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[Cronologie di guerra] 19.04.03 trentunesimo giorno
by blicero Wednesday April 23, 2003 at 04:11 PM mail:  

Cronologie di guerra[ 19.04.03 trentunesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.

19 aprile 2003 : trentunesimo giorno
[fonti : quotidiani del 20 aprile 2003]

"L'antipapa
Messaggio pasquale di Bush alla nazione Il presidente degli Stati uniti si incarica di interpretare «i disegni del Signore» Celebrando la sua guerra e la sua bibbia Intanto in Iraq milioni di sciiti si dirigono in pellegrinaggio a Kerbala A Baghdad se ne vanno i marines ma arriva l'esercito e gli Usa annunciano: manterremo quattro basi nel paese Preso il ministro delle finanze di Saddam" [MAN]

"SINISTRA
Dopo l'Iraq
GIULIETTO CHIESA
Il futuro dell'Europa sarà centrale per qualunque ipotesi di risposta organizzata e realistica all'offensiva fondamentalista che viene da Washington. Ma lo stato dell'arte ci mostra che il «ricucitore» della frattura irachena è niente meno che Blair, colui che più di tutti ha contribuito a produrla. L'ingresso in Europa dei dieci pasdaran a sovranità limitata rischia ora seriamente di dare un colore a stelle e strisce alle prossime deliberazioni europee. Infine il semestre che si apre sarà a guida italiana, cioè organizzato dal secondo protagonista della spaccatura europea. Stanti così le cose l'Europa sarà guidata allo sfacelo e aggiogata al carro di Bush. Le più alte cariche del nostro stato, incuranti di questo quadro, incoraggiano l'opposizione a una politica bipartisan, come se il prestigio del nostro paese potesse essere definito dal suo grado di acquiescenza alle volontà altrui.

Per quanto concerne l'opposizione, Margherita e maggioranza ds hanno fatto (specie nel voto sulla missione in Iraq) tutto quanto era in loro potere per adeguarsi alle posizioni di Berlusconi. Cosa si propongono? Non certo di raccogliere voti a destra. Quelli, su quelle posizioni, li prende Berlusconi in ogni caso. Forse si propongono di evitare elezioni anticipate, dalle quali temono, giustamente, di uscire frantumati. Ma nemmeno in questa recondita ipotesi possono sperare clemenza.
L'emissario dell'imperatore non concede spazio. Se sa di poter «spegnere» il nemico, lo spegne. Per fare una politica bipartisan bisogna essere in due e Berlusconi non fa regali. Ma l'opposizione di centrosinistra non si dà per vinta e insiste, conservando il silenzio, compiacente, anche di fronte a un capo del governo che viola tutte le regole della politica. E' in questo contesto che la maggioranza dell'opposizione ha deciso di spezzare i rapporti con il movimento democratico contro la guerra e, con ciò, anche con una parte molto ampia del proprio stesso insediamento elettorale. In cambio di nulla, apparentemente. Un ennesimo suicidio, apparentemente, poiché in questo modo nessuna vittoria è possibile, né nell'immediato, né in una prospettiva più lunga.

Tutto ciò è talmente evidente che non è possibile supporre che non sia stato visto da vecchi marpioni come D'Alema e i suoi luogotenenti. Dunque questa sconfitta programmata a cosa punta? A una conservazione «assicurata» di una fetta, sebbene sempre più ridotta, di spazi parlamentari e di governo locale. E a una prospettiva, su quelle basi esigue, di compartecipazione al potere degli altri, nell'ambito di una nuova vittoria di Berlusconi, in posizione e collocazione di un centro-centro-sinistra (con qualche pennellata di centro-destra), cioè con una specie di liberal-socialismo già velocemente ribattezzato come riformismo. Tutto un vocabolario di parole che hanno perduto ogni significato.

Definire tutto ciò un tradimento nei confronti del popolo democratico è banale, inadeguato e anche un po' «retro». Questo tradimento, del resto, è già stato consumato da tempo, anche se non era facile registrarlo e capirlo da quei milioni di sostenitori che non volevano perdere ogni speranza, sempre più sfiduciati comunque da un'opposizione sempre meno degna di questo nome.

