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[cronologie di guerra] 16.04.03 ventottesimo giorno
by blicero Wednesday April 23, 2003 at 03:05 PM mail:  

[cronologie di guerra] 16.04.03 ventottesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.

16 aprile 2003 : ventottesimo giorno
[fonti : quotidiani del 17 aprile 2003]

"La scia della guerra
Il generale Brooks ammette: a Mosul «abbiamo ucciso qualche iracheno» Il generale Franks visita Baghdad, tra emergenze e cortei anti-Usa Bush riscopre il ruolo dell'Onu: ora il paese è nostro, via le sanzioni Preso Abu Abbas, l'uomo della Lauro L'Italia ne chiede l'estradizione e i palestinesi la liberazione Carabinieri umanitari, Berlusconi snobba l'aiuto del centrosinistra" [MAN]

"Bombardato e curato
Alì Ismail Abbas, il ragazzino iracheno di 12 anni rimasto mutilato e ustionato a seguito di un raid aereo angloamericano, è stato trasferito per cure urgenti nell'ospedale kuwaitiano di Al-Babtain" [MAN]

"Tikrit nelle mani dei clan
Nella città di Saddam Hussein l'ordine è affidato a una decina di capi clan che controllano altrettanti quartieri. Dal canto loro gli amercani sono soddisfatti di non aver incontrato resistenza quando sono entrati in città, ma la popolazione li avvicina con diffidenza. «Un nuovo governo? Sì, purché sia iracheno e garantisca la pace», dicono in molti
GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD
La strada per Tikrit (circa 180 chilometri di autostrada) si è allungata. Il ponte che collega la capitale alla strada che porta al nord, verso Mosul, è stato distrutto dagli iracheni per impedire l'entrata degli americani da nord e costringe ora a una lunga deviazione. Lasciati alle spalle i resti della battaglia per impedire l'invasione - molti carri armati distrutti o abbandonati, mezzi militari e civili - ci si inoltra in una splendida oasi fatta di palmeti, coltivazioni, ville residenziali che poi lasciano il posto a povere casupole. La zona di Ghalbia sembra rimasta estranea alla guerra e anche all'occupazione, qui non si vedono segni di distruzione e nemmeno militari della coalizione. Ma appena superato il ponte che da Ghalbia porta verso Taramiya, il paesaggio cambia bruscamente: nel cielo solcato da minacciosi lampi - siamo investiti da un temporale che rende l'aria gelida - compaiono minacciosi numerosi Cobra, che volano bassi. Avvicinandosi a Tikrit, l'ultima città irachena a cadere sotto il controllo delle truppe anglo-americane due giorni fa, il traffico locale prima intenso si riduce quasi esclusivamente ai mezzi militari, colonne quasi ininterrotte di carri armati e blindati, e ai margini della strada un campo con migliaia di marines. L'occupazione militare qui è una realtà. Anche per gli abitanti. Alle porte di Tikrit, che prima ancora che la patria di Saddam lo era stata del condottiero musulmano Saladino, i posti di controllo si fanno pesanti. La coda delle macchine è praticamente bloccata. I marine fanno scendere tutti: gli uomini, compresi bambini, rivolti contro una rete, i giovani ritenuti più sospetti vengono fatti sdraiare a terra sul selciato, sotto la minaccia dei fucili puntati, vietato muoversi. Ma è anche vietato riprendere la scena, i soldati ci vengono incontro minacciosi. Superato finalmente il check point che ci permette di entrare in città, ci imbattiamo in una «caccia ai ladri» che sbarra la strada. Un gruppo di giovani armati di fucili e spranghe, ferma le macchine, controlla se trasportano refurtiva, dà qualche bastonata sul cofano e se l'autista non è sospetto può partire, altrimenti viene bloccato e se va bene privato solo della merce rubata, altrimenti anche la macchina viene data alle fiamme. Chi siete? Chi vi organizza? Qui non si tratta di «polizia islamica» come a Baghdad, è il capo clan che controlla il quartiere, sono dieci in tutto, a organizzare queste ronde. Dopo la fine del regime di Saddam, dicono, è iniziato lo scontro tra i vari clan per il controllo della città. Alcuni di questi giovani sono molto aggressivi, altri accettano di parlare. Dicono di essere tutti contro gli americani, molti rimpiangono Saddam che, dicono, era l'unico in grado di garantire loro la sicurezza. «Non solo gli americani ci hanno bombardato ma abbiamo dovuto subìre anche i saccheggi senza che loro intervenissero, all'università ci hanno portato via tutto, libri e quaderni compresi», dice uno studente. Non tutti sono pro-Saddam, per qualcuno va bene qualsiasi presidente purché sia iracheno e garantisca la libertà. Comincia una discussione, ma arrivano altre macchine, i giovani cominciano ad urlare e ad agitare minacciosi le loro armi.

