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[Cronologie di guerra] 18.04.03 trentesimo giorno
by blicero Wednesday April 23, 2003 at 03:33 PM mail:  

Cronologie di guerra[ 18.04.03 trentesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.

18 aprile 2003 : trentesimo giorno
[fonti : quotidiani del 19 aprile 2003]

"E adesso?
Parte dalle moschee la protesta contro i «liberatori» Dopo la preghiera del venerdì, migliaia di iracheni sfilano a Baghdad «contro l'occupazione americana»: gli stessi slogan di prima, con Islam al posto di Saddam Affari di famiglia negli appalti della ricostruzione: assegnato alla società super-repubblicana Bechtel un contratto privilegiato da 680 milioni di dollari Disarmo, l'Onu vuole prove prima di togliere l'embargo Blix: gli ispettori non sono al guinzaglio degli Stati uniti" [MAN]


"La Turchia batte cassa
Ankara vuole un ruolo chiave nella ricostruzione dell'Iraq e appalti. Secondo il premier Erdogan, la Turchia avrà «il suo posto nel mercato iracheno» e sarà da «modello per la democrazia irachena»" [MAN]

"Truppe d'appalto in azione
Gare segrete La Bechtel di George Shultz si aggiudica un contratto da 680 milioni di dollari per ricostruire le infrastrutture irachene. I suoi sub appaltanti potranno anche essere non americani
Modello `89 Con la «liberazione» e la «democrazia», arriverà anche la privatizzazione delle risorse irachene, e non solo del petrolio. Pronta una transizione «all' Europa dell'est»
ANGELA PASCUCCI
Sarà la Bechtel National Inc. a guidare la «ricostruzione» dell'Iraq. Per la modica somma di 680 milioni di dollari procederà a rimettere in piedi una buona parte delle infrastrutture del paese, centrali elettriche, reti idriche e fognarie, porti e aeroporti, ospedali e scuole e quant'altro è stato sconquassato e distrutto da guerre ed embarghi. La compagnia di San Francisco è stata prescelta dall'Usaid, l'agenzia Usa per lo sviluppo internazionale, in una ristretta e già selezionata cerchia di amici dell'amministrazione Bush, chiamati per tempo, e in modo quasi clandestino, a fare le loro offerte per partecipare al banchetto iracheno. Non per puro caso, la Bechtel annovera tra i suoi dirigenti George Shultz, ex segretario di stato di Ronald Reagan ancora oggi assai attivo e molto vicino alla Casa bianca anche in qualità di consigliere nel «Committee for the Liberation of Iraq». Né certo è casuale il fatto che il direttore generale della compagnia, Riley P. Bechtel, si trovi nell'Export Council del Presidente. Una fissa di famiglia, visto che un altro Bechtel, Steven, tra il 1970 e il 1973 si trovava nel Board dei consiglieri della governativa Import-Export Bank che aveva una particolare tendenza a concedere prestiti a quei paesi che sceglievano i servigi della Bechtel. Con questi agganci, come meravigliarsi che il gruppo sia uno dei più potenti degli Stati uniti, con estensioni in tutto il mondo, e già presente nella ricostruzione del Kuwait dopo la prima guerra del Golfo.

La scelta è stato un boccone amaro per altri amici, come la Parsons Corporation, grande rivale della Bechtel, che aveva però avuto una bella fetta in Bosnia e in Kosovo. Il suo asso nella manica, aver messo come subappaltante la Kellogg Brown & Root, sussidiaria della chiacchierata Halliburton del vice presidente Dick Cheney, stavolta ha fatto flop. Ma con tutto quello che c'è da fare in Iraq, qualcosa di sicuro si troverà anche per loro.