Dunque non di tradimento si deve parlare, ma di un giudizio sulla situazione - che costoro sembrano avere istintivamente metabolizzato - così assolutamente privo di prospettive da non contenere più alcuna via d'uscita se non la resa. Ci si accinge dunque a piegare la schiena sotto la bufera scatenata dai «trozkisti» della rivoluzione permanente che hanno preso il potere a Washington. Tutti nel solco tracciato dalla spada di Bush, anche a costo di sacrificare la Costituzione (non solo l'articolo 11, già seppellito in modo bipartisan), l'Europa, le Nazioni unite.

Sono loro i veri catastrofisti, che hanno già proclamato la resa. Bisogna dunque lasciarli soli a consumarla, senza perdere altro tempo. Inutile attendere che producano altre rotture, perché quella essenziale l'hanno già prodotta. Sergio Cofferati dovrebbe rompere un indugio che è certo segno di grande responsabilità per gl'interessi della democrazia e del paese, ma non può più dare frutti e, anzi, rischia - se prolungato - di produrre danni. Occorre lavorare adesso, da subito, per costruire un altro e nuovo punto di aggregazione politica, democratico e di sinistra, laico e cattolico, che non escluda nessuno di coloro che sono contro la guerra di Bush, e che punti a unire sul serio tutti coloro che vedono la tragedia incombente e vogliono evitarla." [MAN]

"Iraq, poliziotti in outsourcing
La Dyncorp Contratto da 22 milioni di dollari per rifare la polizia, così gli Usa privatizzano l'ordine pubblico iracheno
I precedenti Accuse di traffico d'armi, donne e passaporti in Kosovo e in Bosnia Ma i «private military contractors» hanno l'immunità
JOHN ANDREW MANISCO
L'anarchia, i saccheggi, le violenze che si registrano quotidianamente in Iraq insieme alle difficoltà delle forze combinate di marines ed ex funzionari della polizia di Saddam nel ristabilire l'ordine nel paese rivelano, ha dichiarato un funzionario del Pentagono al New York Times, come ci sia «bisogno di qualcosa di più aziendale ed efficiente con più chiare direttrici di comando e responsabilità». E così la Casa Bianca ha affidato per un anno un contratto esclusivo di 22 milioni di dollari alla società Dyncorp per creare una forza di polizia irachena. Si stima che negli anni successivi il totale del contratto potrebbe raggiungere il mezzo miliardo di dollari.La Dyncorp è tra le più potenti società private statunitensi appartenenti alla crescente galassia dei private military contractors (appaltatori militari privati), aziende che vendono «servizi» militari e amministrativi al Pentagono e al dipartimento di Stato. Sono mesi che da uno dei suoi uffici vicino a Fort Worth, Texas, la Dyncorp arruola poliziotti in servizio o in pensione per prestare servizio in Iraq. La campagna di arruolamento offre lavoro a «individui con esperienza e competenza per partecipare ad uno sforzo internazionale per ristabilire funzioni di polizia, di giustizia e carceri nell'Iraq post-conflitto». I candidati devono essere cittadini americani con un minimo di 10 anni di servizio giurato nelle forze di polizia statunitensi, non è necessario conoscere l'arabo, saper guidare un veicolo senza cambio automatico invece sì. Il salario offerto è di 80.000 dollari all'anno più un «bonus pericolo», e i contratti di assunzione vanno da tre mesi ad un anno. La Dyncorp spera «di avere persone sul territorio entro due, al massimo quattro settimane». Il problema (non certo per l'amministrazione Bush) è che dipendenti dell'azienda sono stati in passato accusati di aver trafficato in prostitute, commercio di armi e frode mentre prestavano servizio nelle forze di polizia dell'Onu in Bosnia e nel Kosovo. Il 26 novembre 2002 un tribunale inglese ha ordinato alla Dyncorp di pagare circa 71.500 euro alla signora Kathryn Bolkovac per licenziamento ingiustificato. La Bolkovac era stata assunta dalla Dyncorp nel 1999 per prestare servizio come controllore Onu della polizia internazionale in Bosnia. Venne licenziata quando denunciò che addestratori della polizia della Dyncorp frequentavano discoteche dove ragazze di quindici anni venivano costrette a ballare nude e prestare servizi sessuali ai clienti e che personale dell'Onu era coinvolto in un traffico di prostitute. La Bolkovac ha dichiarato di essere stata licenziata perché le sue denunce mettevano in pericolo il «lucroso contratto» della Dyncorp. «Ero disgustata, atterrita, indignata», ha dichiarato la Bolkovac. «Dovevano essere lì per aiutare, ma commettevano crimini loro stessi. Quando ho informato i supervisori, non volevano sentire o sapere».