Meglio allontanarsi, ma per proseguire si deve superare un altro blocco americano, sempre più minuzioso: meglio continuare a piedi anche per evitare la perquisizione della nostra macchina che prima siamo riusciti ad evitare, visto che l'autista nasconde sotto il sedile un kalashnikov. La situazione è desolante: carri armati ovunque con sullo sfondo le numerose statue di Saddam, per lo più a cavallo, che qui nessuno ha abbattuto, gli abitanti forse rispettano ancora il loro concittadino e gli americani hanno altro da fare. Anche ieri sera in città ci sono stati scontri, con un gruppo di kurdi arrivati dal nord, quattro morti, è stato il bilancio. Le strade sono pressoché deserte, un piccolo gruppo di persone circonda i marines, che per ingraziarsi gli abitanti hanno deciso di distribuire acqua con una autobotte, sono i pro-americani o semplicemente curiosi. Ma nessuno chiede l'acqua, anche se in città manca, così come l'elettricità. Passa anche una donna con la figlia, vuole solo tornare a casa. Un governo? «Sì, purché sia iracheno e garantisca la pace», risponde allontanandosi in fretta.

Gli americani dicono di essere soddisfatti: per entrare in città hanno trovato un po' di resistenza ma non molta e qui la popolazione, sostengono, è molto gentile. Forse quella che si rivolge a loro, perché invece la maggior parte per lo meno li ignora. Anche in questo gruppetto la maggior parte dice di volere un presidente iracheno. Avete sentito? chiediamo a un marine, gli iracheni saranno gentili, ma nel loro futuro non vogliono americani. «Anch'io non voglio rimanere qui, abbiamo portato loro la libertà, ma poi ce ne andremo». Ma quando? «Questo non dipende da me». Già.

Nell'unico bar semiaperto, dall'altra parte della strada, gli avventori che ci offrono un tè sono tutt'altro che concilianti con gli americani. «Se ne devono andare subito», dice un anziano. Lavorava nel centro comunicazioni lì di fronte, ora osserva il suo ex posto di lavoro distrutto dai bombardamenti. «Un centro comunicazioni è un obiettivo militare? E i ponti sono un obiettivo militare da distruggere?» si chiede sconsolato e dice di rimpiangere Saddam.

Ma Saddam dov'è finito? La domanda che si fanno tutti la rivolgiamo anche a loro, visto che molti ritenevano che si fosse rifugiato proprio a Tikrit. «Sarà nascosto da qualche parte, forse tornerà». E voi lo vorreste ancora come presidente? «Perché no?». Altri scuotono la testa, non sembrano molto d'accordo.

Ma Saddam non è nato proprio a Tikrit, ma a Owja, un villaggio poco lontano, finora inaccessibile. Se a Tikrit gli iracheni non appartenenti al governatorato di Salahuddin, così chiamato in onore di Saladino, non potevano entrare, a Owja entravano solo gli appartenenti allo strettissimo clan di Saddam, che godevano di un trattamento molto speciale. Dice la «leggenda» che persino i prezzi erano stati mantenuti gli stessi dei tempi migliori dell'economia irachena quando (nel 1990) per comprare un dinaro occorrevano 3, 5 dollari, l'ultimo cambio, prima dell'arrivo degli americani, era di 3.000 dinari per un dollaro, ma ora negli unici spacci aperti spesso i prezzi li fanno direttamente in dollari.