Vale la pena riportare il ringraziamento della Bechtel, che nel ricevere la notizia ha dichiarato di essere «onorata» della scelta dell'Usaid che le consente di «portare assistenza umanitaria, risanamento economico e infrastrutture per aiutare il popolo iracheno». Davvero commovente. A questa gara di generosità, come è noto, possono partecipare come gestrici dirette dei fondi solo imprese statunitensi doc, secondo quanto stabilito sin dal principio dall'amministrazione Usa. La Bechtel potrà tuttavia, a suo magnanimo giudizio, appaltare qualcosa «anche» ad imprese straniere. Purché, beninteso, facciano parte della coalizione dei «volonterosi». Meglio sarebbe però se coinvolgesse anche i locali, che potrebbero risentirsi di essere completamente tagliati fuori e magari pensare che davvero l'Iraq è diventata una colonia. All'inizio della settimana, il Dipartimento di stato ha convocato i diplomatici di alcuni paesi arabi, preannunciando l'avvio di questo mega contratto e incitandoli a preparare le loro offerte di subappalto.

La «ricostruzione» è dunque ufficialmente iniziata, tra la rabbia e le proteste degli iracheni che non sembrano finora apprezzare tanta generosità. Forse perché avvertono che la «liberazione» si sta trasformando, giorno dopo giorno, in uno scardinamento seguito da colossale vendita dell'intero paese e delle sue risorse. D'altra parte è difficile che abbiano avuto l'opportunità di ascoltare o leggere le pur numerose dichiarazioni sulla «necessaria» privatizzazione dell'Iraq, inscindibile dalla riconquistata democrazia e suo necessario completamento. Un processo per il quale i teorici dell'interventismo unilaterale e della «missione» americana evocano esplicitamente il modello applicato ai paesi dell'est europeo e all'Ex Unione sovietica dopo il 1989. «Un altro monumentale esperimento di transizione economica», per usare l'espressione dell'ultimo Business Week, avviato da Jay Garner e dal suo valoroso «Ufficio per la ricostruzione e l'assistenza umanitaria».

Chissà se comincerà a parlarne agli iracheni, attraverso i suoi spot pubblcitari, «The Voice of New Iraq», la radio del nuovo Iraq voluta dal Pentagono che ha cominciato le sue trasmissioni martedì scorso, prima pietra di un sistema mediatico, l'Iraq Media Network, concepito dalla nuova amministrazione civile, si fa per dire, statunitense.

Molti hanno affermato che era troppo restrittivo definire questa una guerra per il petrolio. Avevano ragione. Come ha scritto Naomi Klein nell'ultimo numero on line di The Nation, questa era anche una guerra «per l'acqua, le strade, i telefoni, i porti, le medicine. E se questo processo non viene fermato, "free Iraq" sarà il paese più venduto della terra». E cita il caso del deputato repubblicano Darrell Issa che ha avanzato una proposta di legge nella quale si chiede al Pentagono di installare in Iraq un sistema di telefonia mobile, il Cdma, usato negli Stati uniti ma non in Europa.

Per la serie «gli eroi della democrazia» non si può infine non ricordare Stevedoring Service of America, entrata nel cerchio degli eletti con un contratto da 4,8 milioni di dollari per il riavvio del porto di Umm Qasr. E' la società che ha il monopolio delle operazioni di carico e scarico in oltre 150 porti e la ricorda bene Milt Neidenberg nell'articolo «The battle for the bucks» (Più o meno, La battaglia per i bigliettoni, sul sito http://www.workers.org). E' la infatti la stessa che l'anno scorso ha convinto l'amministrazione Bush a usare la legge Taft Hartley per spazzare via la resistenza dei portuali della costa Ovest americana. Riuscendoci solo i parte. " [MAN]