Nel 2001 un altro impiegato della Dyncorp, Ben Johnson, meccanico per gli elicotteri del Pentagono Apache e Black Hawk nel Kosovo, ricorse a un tribunale del Texas contro il suo datore di lavoro. Johnson afferma di aver scoperto verso la fine del 1999 che «impiegati e supervisori della Dyncorp erano coinvolti in comportamenti perversi, illegali ed inumani, commerciavano illegalmente in armi, donne e passaporti falsi». La causa aggiunge che «Johnson era presente mentre colleghi e supervisori letteralmente compravano e vendevano donne per il proprio piacere (tra cui una bambina di 12 anni), che impiegati della Dyncorp si vantavano della giovane età e delle prestazioni particolari delle schiave che avevano comprato». A Insight Magazine, Johnson ha descritto in questo modo la compagnia da cui era stato licenziato: «La Dyncorp è veramente immorale, violano qualsiasi regola che riescono a violare». «Lo slogan della Dyncorp in Bosnia - continua Johnson - è: a noi non serve altro che un corpo caldo».

Poche settimane dopo la sentenza del tribunale britannico a favore della Bolkovac, la Dyncorp ha raggiunto un accordo extragiudiziario con Ben Johnson. A parte due o tre articoli usciti sui grandi media, di questi fatti non si è più parlato negli Stati uniti. Alcuni degli accusati vennero licenziati dalla Dyncorp ma non processati perché il contratto (ancora in vigore) è sottoposto alle condizioni dell'accordo di Dayton che garantisce l'immunità ai dipendenti dei vari «private military contractors» operanti in Bosnia Herzegovina o nel Kosovo. La Dyncorp ha tuttora 450 poliziotti americani in sevizio presso l'Onu in Bosnia.

Fondata nel 1946 da piloti veterani della seconda guerra mondiale con il nome di California Eastern Airways, la compagnia aveva iniziato con la gestione di aerei da carico per il Pentagono. Grazie a buoni contatti militari, ottiene appalti per trasportare rifornimenti e truppe americane nella guerra di Corea. Durante la guerra del Vietnam, la Dyncorp aveva tremila impiegati dislocati nel paese, con funzioni di manutenzione degli elicotteri Huey e altri aerei militari. Negli ultimi anni la Dyncorp ha ricevuto una miriade di contratti dal governo Usa: la gestione di cucine di campo per i soldati americani acquartierati in giro per il mondo, il mantenimento di tutti i dati del dipartimento di giustizia americano, la manutenzione di tutti gli aerei «executive» del governo americano compresi l'aereo del vice presidente e gli elicotteri del Presidente, la gestione diretta di campagne aeree di eradicazione della coca in Colombia, Bolivia e Perù, il trasporto e la manutenzione di materiale bellico e di apparati di comunicazione ai ribelli nel sud del Sudan, il servizio di sicurezza privata per il presidente afghano Hamid Karzai, la gestione di basi di addestramento per le forze armate della Gran Bretagna in Inghilterra, la compartecipazione con altre aziende americane nello sviluppo di vaccini, antidoti chimici e antitossine per difendere il territorio americano da attacchi terroristici biochimici, persino la gestione delle riserve petrolifere strategiche d'emergenza degli Stati uniti.

Già prima di ottenere il contratto per mandare poliziotti americani in Iraq, la Dyncorp ne aveva un altro per garantire con appositi guardiani armati la sicurezza per le installazioni delle forze armate Usa nel Qatar. Il contratto impone alla Dyncorp di creare un proprio programma di controllo di qualità, e malgrado l'impegno a incontrare periodicamente le autorità governative americane, permette alla stessa compagnia di applicare «procedimenti per azioni correttive indipendenti dalla direzione governativa». Il contratto autorizza i dipendenti ad usare «deadly force», cioè a uccidere, e ad aver accesso a informazioni segrete.

