella sua strategia politica. Ma senza illudersi né idealizzarlo.

E invece si è assistito al diffondersi sia dell’idealizzazione sia delle illusioni, specie agli inizi del processo di Oslo. Ogni israeliano che sostenesse il cosiddetto processo di pace era visto da molti palestinesi come un amico ed alleato. E più questi israeliani erano vicini al centro politicamente, più venivano considerati. Poca attenzione si dava alle motivazioni della maggioranza dei sostenitori israeliani del processo di pace, dei partner dei programmi "da un popolo all’altro", e non piuttosto al prezzo che erano (o non erano) disposti a pagare per la pace. C’era uno scarto clamoroso tra le rivendicazioni palestinesi di libertà ed autodecisione e i sogni israeliani di una vita separata. I palestinesi volevano diritti, mentre gli israeliani erano preoccupati per le percentuali di "terre cedute". I palestinesi aspiravano al rispetto e alla reciprocità, mentre gli israeliani riaffermavano il proprio atteggiamento paternalistico e di superiorità. Alcuni militanti e intellettuali palestinesi sono rimasti acciecati da questi nuovi "Amici dei Palestinesi", diventati per loro "il campo della pace israeliano" e loro alleati privilegiati. Ed ora si chiedono: "Dove sono le forze pacifiste israeliane? Dov’è la sinistra?".

Permettetemi di rispondere che la sinistra vera non ha aspettato un giorno per denunciare con forza i crimini dell’esercito israeliano, né per biasimare con chiarezza la completa responsabilità di Barak e del suo governo. In effetti, dopo la firma degli accordi di Oslo (se non da prima) questa parte del movimento pacifista non ha mai interrotto le sue iniziative contro il protrarsi dell’occupazione. Già nel settembre del 1993, "Gush Shalom" (il "Blocco della pace") aveva manifestato per l’immediato smantellamento delle colonie e per la liberazione di tutti i prigionieri. Negli ultimi sette anni, "Bat Shalom" e "Gush Shalom" hanno sistematicamente promosso campagne in favore della sovranità palestinese su Gerusalemme-Est. Da tre anni il Comitato israeliano contro la demolizione delle abitazioni, insieme a "Rabbi per i diritti umani" sono stati attivi contro la politica di pulizia etnica nella zona C. Quando "Peace Now" ("Pace ora") e il Meretz sostenevano la recinzione con l’argomento ingannevole "recinzione = separazione = pace", tutte le vere organizzazioni pacifiste hanno denunciato questo come flagrante violazione dei diritti umani e degli stessi accordi di Oslo. A queste iniziative per la pace si possono aggiungere le campagne sistematiche in difesa dei diritti individuali e collettivi dei palestinesi di "B’tselem" dei "Fisici per i diritti umani", del "Comitato pubblico contro la tortura" e di numerose altre organizzazioni israeliane dei diritti umani. Esse non hanno smesso la propria attività con la scusa che era in corso il processo di pace e, anche se molte di esse hanno investito le loro speranze nel processo di Oslo, perlomeno agli inizi, non hanno cessato di confrontarlo con la realtà, questa realtà di occupazione e di oppressione.

Per tute queste organizzazioni e per le migliaia di militanti intorno ad esse, la sollevazione palestinese non è stata una sorpresa e non era difficile sapere a chi attribuirne la responsabilità. Ed hanno reagito con la forza con cui potevano reagire: decine di manifestazioni, che raggruppavano a volte una dozzina, a volte qualche centinaio di partecipanti. Esse hanno fatto uscire articoli coraggiosi (di Tanya Reinhart, Huri Avneri, Haim Hanegbi, Yitshak Laor ed altri) sui giornali più importanti e hanno utilizzato Internet per inviare messaggi nel mondo. Hanno organizzato petizioni e visite alle famiglie delle vittime. Per più di un mese, si sono mobilitate giorno e notte per denunciare la violenza israeliana, per esprimere la propria solidarietà al popolo palestinese e difenderne i legittimi diritti.

La solidarietà e la difesa incondizionata del Diritto è ciò che ha motivato le vere forze di pace israeliane. Il rifiuto morale e politico di ogni forma di oppressione e di occupazione ha rappresentato la loro lotta da decenni. Per loro la pace vuol dire la fine completa dell’occupazione, e non feste di pace finanziate dall’USAID o dal ministero degli Esteri norvegese, mentre la recinzione smantella la società palestinese e i combattenti per la liberazione marciscono dietro le sbarre. Per questo erano in strada fin dal primo giorno dell’offensiva israeliana.