"Al via la dollarizzazione irachena
Iniettati 50 milioni di dollari: 20 a testa per ogni impiegato pubblico
JOSEPH HALEVI
Così è arrivata la bella notizia che gli Usa inietteranno in Iraq 50 milioni di dollari nella forma di venti dollari a due milioni e mezzo di impiegati pubblici iracheni - fondi che vengono dai beni iracheni congelati negli Stati uniti. Nemmeno dopo la liberazione dell'Italia nel 1945 le forze alleate osarono soppiantare la moneta locale. Vennero istituite le Am-Lire con un orizzonte temporale definito. Il passaggio dalle bombe a grappolo sulla popolazione civile all'elargizione di venti dollari ad un gruppo selezionato della popolazione viene ufficialmente giustificato con la necessità di rilanciare l'economia del paese. Invece l'operazione deve essere vista sotto la sua luce reale. La conquista dei pozzi iracheni da parte degli Usa significa che il petrolio del paese non sarà più, com'è stato fino all'invasione, commercializzato in euro ma in dollari. In tale contesto la decisione di regalare dei dollari rappresenta sia un primo e sostanziale passo verso la dollarizzazione dell'economia del paese che l'accorpamento intorno alla moneta Usa di gruppi sociali che formeranno la classe compradora irachena pronta a seguire gli interessi di Washington. L'iniezione di dollari definirà il livello dei prezzi interni ed il valore della moneta locale la quale emergerà come moneta dei poveri svalutandosi rispetto al dollaro. Le esperienze della dollarizzazione si sono rivelate un disastro soprattutto sul piano sociale. L'Ecuador, un altro paese produttore di greggio, ne costituisce un esempio lampante. Da un lato abbiamo infatti un'economia completamente orientata verso l'estero dipendente dai flussi di capitale in entrata. Quest'economia si raggruppa intorno al settore petrolifero e finanziario. Dall'altro lato invece esiste un'economia locale povera, anzi poverissima, mediamente al disotto dei livelli di sussistenza completamente sconnessa dalla componente dollarizzata. Questo è il futuro che si prospetta alla stragrande maggioranza della popolazione irachena sotto l'occupazione americana. La scelta di elargire i venti dollari a testa agli impiegati pubblici rispecchia le discussioni apparse sulla stampa americana circa la visione che i falchi di Washington avevano dell'Iraq. Essi riconoscevano che dalla fine degli anni sessanta fino alla conclusione della guerra con l'Iran il paese era passato attraverso una fase di modernizzazione che aveva portato alla formazione di un ceto medio borghese impoveritosi con l'embargo.

Gli scenari concernenti il dopo Hussein comportavano la rivalutazione di tale ceto rispetto sia alle strutture del Baath sia alle moltitudini sciite profondamente disprezzate dagli Usa. Il cuore di tale ceto medio risiede nell'impiego pubblico che ingloba anche il personale tecnico del settore petrolifero il cui ministero non è stata saccheggiato dalla bande lasciate in libertà dall'occupante americano. Privatizzazione, dollarizzazione e classe dominante compradora, ecco il programma Usa per l'Iraq. " [MAN]

"«No Bush, no Saddam yes Islam»
Prima grande manifestazione ieri a Baghdad, in occasione della preghiera del venerdì. Di sciiti e sunniti. «Gli americani come i mongoli», dice l'iman al-Kubaisi. Il mistero sulla sorte di Saddam si arricchisce di un nuovo capitolo: la tv di Abu Dhabi trasmette un video dell'ex Rais che afferma essere stato girato la mattina del 9 aprile. Lo stesso giorno in cui i marines presero la città
M.M.
Nella prima grande manifestazione di forza dalla caduta del regime di Saddam, decine di migliaia di iracheni si sono riuniti ieri a Baghdad per protestare contro «l'occupazione» degli americani. Uno degli striscioni innalzati dalla folla diceva «No Bush, no Saddam, yes, yes for Islam». Inequivocabile. E' stata la maggior dimostrazione di nazionalismo iracheno finora, proprio mentre gli occupanti americani stanno lavorando per mettere in piedi un nuovo governo autoctono fatto da gente fidata (a cominciare dal cocco del Pentagono, il truffatore internazionale Ahmed Chalabi, che ieri ha gatantito un nuovo governo «entro settimane» e ribadito la voce del padrone: nessun ruolo per l'Onu nel post-Saddam).