Il segretario alla difesa Donald Rumsfeld vuole rendere sempre più flessibili, veloci e tecnologicamente avanzate le forze armate americane, per questo gli appaltatori militari privati avranno un ruolo sempre più importante in questa strategia di guerra permanente. Per rendersi conto dei cambiamenti già avvenuti basta paragonare tra loro due dati: nella prima guerra del Golfo il rapporto tra impiegati privati e soldati era di circa 1 ogni 50-100, nella guerra appena terminata il rapporto è di un impiegato privato ogni 10 soldati. Un più importante vantaggio di questa strategia lo ha spiegato la parlamentare Janice Schakowsky dell'Illinois: «I contribuenti americani stanno inconsapevolmente finanziando una guerra privata con soldati privati. Come riuscirà mai a sapere per che cosa vengono usati i suoi dollari? Se esiste la possibilità di un nuovo "incidente del Tonchino" privatizzato, allora il popolo americano ha il diritto ad avere un dibattito pubblico su questa nuova strategia prima che essa continui». E poi ha chiesto: «Stiamo appaltando questi servizi per evitare uno scrutinio pubblico, controverso e imbarazzante sulle attività del nostro governo? Per nascondere ai media i sacchi di plastica che contengono i caduti di guerra e così proteggerli dall'opinione pubblica? O non è per garantire l'irresponsabilità giuridica, la «deniability», grazie al fatto che questi appaltatori militari privati non sono soggetti alle stesse regole dei soldati delle forze armate?»

Il 7 marzo 2003 la Dyncorp è stata comprata dalla Computer Sciences Corporation, un'azienda aggiudicataria di munifici contratti per sviluppare il sistema delle «guerre stellari» voluto da Bush. I dirigenti delle due compagnie prevedono ricavi fino a 6 miliardi di dollari dai contratti con il governo federale. Insieme, le due società hanno circa 40.000 impegati e prestano servizi al governo americano in 750 luoghi nel mondo. Il presidente della Dyncorp, Paul Lombardi, ha spiegato le ragioni per cui era così favorevole a questa fusione dei due colossi del complesso militare industriale americano: ottenere nuovi contratti federali dopo l'11 settembre e dopo la creazione del nuovo ufficio della Homeland Security, della sicurezza interna. «Siamo veramente una centrale di forza motrice nella trasformazione del governo federale. I contratti offerti sono immensi - ha dichiarato Lombardi al Dallas Business Journal - una compagnia sola non può avere tutto. Stiamo assistendo ad un vero consolidamento industriale». Lombardi continuerà a dirigere la Dyncorp (privata) per altri sei mesi. Poi è già pronto un posto da dirigente nella nuova agenzia (pubblica) dell'Homeland Security. " [MAN]

"Embargo, effetti collaterali
Le sanzioni hanno distrutto il ceto medio e favorito Saddam Hussein
Liberatori? Un saggio del professor Gianni Viaggi si chiede come gli iracheni possano accogliere gli Usa - responsabili della loro situazione attuale - come liberatori
EMANUELE GIORDANA*
«Dovremmo riflettere non solo sulla guerra di bombardamenti aerei che ha devastato in queste settimane l'Iraq, ma su cosa hanno significato 12 anni di sanzioni per il Paese. Magari per comprendere che hanno distrutto i segmenti più importanti della società irachena, quelli che potrebbero essere vero veicolo di democrazia. Hanno umiliato le università, i centri di ricerca e quindi quelli di dibattito. E hanno invece favorito la ristretta élite del potere e quella criminale del mercato nero. Io credo che la lezione da trarre sia quella che, per colpire veramente un regime dispotico, bisogna fare l'opposto: aprire, aprire, aprire: alle merci, ai saperi, ai contatti. Questo forse andava fatto in Iraq se si voleva colpire Saddam Hussein». È con una provocazione che Gianni Viaggi commenta un suo lavoro ancora inedito che ha preparato su 12 anni di embargo in Iraq. Viaggi è docente alla Scuola europea di studi avanzati in Cooperazione e Sviluppo all'Università di Pavia ed è stato in Iraq diverse volte. Ha tentato un'analisi «qualitativa» degli effetti dell'embargo. Nel suo breve saggio non ci sono numeri, né la tragica contabilità della morte. Ma forse c'è qualcosa di più duro: l'analisi della fine spietata di una società. Il cuore del suo ragionamento gira attorno al fatto che l'embargo, modificando completamente un regime economico, colpisce soprattutto la classe media, i funzionari pubblici e anche una fascia importante di piccoli commercianti di quartiere. Colpisce più la periferia che il centro (dunque meno Bagdad rispetto ad altre zone del Paese) e concentra la ricchezza in poche mani, quelle del mercato nero e del potere politico. Riesce bene a farlo soprattutto in una situazione come quella irachena, un'«economia del sultano», nella quale ogni suo ramo è sottoposto e viene gestito dalla famiglia di Saddam. L'embargo che dovrebbe colpire il sultano - argomenta Viaggi - fa invece scattare una sorta di comma 22, per cui maggiore è la pressione delle sanzioni, maggiore è il beneficio che ne trae la cricca di potere.