Il villaggio di Owja è stato completamente abbandonato. Nemmeno gli americani ci mettono piede. Entriamo in quello che era il palazzo di Saddam passando attraverso una strettoia che serviva per i controlli. In cima ad una collinetta coltivata a vigneti, aranci e orti, si trova il palazzo formato da due costruzioni: una serviva da abitazione e l'altra per gli incontri di lavoro, collegate da un corridoio colonnato. Davanti alla facciata degli archi, una colonna dorata e degli animali indefinibili estremamente kitsch. Nulla a che vedere con la sontuosità dei palazzi di Baghdad, anch'essi tuttavia rovinati dall'esorbitante culto della personalità. Anche questo palazzo, come gli altri, è stato bombardato e poi saccheggiato, ma non era stato svuotato, all'interno si trovano ancora tra cristalli rotti, tende strappate, materassi lacerati, divani semidistrutti anche quadri, libri - tutti politici e spesso dedicati al suo pensiero - e dischi. Comunque una testimonianza di uno scorcio di vita privata di Saddam Hussein.

Improvvisamente si sentono degli spari. Dalla collina non si capisce se sono vicini o lontani. Qualche nostalgico dell'ex rais o qualche ladro ancora in cerca di refurtiva? Comunque la nostra presenza non sarebbe gradita, meglio abbandonare i ricordi di Saddam. Agli iracheni la sentenza." [MAN]