L'occasione della protesta era la preghiera del venerdì, la prima dalla «liberazione» di Baghdad. L'officiante era un influente imam sunnita, Ahmad al-Kubaisi che dentro la moschea dedicata all'imam al-Adam, in piena Baghdad, ha attaccato duramente gli americani accusandoli di avere invaso l'Iraq per conto di Israele e di non essere molto diversi dalle «orde mongole» che invasero la Mesopotamia nel 656. «Questa non è l'America che conoscevamo, l'America che rispetta la legge internazionale e i diritti del popol». Popolo che è già stato «tradito» da Saddam Hussein che ha preferito «scappare». Gli organizzatori della manifestazione intorno alla moschea, poi sfociata in un corteo protetto da miliziani armati di kalashnikov, si dichiarano componenti di un «Movimento iracheno nazionale unito» e affermano di rappresentare sia la maggioranza sciita, esclusa dal potere e repressa da Saddam, sia la minoranza sunnita finora detentrice di tutto il potere. Momenti di tensione si sono vissuti quando nei pressi della moschea è apparso un manipoli di marines che tuttavia hanno avuto il buon senso di ritirasi e scomparire.

Questa manifestazione del nazionalismo iracheno e islamico deve avere impressionato (e preoccupato) i «liberatori» americani - e forse non solo loro -, anche se l'unico commento è stato quello del portavoce militare Usa al quartier generale del Qatar: «Ora che Saddam non c'è più gli iracheni hanno il diritto di dimostrare» ha detto il generale Brooks aggiungendo che loro - gli esportatori di democrazia - «vogliono trasferire l'amministrazione dell'Iraq al popolo iracheno il più presto possibile».

L'amministrazione forse - ma neanche quella, considerato che il proconsole sarà il generale-affarista americano Jay Garner e americani saranno i suoi 23 ministri -, grazie a Chalabi e soci. Il potere no di sicuro: quello - a cominciare dal petrolio - se lo terranno ben stretto Bush e il suo entourage petrolifero.

I «liberatori» guardano con una crescente preoccupazione la data del 23 aprile, la data in cui si concluderanno le celebrazioni degli sciiti iracheni per commemorare la morte dell'imam Alì, genero di Maometto e fondatore della Shia, nel 661, e quella di suo figlio l'imam Hussein, 19 anni dopo, uccisi entrambi dai sunniti. Il clou delle celebrazioni si svolgerà fra Najaf, dove c'è la tomba di Alì, e Karbala, dove Hussein fu ucciso in battaglia. Già ieri migliaia di uomini e donne sciite sono confluiti su Najaf per iniziare una marcia che poi il 23 li porterà a centinaia di migliaia fino a Karbala. Bandiere nere del lutto, bandiere verdi dell'Islam, le donne col chador in testa. Con Saddam la celebrazione del lutto sciita era proibita. Adesso, come ha detto giustamente il generale Brooks, possono dimostrare. Poi si vedrà.

A proposito di Saddam. Il mistero sulla sua sorte resta fitto e le voci si moltiplicano. E' morto, come ha affermato l'ambasciatore iracheno a Belgrado, senza peraltro fornire precisazioni? E' vivo? E, nel caso, dov'è? E' attendibile la storia riferita ad al-Jazeera da un uomo che si definisce come un ex agente del Kgb sovietico secondo cui Saddam sarebbe stato portato in salvo, in Siria, insieme ai due figli Udai e Qusay, dall'ambasciatore russo a Baghdad, in pieno accordo fra russi e americani?

Il mistero si è arricchito ieri dopo che la tv di Abu Dhabi ha mandato in onda un video in cui si vede un Saddam sorridente in mezzo a una folla festante che lui incita a resistere e combattere («alla fine vinceremo contro i corrotti e gli infedeli»). Secondo la tv sarebbe stato girato nel quartiere Aadhamiya di Baghdad addirittura la mattina del 9 aprile scorso: lo stesso giorno in cui i marines entrarono nella città. La versione è stata confermata da un giornale arabo di Londra. Al-Ayat scrive che la mattina del 9 aprile il Rais era arrivato alla moschea Azamai e aveva arringato la folla. Le reazioni degli americani sono prudenti. Secondo loro non è ancora da escludere la versione che dà Saddam morto nel bombardamento sul quartiere al-Mansur di Baghdad all'alba dell'8 aprile. Nel Qatar il capitano Upton ha detto che gli esperti analizzeranno le immagini ma che a suo parere si tratta «di una registrazione vecchia».