«Lo sviluppo culturale e democratico di un paese - scrive - dipende in larga misura dall'espandersi della classe media e dal miglioramento delle sue condizioni di vita» e «l'emergere di una classe media urbana è spesso il fattore che fa da ponte fra la società tradizionale del passato e il futuro» anche per «controbilanciare lo strapotere della borghesia dominante e dare vita a un tessuto di partecipazione politica». Ma l'embargo ha distrutto il «capitale sociale» del Paese, quell'insieme di norme e legami «basato sulla fiducia reciproca che tanto sembra beneficiare il funzionamento dei mercati». Si domanda dunque Viaggi come una popolazione ormai disillusa, rassegnata e incerta sul suo futuro, possa accogliere come liberatore chi è all'origine della sua situazione attuale, avendo imposto le sanzioni (e, aggiungiamo noi, 12 anni di bombardamenti nel Sud).

In questi giorni in cui si discute del futuro dell'Iraq, il saggio di Viaggi sembra quanto mai attuale. Si interroga sul futuro di un paese che l'idea del protettorato americano sembra immaginare come una tabula rasa. Dove 12 anni di sanzioni non avrebbero pesato. Forse riflettendo sul recente passato, i neo conservatori del Pentagono potrebbero in parte spiegarsi come mai la popolazione civile non esulta per l'arrivo dei «liberatori»." [MAN]


"La «rivoluzione strategica»
Quando le truppe d'invasione si saranno ritirate dall'Iraq, gli Usa manterranno quattro basi militari permanenti: indiscrezioni del Pentagono delineano la conseguenza a lungo termine dell'invasione. Arrestato l'ex ministro delle finanze del vecchio regime. Baghdad ancora senza luce
Solidarietà Il simbolo della pace sventola dai balconi dell'ospedale, esposto da medici, mollah e da un anziano imam
Proteste anti Usa Indette a Baghdad dagli sciiti, raccolgono il consenso generalizzato della popolazione omai stremata
MA.FO.
Gli Stati uniti progettano di mantenere una presenza militare a lungo termine in Iraq, ben al di là del passaggio di consegne a un futuro governo iracheno e del ritiro della forza d'invasione. Si tratta di una presenza permanente in quattro basi militari: lo scrive il New York Times, che cita alti ufficiali del Pentagono. La basi, già in uso, saranno una presso l'aereoporto internazionale di Baghdad; una a Tallil presso Nasiriya, nel sud; una in una base aerea isolata nel deserto occidentale chiamata H1, lungo l'oleodotto che va in Giordania, e la quarta nella base aerea di Bashur, nel nord kurdo.

Ecco che si delinea una delle conseguenze a lungo termine dell'invasione dell'Iraq. I dirigenti del Pentagono citati dal quotidiano newyorkese ne parlano come di un elemento chiave della «rivoluzione strategica» in corso tra Medioriente e Asia sud-occidentale, tra il Mediterraneo e l'Oceano indiano. Una presenza militare permanente in Iraq sarà una pressione continua sulla Siria e, combinata con la presenza americana in Afghanistan, sarà un virtuale accerchiamento dell'Iran. L'obiettivo è trasferire nelle nuove basi irachene parte delle truppe Usa oggi stanziare in altri paesi alleati della regione, Turchia, Giordania e Arabia Saudita.

La «rivoluzione strategica» comincia a delinearsi, anche se Baghdad e l'intero Iraq sono ancora nel caos. Ieri dalla capitale irachena hanno cominciato a ritirarsi i marines: entro il 22 aprile avranno tutti lasciato l'Iraq, avverte il Comando generale delle forze Usa in Qatar. Saranno sostituiti dal'esercito di terra, che - dicono sempre i comandi militari - è meglio attrezzato per garantire l'ordine e la ricostruzione. Eppure è ancora difficile parlare di ordine nelle città irachene.