"Aiuti, una rete in mano ai mullah
Una nuova generazione di mullah si occupa a Baghdad di difendere gli ospedali e di distribuire viveri e medicinali. Mentre in città cresce la protesta contro gli americani
VAURO
INVIATO A BAGHDAD
«Difendete il petrolio e le scuole e gli ospedali no» recitava un cartello, scritto in inglese, sostenuto da un irakeno, in un gruppo di 300-400 manifestanti riuniti sotto la moschea, sulla rotatoria, di fronte all'hotel Palestine, trasformatosi ormai in una sorta di affollatissima Disneyland, fatta di militari, giornalisti e giornalisti militari (quelli in uniforme), con tanto di bancarelle che vendono sigarette o kebab, all'interno del recinto di blindati e filo spinato che circonda l'area. Si contano ormai a decine, quotidianamente, le manifestazioni, spesso guidate dai mullah, che percorrono le strade devastate della città per andare a confluire davanti ai carri armati americani che presidiano lo Sheraton e il Palestine, nella speranza che l'eco della protesta, che chiede sicurezza, cibo, acqua, elettricità, la possibilità insomma di condurre una vita almeno compatibile con lo standard minimo di civiltà, raggiunga, al di là del filo spinato, le orecchie, spesso sorde, dei media internazionali. A distanza di poco più di una settimana dal collasso del regime è ormai evidente a tutti, qui a Baghdad, anche ai molti che riponevano speranze che la cacciata di Saddam aprisse una prospettiva di futuro migliore, che questa non è altro che una guerra di occupazione e delle più brutali. La città disastrata, abbandonata al caos, alle violenze, ai saccheggi, senza neppur un minimo tentativo da parte degli americani di restaurare una forma di amministrazione sociale che garantisca l'essenziale per la sopravvivenza della popolazione. Gli aiuti umanitari promessi e mai giunti, gestiti dai militari come un'arma di ricatto: gli aiuti arriveranno quando ci sarà la sicurezza e intanto non si fa nulla per determinarla, anzi si contribuisce a creare le condizioni perché ce ne sia sempre meno, alimentando, con l'arroganza dell'occupante, con insopportabili discriminazioni, con violenti e spesso indiscriminati interventi armati, il clima di odio e disperazione che sta soffocando la città. Sono i mullah, le autorità religiose, prevalentemente sciite (gli sciiti sono maggioranza nel paese) a farsi carico di ricostituire una rete di solidarietà ed organizzazione sociale che consenta alle persone di sopravvivere in questo sfacelo. Sono loro che organizzano i presidi per difendere gli ospedali e le scuole dal saccheggio, loro che si occupano, nelle moschee, della distribuzione di pasti caldi, sono i loro shebab (ragazzi) che tentano di garantire un minimo di sicurezza nelle strade. Chi ha parlato di scontro di civiltà dovrebbe chiedersi se è più civile chi cerca di riorganizzare gli ospedali o chi si preoccupa solo di presidiare in armi il ministero del petrolio (non a caso l'unico non saccheggiato). Le tante manifestazioni di piazza non sono che l'aspetto più evidente, ma forse meno importante, di una grande rete di consenso, costruita maglia per maglia, aiutando concretamente la popolazione, che i capi religiosi stanno tessendo e che costituisce di fatto il vero nuovo governo di una buona parte del paese. Gli americani sono visti sempre di più nella loro autentica veste, quella di stranieri occupanti. Non si può certo escludere che chi si sta facendo carico di amministrare civilmente quartieri e città intere, come Kerbala o al Ramadi, non pensi anche a come organizzarsi militarmente, specie in una realtà dove l'unica cosa che non scarseggia sono le armi. Sbaglia i conti chi crede e fa in modo che l'Iraq continui a dissanguarsi in una lotta tra fazioni interne, non c'è elemento unificante più forte di un nemico straniero sul proprio territorio. Il mullah che a Kerbala ha fatto sì che l'ospedale non fosse saccheggiato, che non fossero depredati i camion di medicinali di Emergency è un giovane, giovani sono anche molti mullah che ho visto occuparsi del Kindy Hospital qui a Baghdad. E' una nuova generazione di mullah che sta emergendo. Quello di Kerbala si chiama Osama. Intanto oggi i «nemici» kurdi sono entrati a Baghdad alla guida di tre camion con le insegne di Emergency, a portare un altro cargo. Sei tonnellate di aiuti in medicinali e materiali (materassi, cuscini, coperte eccetera) dall'ospedale di Emergency di Sulimanya al Kindy Hospital che è ormai in grado di tornare a funzionare a pieno regime. A riprova del fatto che non servono altri soldati in armi per proteggere inesistenti corridoi umanitari ma basta percorrere con rispetto e serietà l'unico percorso possibile, quello della solidarietà civile tra le persone che passa a distanza siderale da ogni tipo di logica militare e di potere. " [MAN]

"Fuoco amico, ucciso marine
Un militare del primo corpo di spedizione dei marines è stato ucciso ieri per errore in Iraq. I dati aggiornati forniti dal Pentagono parlano di 123 soldati americani morti nel corso del conflitto" [MAN]

"Vittime, conti a senso unico
Il Pentagono non fornirà cifre sulle vittime civili della guerra (1.254 per le fonti irachene al 3 aprile). La scusa è la «difficoltà» di attribuirle al fuoco Usa o nemico: la prassi è «contare solo i propri caduti»" [MAN]