Tuttavia, mentre noi portavamo avanti la nostra lotta contro l’occupazione, il resto del campo israeliano della pace era occupato dalla normalizzazione. I prigionieri, le colonie, le demolizioni di case e la recinzione non lo riguardavano. La stragrande maggioranza dei sostenitori israeliani della pace non sono mai stati motivati dalla solidarietà con gli arabi, né da valori come il diritto dei popoli di resistere all’aggressione straniera: Sostenevano gli interessi di Israele, così come li capivano loro: non impegolarsi in guerre che non si possono vincere; proteggere l’immagine internazionale di Israele e i suoi rapporti con gli Stati Uniti; preservare il carattere ebraico e democratico dello Stato di Israele; e così via. Solo quando questi obiettivi sono in pericolo la tendenza principale del movimento israeliano della pace si mobilita di sua iniziativa. Altrimenti preferisce preservare il consenso nazionale e sostenere la politica del governo. Per questo agli inizi di una crisi non si vedrà mai la mobilitazione immediata di un grande movimento: non lo si è visto nel 1982, né nel 1987, né dopo il massacro di Haram el-Sharif nel 1990. Jamal Zahalka, il militante palestinese di Kafr Kar’a, una volta ha definito questo come "la sindrome del primo giorno": la prima reazione della tendenza principale del movimento della pace è quella di sostenere la politica ufficiale. Solo dopo, quando questa politica diventa sempre più intollerabile, cominciano il processo di dissociazione e la dissidenza. Nelle ultime settimane siamo stati testimoni del medesimo schema e possiamo prevedere che, se la crisi continua e si intensifica la pressione internazionale, aumenterà il numero delle vittime di parte israeliana, un numero crescente di Israeliani ritornerà a un atteggiamento più critico.

La recente decisione del coordinamento delle ONG palestinesi di porre fine alle "feste della pace" con i partner israeliani e alle altre iniziative "da un popolo all’altro" riflette una nuova sensibilità nei confronti della realtà del campo israeliano della pace e dei suoi limiti. La decisione dimostra la volontà di distinguere tra le organizzazioni motivate soltanto dalla normalizzazione della situazione senza reale cambiamento del rapporto con il popolo palestinese e quelle motivate dai diritti dei palestinesi e dalla loro lotta per la giustizia.

La pace non è una festa, ma il risultato di una lunga e difficile lotta per la liberazione e la libertà. In questa lotta il popolo palestinese ha alleati in Israele, non molto numerosi, ma motivati dall’integrità morale e dall’aspirazione alla giustizia. Essi non ricercano ricompense e celebrazioni di pace e non chiedono niente in cambio per quello che fanno. Vogliono soltanto essere in grado di guardare dritto negli occhi i figli e i nipoti, senza doversi vergognare, e poter dire loro: in nostro nome si è commessa ingiustizia e noi abbiamo fatto del nostro meglio per fermarla.

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Scheda

Le condizioni di collaborazione con le organizzazioni israeliane

(Dichiarazione del PNGO -Assemblea generale delle ONG palestinesi- pubblicata da Al-Quds, del 24 ottobre 2000).

Nel momento in cui l’esercito israeliano prosegue i suoi attacchi al nostro popolo e in cui i massacri riflettono l’estremismo e il razzismo israeliani della peggiore specie, in cui una massiccia campagna dei media israeliani cerca di deformare i fatti, la realtà e di stigmatizzare il popolo palestinese, la rete delle ONG palestinesi ha convocato un’Assemblea generale straordinaria la domenica 22 ottobre, per esaminare la situazione politica attuale. La riunione ha adottato le seguenti decisioni.

1. Il PNGO chiama tutte le ONG palestinesi a bloccare tutti i programmi congiunti e tutte le attività comuni con le organizzazioni israeliane, in particolare i progetti portati avanti nel quadro del programma "da un popolo all’altro", dell’Istituto Peres per la pace e del "programma di progetti congiunti" fondato dall’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (USAID), nonché tutti gli altri progetti tendenti alla normalizzazione con Israele.

2. Il PNGO chiama tutte le organizzazioni palestinesi, governative o meno, a bloccare immediatamente tutti i progetti regionali in cui ci sia Israele. Chiamiamo anche le istituzioni dell’Autorità palestinese a bloccare e boicottare tali progetti.

3. Il PNGO chiama le ONG palestinesi ed arabe a bloccare immediatamente tutti i progetti congiunti con le organizzazioni israeliane fino alla fine completa dell’occupazione dei territori palestinesi del 1967, inclusa Gerusalemme-Est.

4. Il PNGO chiama tutte le ONG palestinesi ad astenersi da qualsiasi rapporto e da qualsiasi lavoro con le ONG israeliana, finché queste non avranno pubblicamente annunciato il loro appoggio:

- al diritto del popolo palestinese di insediare il proprio Stato indipendente sulle sue terre occupate nel 1967 (Cisgiordania e Striscia di Gaza) con Gerusalemme come capitale:

- al diritto dei profughi palestinesi di rientrare nelle proprie case e di recuperare le proprie proprietà.

5. Il PNGO compilerà una lista delle organizzazioni palestinesi ed arabe che violano queste decisioni e la renderà pubblica regolarmente in tutte le comunità arabe e palestinesi.

6. Queste decisioni non si applicano alla cooperazione con i progetti di solidarietà promossi dalle organizzazioni israeliane per i diritti umani né alla cooperazione con le istituzioni israeliane che sostengono il diritto palestinese alla libertà, alla dignità e a una pace completa, giusta e stabile, che rispetti i diritti nazionali palestinesi.

Ramallah, Palestina, il 23 ottobre 2000

--------------

* Michel Warshawski, giornalista israeliano, è collaboratore dell’AIC. In Inprecor n. 452 del novembre 2000 è state pubblicata la sua analisi sull’inizio della guera d’indipendenza palestinese.







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Proposta di bandiera per la Palestina bi-nazionale
by Martin Buber Tuesday April 22, 2003 at 11:51 PM mail:  

Proposta di bandiera...
pacemo.jpg, image/jpeg, 550x400

BELLA EH?

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X buber
by indica Tuesday April 22, 2003 at 11:52 PM mail:  

grazie . Ciao

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