Il bollettino degli arresti

I breefing quotidiani dei portavoce militari sono piuttosto occupati da altre notizie, una sorta di bollettino degli arresti. Ieri è stata la volta del ministro delle finanze del governo di Saddam Hussein, Hikmat Ibrahim al-Azzawi: arrestato ieri dalla polizia irachena (ri-arruolata e rimessa in servizio a Baghdad sotto il mandato dei militari Usa), al-Azzawi è stato consegnato ai marines americani. Il ministro delle finanze era solo il numero 45 nella lista americana dei 55 «grandi ricercati» (nel famigerato gioco di carte era l'8 di quadri). Ma era anche un vice-premier, sottolineava ieri una portavoce del Comando generale anglo-americano in Qatar, e per questo «deve essere a conoscenza della struttura di comando più interna del regime». Soprattutto, i portavoce americani dicono che dovrebbe poter dare informazioni utili a rintracciare la «fortuna» di Saddam Hussein, di cui molto si favoleggia in questi giorni: le stime oscillano tra 2 e 24 miliardi di dollari.

Al-Azzawi è il quinto dignitario del vecchio regime arrestato finora. Venerdì la polizia kurda a Mosul aveva consegnato ai marines un importante dirigente del partito Baath, Samir Abul Aziz al-Najim, anche lui sulla lista dei 55. Prima erano stati presi due fratellastri di Saddam Hussein: Barzan al-Tikriti e Watban Ibrahim Hassan (rispettivamente 52simo e 51esimo della lista); e prima ancora si era consegnato il generale Amer al-Saadi, ex consigliere scientifico dell'ex presidente (che di quella lista era l'ultimo).

Ieri i militari americani hanno annunciato che si è consegnato anche Khala Khadr al-Salahat, un membro dell'organizzazione palestinese Fatah-Consiglio rivoluzionario (nota anche come Settembre nero) di Abu Nidal. La posizione di Salahat nell'organizzazione non è precisata. Abu Nidal, che era stato trovato morto a Baghdad nell'agosto 2002, è ritenuto responsabile di attentati terroristici tra i più sanguinosi tra il 1970 e l'85.

L'Iraq al collasso

L'Iraq però resta a terra. Ieri gli ingegneri dell'esercito britannico hanno riaperto un tratto della ferrovia tra il porto di Umm Qars e la città di Bassora: dicono che sperano di rimettere in sesto i binari fino a Baghdad e farne la prima via di trasferimento dei materiali e aiuti che sbarcano nel porto meridionale. Per ora però il treno fatto partire ieri con grande pubblicità ha percorco appena 30 chilometri, cuiè non arriva neppure a Bassora, per motivi di «sicurezza». Il poco di aiuti che entra per ora in Iraq viaggia in camion: un con voglio di 50 camion si è diretto ieri a Baghdad dalla Giordania; convogli più nomerosi entrano ormai da qualche giorni dalla Turchia, nella regione settentrionale. Le riserve di cibo distribuite agli iracheno fino a prima della guerra sono agli sgoccioli, riprendere le forniture di cibo è urgente. Ma le agenzie umanitarie avvertono che ancora più urgente è ripristinare i servizi essenziali. A Baghdad è tornata l'acqua, dopo che la Croce rossa internazionale ha riparato i generatori all'impianto di pompaggio di Qanat a nord della città. Continua però a mancare l'elettricità in quasi tutta la capitale. Lo stesso vale per Bassora. Mancano acqua e luce nelle altre città, Nasiriya, Najaf. Ripristinare le infrastrutture essenziali è la cosa più urgente, si preoccupa il responsabile della Croce Rossa internazionale a Baghdad, Roland Huguenin-Benjamin: «Il paese è collassato. Nulla funziona - telefoni, elettricità, scuole, assistenza medica, trasporti, nulla. Serve molto più che portare un po' di cibo o aspirine. Bisogna ripristinare i servizi essenziali e un'amministrazione civile». " [MAN]