"Mosul, di strage in strage
Nuova strage nella città del Nord: tre rapinatori uccisi dai marines. Il comando centrale ammette la strage di lunedì (7 morti). Ma «è stata legittima difesa». Il generale Franks entra a Baghdad. L'Iraq va in piazza contro le forze d'occupazione
S. D. Q.
Se l'arrivo, ieri a Baghdad, del generale Tommy Franks potrebbe segnare almeno simbolicamente la fine della guerra, il dopoguerra si mostra invece di sempre più difficile gestione. Anche ieri l'anarchia che regna nel paese e l'incapacità degli occupanti di amministrare l'ordine pubblico hanno mietuto le loro vittime quotidiane: erano le prime ore della mattina a Mosul, la città settentrionale ai confini con l'ex zona autonoma kurda già teatro l'altroieri di una strage provocata dai marines, quando una sparatoria ha lasciato sul selciato tre cadaveri. Secondo le fonti ufficiali - e in particolare il governatore filo-americano Mashaan al Juburi - i tre morti erano saccheggiatori uccisi dalle forze irachene. Ma rispetto alla precisa dinamica degli eventi le versioni appaiono discordanti: la televisione del Qatar al Jazeera ha riferito che i poliziotti iracheni avevano effettivamente individuato un gruppo di saccheggiatori e hanno esploso alcuni colpi in aria. A quel punto i marines si sarebbero fatti prendere dal nervosismo e avrebbero sparato ad altezza d'uomo, uccidendo tre rapinatori e ferendo diverse altre persone tra cui due bambini. Nonostante le dichiarazioni minimizzanti del governatore al Juburi («Mosul è sotto controllo - c'è sicurezza, acqua ed elettricità»), la situazione nella città appare estremamente tesa. Il ricordo della strage di martedì brucia, tanto più che gli americani - dopo una prima insostenibile smentita - hanno ammesso ieri di essere loro i responsabili dell'eccidio. Il generale Vincent Brooks, nel corso della consueta conferenza stampa quotidiana alla base di as Sayliya in Qatar, ha comunque sostenuto la tesi della legittima difesa. Secondo Brooks, al momento dell'insediamento del governatore al Juburi, «sarebbe stato scatenato un attacco vero e proprio, con spari diretti contro i marines e le forze speciali attestate nel palazzo». A quel punto, i soldati americani si sarebbero visti costretti ad aprire il fuoco sui rivoltosi, lasciando sul terreno un numero di cadaveri compreso tra sette (fonti Usa) o almeno quindici (fonti locali). In realtà, secondo le stesse ammissioni del neo-governatore filo-americano Juburi sarebbe stata l'incauta esposizione di una bandiera a stelle e strisce sul palazzo da parte delle forze Usa a far inferocire la folla, la quale avrebbe cominciato a tirare pietre - e non certo pallottole - sui soldati. Appare chiaro tuttavia che al Juburi, oppositore arabo che ha affiancato i peshmerga kurdi e gli americani nella presa della città, non gode di grande sostegno locale e potrà mantenere il suo posto solo grazie all'aiuto (armato) degli statunitensi.



Un esercito di goveranti-fantoccio

Ma Juburi è solo uno dei tanti Quisling locali che gli Stati uniti stanno cercando di piazzare a capo delle giunte cittadine. A Baghdad ieri Mohamed al Zubaidi, alleato del leader dell'Iraqi National Congress Ahmed Chalabi e molto vicino al governo Usa, si è autoproclamato capo dell'amministrazione della città. La cerimonia si è svolta assai significativamente all'hotel Palestine - quartier generale delle forze americane - alla presenza di un possente cordone di sicurezza di marines, onde evitare che la situazione potesse degenerare come accaduto l'altroieri a Mosul. Ma la presenza Usa non ha impedito ad alcune centinaia di sciiti di manifestare di fronte all'hotel il loro dissenso, gridando slogan come «Abbasso l'America» o «Sono gli iracheni che devono scegliersi il loro governo».

Una contemporanea - e assai più corposa - manifestazione degli sciiti si è svolta a Bassora, dove alcune migliaia di persone hanno gridato il loro «no» all'amministrazione cittadina insediatasi con l'appoggio dei britannici.