La caccia a Saddam continua e il Times di Londra scriveva ieri che le forze speciali Usa, che hanno (per ora) l'ordine di non attraversare il confine con la Siria, potrebbero fare «una eccezione» nel caso che avessero le prove che Saddam è in territorio siriano. Che abbia ragione «l'ex agente del Kgb» e quello sia il pretesto per regolare i conti anche con Damasco?

Perché al momento la grande caccia americana sia ai dignitari del vecchio regime sia alle famose armi di sterminio è stata fallimentare. Ieri i kurdi hanno preso e consegnato agli americani, vicino a Mossul, Samir al-Aziz al-Najem, un alto dirigente del partito Baath e uno dei 55 uomini «most wanted». E' il quarto a cadere in trappola, dopo due fratellastri di Saddam, Barzan e Watban Ibrahim Hassan al-Tikriti, e l'ex-ufficiale di collegamento con gli ispettori Onu, Amer Hammoudi al-Saadi. Ancora troppo poco ma sempre meglio che con le armi di sterminio. Di cui non si trova traccia, nonostante tutto il paese sia nelle mani dei «liberatori». Ieri il segretario alla difesa Usa Donald Rumsfeld è stato involontariamente comico affermando che probabilmente si troveranno solo se e quando non sarà qualche iracheno che dica dove si nascondano. O ancor più probabilmente quando arriveranno i mille ispettori che gli Usa hanno assoldato per trovarle. Il capo-ispettore Hans Blix starà facendosi delle belle, ancorché amare, risate. "[MAN]