"Pasqua di guerra in nome di dio
«Il bene può trionfare sul male». Un Bush messianico insiste per la revoca dell'embargo all'Iraq. Con lo scopo di controllarne il petrolio
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Gli scopi di Dio «non ci sono sempre chiari», ma «questa stagione ci porta una promessa: che il bene può trionfare contro il male, che la speranza può superare la disperazione»: un George Bush più religioso che mai nel suo solito messaggio settimanale diffuso via radio ieri, in coincidenza con la celebrazione della Pasqua e del Passover ebraico. Bush, che alcuni commentatori britannici hanno ribattezzato «il cappellano in capo», tiene molto a far sapere che ogni mattina legge la Bibbia e che fa precedere da una preghiera le riunioni del suo governo (anche la decisione di scatenare questa guerra, ha spiegano tempo fa agli sbigottiti giornalisti, la prese soltanto dopo avere cercato «la guida di Dio»). Durante la campagna elettorale, quando gli veniva chiesto a quale filosofo o pensatore lui si ispirasse per impostare la sua azione politica, rispondeva: «Gesù Cristo, perché ha cambiato il mio cuore» e a tutti era sembrata una risposta furba, abilmente studiata da quelli che in ogni momento gli spiegavano (e gli spiegano) cosa dire e come dirlo, perché gli consentiva di prendere con una sola fava sia il piccione di dare una risposta a una domanda imbarazzante per uno che con la filosofia e il pensiero non ha mai avuto tanta dimestichezza, sia il piccione di «superare» l'handicap che allora aveva di aver speso un lungo periodo della sua vita a ubriacarsi e a «farsi». Poi la sua insistenza nel riferirsi continuamente a Dio ha finito per convincere molti che non si trattava di una furbata demagogica ma di qualcosa in cui Bush crede sinceramente, il che rende ancora più allarmante, se possibile, la situazione in cui è finito il più potente Paese del mondo.

«Quest'anno - ha detto Bush alla radio, con tono commosso - la Pasqua e il Passover hanno uno speciale significato per le famiglie dei nostri uomini e donne in uniforme che in questi giorni sentono così intensamente la mancanza dei loro cari. Questo periodo santo ci ricorda il valore della libertà e il potere di un amore più forte della morte. L'America piange coloro che sono stati chiamati a casa (nel senso che sono morti, ndr) e noi preghiamo perché le loro famiglie trovino conforto nella grazia di Dio».C'è tuttavia una cosa in cui Dio non sembra in grado di aiutare Bush ed è l'ottenimento rapido della fine delle sanzioni economiche contro l'Iraq, che lui ha già chiesto non formalmente, in modo da poter commercializzare il petrolio iracheno al più presto e pagare in questo modo i costi della ricostruzione che il suo vice Dick Cheney ha già provveduto ad appaltare.

A Bush sembrava ovvio che, visto che ora l'Iraq è «un Paese libero», per togliere quelle sanzioni fosse più che sufficiente un cenno di assenso con il capo. Ma di fronte alle «pastoie inutili» rappresentate dalle norme che regolano le risoluzioni delle Nazioni unite (la loro approvazione, la loro applicazione e quindi anche la loro abrogazione), ha dovuto fare una specie di marcia indietro di cui ieri si è avuta notizia ma i cui contorni diventeranno più chiari nei prossimi giorni. In sostanza, di fronte alla «pretesa» di Russia, Francia, Germania e altri membri del Consiglio di sicurezza di arrivare a togliere quelle sanzioni solo dopo l'adempimento di due cose essenziali - una, l'accertamento (che solo gli ispettori dell'Onu sono abilitati a compiere) che in Iraq non ci sono armi di distruzione di massa; l'altra, che venga delineato in termini chiari il ruolo dell'Onu medesima nel dopo-guerra iracheno - Bush o chi per lui ha deciso di «non» chiedere formalmente la fine delle sanzioni, per evitare uno scontro al Consiglio di sicurezza in cui sarebbe risultato perdente come quando cercò di farsi approvare l'attacco all'Iraq.