Il ritorno degli sciiti

La convinzione degli americani di potesri affidare a signorotti calati dall'alto che non hanno alcun seguito in Iraq - al Zubaidi ha già presentato una lista di 400 persone per il suo governo di Baghdad, tutti esuli - sembra destinata a scontrarsi con una feroce opposizione, in particolare da parte degli sciiti, che costituiscono la maggioranza della popolazione irachena e sono sempre stati maltrattati da Washington, intimorita da un eventuale aumento di influenza dell'Iran sciita nel paese vicino. Ieri è rientrato in Iraq dopo 23 anni di esilio il numero due del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri), Abdelaziz Hakim, ed è stato accolto in modo diverso dai vari esuli appoggiati dagli Usa che si stanno affrettando a tornare nel paese per impadronirsi di fette di potere. Al suo arrivo dall'Iran a Kut - nella parte sud-occidentale del paese - Hakim è stato salutato da una folla giubilante di migliaia di persone, che certo stride con l'indifferenza che ha incontrato alcuni giorni fa l'arrivo di Chalabi in Iraq o, ieri, l'entrata a Baghdad delle cosiddette Free iraqi forces, quei miliziani iracheni in esilio fatti addestrare dal Pentagono nella base ungherese Taszar.

L'ayatollah Muhammad Bakr, leader dello Sciri, ha convocato da Tehran dove ancora si trova, un raduno a Karbala (città santa sciita) per il 23 aprile, anniversario della morte dell'imam Hussein, che rappresenta l'episodio fondante dello scisma tra islam sunnita e sciita. E' lecito pensare che Bakr deciderà di approfittare dell'anniversario per rientrare a sua volta nel paese e aprire un altro caldissimo fronte nella gestione dell'Iraq del dopoguerra e del dopo-Saddam Hussein. " [MAN]

"«L'Onu può togliere le sanzioni»
Bush «riscopre» le Nazioni unite per la fretta di usare il petrolio iracheno
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
«Ora che il popolo iracheno è libero, l'Onu dovrebbe togliere le sanzioni contro l'Iraq»: non è una richiesta formale, per ora, ma una frase pesante di Scott McClellan, un «vice» portavoce di George Bush. Togliere le sanzioni, ha spiegato, è opportuno perché così «le normali relazioni di scambio» fra l'Iraq e il resto del mondo potranno essere riprese «il più presto possibile». La fretta deriva dallo sbloccare il petrolio iracheno, formalmente controllato e contingentato, con l'oil for food, dall'Onu. Ma c'è un problema: lo sconquasso che la «guerra illegale» degli Stati Uniti contro l'Iraq ha creato nella comunità internazionale e quindi nel funzionamento dell'Onu. Kofi Annan ha già spiegato che esistono procedure da seguire perché «ognuna di esse che viene ignorata costituisce un pericoloso precedente», e le procedure per togliere le sanzioni economiche decretate a suo tempo contro l'Iraq prevedono che gli ispettori tornino, trovino le armi di distruzione di massa e le distruggano (oppure che dichiarino che non ci sono). Ma questo significherebbe riconoscere all'Onu una funzione centrale nel dopoguerra iracheno e questo non sembra proprio nei programmi di Washington. Per ragioni ideologiche («Grazie signore per la morte dell'Onu», era il titolo di un articolo di Richard Perle, «teorico» di Bush), ma anche per ragioni di predominio: ora che «ha vinto» l'America sembra intenzionata a «punire», o a «riscoprire» a suo modo chi l'ha ostacolatata. L'Onu è al primo posto. Un esempio? L'Aiea (agenzia Onu per l'energia nucleare) ha già chiesto che i suoi ispettori tornino in Iraq a riprendere il loro lavoro e la risposta di Washington è stata il silenzio. Il suo capo, Mohammad El Baradei, ha ammonito gli Usa già due volte che la sua agenzia è «l'unica qualificata a compiere il lavoro di ricerca e distruzione dei programmi nucleari iracheni» (se ce ne sono), un primato che le viene dal trattato di non proliferazione di cui l'Iraq è firmatario.

Ma la risposta di Washington è stata il silenzio. El Baradei, si sa, è quello che ha sbugiardato la «denuncia» in pieno Consiglio di Sicurezza fatta da Colin Powell, secondo il quale c'erano documenti che provavano «il tentativo iracheno di acquistare uranio in Niger. «Abbiamo controllato quei documenti - disse El Baradei - sono falsi». Si scoprì che i documenti venivano dalle Intelligence americana e inglese. Powell non dimentica. " [MAN]

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