"GUERRA
Ma in Iraq Bush che ha vinto?
TOMMASO DI FRANCESCO
E'spesso accaduto nella storia che i «no» più significativi contro l'arroganza del potere siano venuti piuttosto che da quelli delegati a farlo, da chi invece faceva semplicemente il proprio dovere. Non è la parabola di «Bartleby lo scrivano» di Melville che vogliamo ricordare, ma le parole di ieri di Hans Blix, il modesto capo-ispettore dell'Onu che, defenestrato dagli Stati uniti pronti a bombardre l'Iraq mentre cercava, e non trovava, armi di distruzione di massa, ora torna fra i piedi dell'unica superpotenza rimasta per dire che no, «noi non siamo al guinzaglio degli Usa». Magari a breve recederà da questa sua intransigenza, ma è sicuro che questo «no» è destinato a pesare. Giacché gli Stati uniti sono impegnati adesso, insieme ai paesi già al guinzaglio - in primis la Gran Bretagna, poi la Spagna e l'Italia, e il «nuovo» Est - a ripristinare una «legalità internazionale» formale dopo la guerra d'aggressione alla quale il diritto internazionale è stato apertamente contrario, fino all'ultimo. Fino all'ultimo, ma con troppe retromarce ora di quel pacifismo di interessi - gli stati, a partire anche da quelli europei. Ma con la guerra dei bombardamenti, la conquista e l'occupazione militare, non ci troviamo in una situazione di ripristino del diritto internazionale, ma al contrario alla sua devastazione totale. Mentre si assegnano appalti alle holding americane (ma vedrete, ci sarà posto per tutti) e si disbrigano le pratiche dell'Onu per sbloccare sanzioni e oil for food a beneficio delle multinazionali del petrolio Usa (ma anche lì il gioco si fa ricco per tutti), mentre le rovine sono ancora fumanti e si contano i morti civili (solo a Nassirya le fonti mediche parlano di più di 700 vittime civili accreditando l'ipotesi che viene da fonti Onu di circa 10mila civili morti, a proposito di guerra «breve e indolore»). Sono le fosse comuni scavate davanti agli ospedali sotto gli occhi di tutti e di cui nessuno parla più perché è chiaro come il sole che quelle sono la prova dei crimini di guerra della coalizione angloamericana. Il diritto internazionale ora può essere ripristinato solo denunciando l'occupazione militare dell'Iraq. Si chiede The Independent infatti: «Se le folle che si sono fatte vedere e credere applaudenti le truppe d'occupazione erano la testimonianza della giustezza della guerra, a che cosa corrispondono da ormai una settimana le folle che in tutto l'Iraq gridano agli americani di andarsene e che Bush è come Saddam?». Solo da questa risposta dipenderà la natura del dopoguerra, l'arrivo di aiuti umanitari, il riscatto vero della popolazione locale da anni di dittatura e ora da un'occupazione militare feroce che reprime e intanto distribuirà i nuovi libri di storia che ha stampato negli Stati uniti, per cambiare la memoria del Medio Oriente. Già il Medio Oriente. Non trovano bin Laden, non trovano, per ora, nemmeno Saddam Hussein, chi hanno trovato invece come terrorista internazionale? Abu Abbas, responsabile di un dirottamento e poi di una mediazione positiva 16 anni fa, amnistiato da trattati internazionali e perfino dalla Corte suprema d'Israele. E' davvero emblematico che nelle pieghe di Baghdad sia ritornata in primo piano la vera questione: quella della Palestina, dei Territori occupati da Israele a cui due Risoluzioni storiche dell'Onu chiedono, inascoltate da 34 anni, il ritiro. Ora la guerra, annunciano Bush e Sharon, porterà la pace in Medio Oriente. Ma davvero è credibile pensare che per risolvere la questione dei Territori palestinesi occupati militarmente bisognava occupare militarmente altri Territori, anzi il più ricco di petrolio dei paesi mediorientali, l'Iraq che ora possiamo chiamare: i Grandi Territori occupati? E non basta, sotto tiro è la Siria e il suo legame con gli hezbollah. Israele, che dovrebbe restituire - oltre ai Territori ai palestinesi - anche il Golan a Damasco, non si nomina mai. Basterà la lista dei ministri di Abu Mazen, che sorpassa Arafat? No, perché tutto dipende dal ritiro «reale» che Sharon deciderà, se cioè lo Stato di Palestina sarà un bantustan senza continuità territoriale, oppure un'autonomia statuale reale. Ma ora proprio Damasco chiama in causa Israele, chiedendo disarmo in Medio Oriente, per tutti, a partire dalle testate atomiche di Tel Aviv. Ecco che la spina palestinese è ancora lì nel dopoguerra barbaro che vogliono imporre non solo all'Iraq, ma al mondo intero. Un'ultima domanda. Che ha vinto la guerra di Bush che voleva «prevenire» un altro 11 settembre, ora che in Iraq dilaga la protesta islamista che dice a viva voce: «No Bush, no Saddam, yes yes for Islam»? " [MAN]

"Blix: «Non siamo al guinzaglio»
Gli Usa chiedono la fine dell'embargo, il capo degli ispettori non vuole fare da «certificatore»
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Lavorare sotto la direzione degli americani? «Non siamo cani al guinzaglio», risponde con tranquilla brutalità Hans Blix, il capo degli ispettori dell'Onu, alla sgomenta intervistatrice dell'Associated Press. Nella disputa fra gli Stati uniti che dall'Onu vogliono semplicemente che tolga le sanzioni contro l'Iraq in modo che loro possano commercializzare il suo petrolio e finanziare la ricostruzione, e gli altri paesi che invece vogliono che venga definito il ruolo delle Nazioni Unite, Washington si ritrova a fare i conti con questo signore svedese che si sta rivelando il meno malleabile di tutti. I paesi membri del Consiglio di sicurezza stanno aspettando che la richiesta di fine dell'embargo fatta da George Bush l'altro giorno durante un comizio venga trasformata in una azione concreta e intanto si sono riuniti l'altro ieri sera nella sede della rappresentanza francese all'Onu per discutere il modo di riaggiustare la spaccatura causata da questa guerra. «Vogliamo sapere cosa esattamente Bush ha in mente», diceva il vice ambasciatore tedesco, Hans Heinrich Schumacher, riferendosi a quell'espressione che Bush ha concordato a suo tempo con Tony Blair, «un ruolo vitale per l'Onu», che poi non è mai stata spiegata. «Sappiamo che i contrasti sono molti e molto forti - aggiungeva l'ambasciatore messicano Adolfo Aguilar Zinser, che è il presidente del Consiglio di Sicurezza per questo mese - ed è per questo che tutti dobbiamo fare uno sforzo straordianrio».

Di qui le consultazioni informali cominciate l'altro ieri sera e destinate a proseguire fino a martedì, quando ci sarà una riunione formale. Lì Hans Blix presenterà la sua relazione. Cosa dirà lo ha in pratica anticipato in varie interviste, ed è da supporre che piacerà molto a russi e tedeschi, che hanno espresso pubblicamente la loro intenzione di rimandare gli ispettori in Iraq il più presto possibile (i francesi si sono tenuti prudenti) e molto poco agli americani. Blix sosterrà infatti che «siamo pronti a tornare in Iraq in qualunque momento il Consiglio lo decida». Gli ispettori «sono ancora sotto contratto con noi. In questo momento sono a casa, ognuno nel proprio Paese. Ma in due settimane potranno essere sul posto». Il problema è che gli americani vogliono essere loro a trovare le armi «proibite» e poi, semmai, far «certificare» il loro ritrovamento dagli ispettori dell'Onu «per ragioni di credibilità», dice sornione Blix facendo finta di non sapere che in privato un po' tutti, all'Onu, si dicono alquanto sospettosi di eventuali scoperte americane. «Immagino - dice - che dopo avere girato il paese in lungo e in largo vorranno mostrarci ciò che hanno trovato. Ma noi non siamo cani al guinzaglio. Abbiamo un mandato del Consiglio di sicurezza e la nostra credibilità richiede che esprimiamo un giudizio indipendente».

Di fronte all'imbarazzante difficoltà che incontrano gli americani nel trovare le armi di distruzione di massa, neanche il compassato signore svedese riesce a nascondere una certa soddisfazione. «E' una prova della nostra credibilità. E' la prova che avevamo ragione e nulla finora ha dimostrato che ci sbagliavamo». Vuol dire che ritiene che quelle famose armi non ci sono? «Voglio dire che ora sono un po' più incline a credere a ciò che dicevano gli iracheni di quanto non fossi prima». " [MAN]

"VITTIME DI GUERRA: IRACHENI
L'ultima stima ufficiale irachena, prima della caduta del regime, era di 1.250 vittime civili. Associazioni accademiche e pacifiste fissano la cifra a un massimo di 1.900 vittime, fonti Onu parlano di diecimila morti. Sulle vittime militari, le sole stime sono quelle americane che parlano di 2.320 nemici uccisi.

AMERICANI
Dopo l'identificazione di due piloti di un caccia F-15 precipitato il 7 aprile, il conteggio ufficiale è di 127 morti, 110 dei quali in combattimento (gli altri, incidenti o «fuoco amico»). Due soldati americani sono ancora dispersi.

BRITANNICI
Sono 31 i soldati britannici morti durante la guerra, in buona parte per «fuoco amico». Gli ultimi tre sono morti in combattimento a Bassora il 6 aprile scorso.

GIORNALISTI
Con la morte in un incidente dei giornalisti televisivi argentini Mario Podesta e Veronica Cabrera, sono 13 i giornalisti che hanno perso la vita seguendo il conflitto in Iraq." [MAN]

"RAQ/CENTROSINISTRA
Quando la Politica va alla guerra
FRANCESCO MARTONE *
La trappola era pronta: prima di Atene, del vertice che avrebbe forse consacrato la nascita di un'Europa che potesse fare da contrappeso all'unilateralismo americano alla Robert Kagan, andava sferrato un nuovo fendente. Di fronte all'opinione pubblica angustiata dalle immagini di devastazione e sofferenza del popolo irakeno, andava operata l'ennesima operazione di manipolazione della realtà. L'alleato «non-belligerante» poteva finalmente saltare a pié pari nel carro dei vincitori. Nulla di strano: l'invio di truppe e di aiuti umanitari da parte dell'Italia rientra nel quadro strategico della operazione Iraqi Freedom, nella seconda fase dell'attacco, o meglio della conseguente occupazione militare del paese. Si trattava solo di attendere che il regime iracheno cadesse sotto i colpi della potenza militare anglo-americana. Il rischio di una tale operazione è evidente, basti ricordare il precedente dell'operazione Arcobaleno. L'aiuto umanitario non può essere inteso come addentellato di una politica estera basata sulla proiezione della forza militare. Come non poteva essere chiaro a chi ha baldanzosamente concesso un'apertura di credito al governo in vista del semestre italiano di presidenza dell'Unione, per essere poi trattato a stretto giro posta a pesci in faccia? Come non sospettare un' operazione ad arte per trascinare pezzi consistenti dell'opposizione «di governo», attratti dal miraggio della politica bipartisan, in una logica che fa a pezzi il multilateralismo, secondo linee di politica estera all'amatriciana? Fatto sta che l'illusione o la velleità della Politica con la P maiuscola fa oggi carta straccia di molti principi fondamentali. Primo fra tutti l'urgenza di rappresentare quella società civile tanto coccolata ma non ascoltata, in grado di proporre una valida alternativa all'invio di truppe a scorta di convogli umanitari. E dire che i canali e le opportunità per un approccio diverso, di giustizia, ci sono tutti. Mandare aiuti attraverso il canale multilaterale delle agenzie Onu, il Programma Mondiale per l'Alimentazione, l'Unhcr , la Croce Rossa e chiedere che alle Ong siano garantite le condizioni di agibilità e sicurezza per svolgere in autonomia il loro meritevole e coraggioso lavoro. Esigere che le forze occupanti , gli anglo-americani, prima di lasciare il posto ad una forza multilaterale sotto l'egida dell'Onu, siano chiamate a rispettare il diritto internazionale umanitario e le convenzioni di Ginevra aprendo corridoi umanitari, e non permetter loro di farla franca, assumendosene il compito inviando carabinieri o i soliti incursori d'elite. Che il Consiglio di Sicurezza o l'Assemblea Generale possano decidere a favore di un ritorno degli ispettori e di una amministrazione ad interim sotto l'egida delle Nazioni Unite che possa gestire l'emergenza e creare i presupposti per libere elezioni.

Invece per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con l'oggetto del contendere, semmai con dinamiche tutte interne di ansie da prestazione da realpolitik, una buona parte del centro sinistra è caduto o ha deciso di cadere nella trappola, dando tra l'altro prova di scarsa memoria. Nessuno si è ricordato che anche per l'invio degli alpini in Afghanistan il Ministro Martino aveva provato ad abbindolare mezzo Parlamento con il pretesto di garantire la scorta di aiuti umanitari? E che per qualche strana coincidenza quegli alpini sono stati mandati in realtà ad effettuare operazioni di combattimento? Così se ne va un altro brandello dell'art.11 della Costituzione, e l'onestà intellettuale di riconoscere che la pace non è concetto astratto o astruso, da usare secondo convenienza, ma cammino difficile che passa attraverso l'affermazione imprescindibile della giustizia e della legalità." [MAN]

"Arriva l'Esercito americano
Il marines resteranno a Baghdad fino a martedì, poi cederanno il controllo della capitale irachena alle truppe dell'Esercito Usa, ai 30mila uomini della Quarta divisione di fanteria in partenza dal Kuwait" [MAN]

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