Come esattamente procederanno gli Stati Uniti, il New York Times, che ieri forniva questa notizia citando collaboratori anonimi di Bush, non lo spiega. Dice solo che la «liberazione» dell'Iraq dalle tante risoluzioni che l'Onu ha votato contro Baghdad nel corso degli anni sarà «graduale», attraverso tre o quattro progetti di risoluzioni abrogative che gli Stati Uniti contano di presentare nel corso di «alcuni mesi». Nel frattempo - e qui forse c'è un punto che potrebbe risultare preoccupante per Bush e la sua rielezione fra un anno e mezzo - le spese della ricostruzione saranno affrontate dagli Stati Uniti attraverso pagamenti a lunga scadenza. " [MAN]

"«Giù le mani dal petrolio iracheno»
I ministri mediorientali a Riyadh contro i propositi Usa di gestire da soli il dopoguerra
S. D. R.
«Le forze anglo-americane che hanno invaso l'Iraq non hanno il diritto di sfruttare le sue risorse petrolifere e le sanzioni delle Nazioni unite dovrebbero essere revocate solo quando il paese arabo avrà un governo legittimo». Con queste due frasi, che chiudevano un comunicato breve ma denso di argomentazioni, il principe Saud al-Faisal, capo della diplomazia saudita, ha riassunto venerdì in tarda notte i due punti chiave emersi dal vertice riunito a Riyadh dei ministri degli esteri dei sei paesi confinanti con l'Iraq (Iran, Giordania, Turchia, Siria, Kuwait e Arabia saudita), a cui hanno partecipato anche l'Egitto e il Bahrein. Sulla scia di un comunicato molto simile emesso dai membri dell'Unione europea giovedì alla conclusione del vertice di Atene, i ministri degli esteri dell'area mediorientale hanno voluto così ribadire che, dopo la guerra unilaterale lanciata da Stati uniti e Gran Bretagna senza risoluzione Onu, le Nazioni unite devono riassumere un ruolo centrale e gestire direttamente il dopoguerra in Iraq. Ecco perché i partecipanti al vertice di Riyadh hanno tenuto a ribadire che l'embargo potrà essere tolto solo al momento del ritiro degli anglo-americani. «Ora l'Iraq è sotto una forza occupante e qualsiasi richiesta di revoca delle sanzioni dovrà venire quando ci sarà un governo legittimo che rappresenti il popolo e che possa adempiere agli obblighi connessi alla revoca di tali sanzioni», ha dichiarato al Faisal.

L'embargo rappresenta infatti la principale leva politica che hanno i membri del Consiglio di sicurezza per riportare al centro della gestione dell'Iraq del dopo-Saddam il Palazzo di vetro e per cercare in qualche modo di ostacolare i piani egemonici degli Stati uniti. Washington, come è noto e come è stato espresso in più di un'occasione dai membri dell'amministrazione Bush e dal presidente stesso, spinge per un'immediata revoca delle sanzioni, che permetterebbe all'Iraq di vendere il proprio petrolio e finanziare la ricostruzione del dopo-guerra (i cui appalti sono stati già in larga parte assegnati a ditte statunitensi). Un'eventualità che impaurisce gli stati vicini, soprattutto l'Iran e l'Arabia saudita, preoccupati che gestendo di fatto il petrolio iracheno gli Stati uniti potranno esercitare un controllo dei prezzi del greggio e privare i paesi produttori in generale e i membri Opec in particolare di un prezioso strumento politico.

Oltre a questi due punti principali, nel corso della conferenza sono state affrontate altre questioni, tutte legate a doppio filo alla presenza statunitense nella regione e al futuro dell'Iraq. Nel ribadire la necessità di un ritiro il più rapido possibile delle truppe d'occupazione, i paesi della regione hanno comunque esortato le forze anglo-americane a rispettare, fintanto che rimarranno nel territorio iracheno, la quarta convenzione di Ginevra del 1949 per la protezione delle popolazioni civili in circostanze di emergenza e di conflitto armato.

Quanto alle minacce belliche che Washington fa pendere da alcuni giorni su Damasco, i partecipanti (fra cui lo stesso ministro degli esteri siriano Faruk al Shara) le hanno respinte senza appello: «Rifiutiamo in maniera assoluta le recenti minacce contro la Siria, che possono solo aumentare la possibilità di una nuova spirale di guerra e odio, soprattutto alla luce di un crescente deterioramento della situazione palestinese». Cauto ottimismo è stato invece espresso per la missione annunciata dal segretario di stato americano Colin Powell in Siria e Libano.

Infine si è affrontata la questione dell'eventuale balcanizzazione dell'Iraq. Nel ribadire la necessità di mantenere l'integrità territoriale del grande paese mediorientale, si sono recepite in particolar modo le preoccupazioni della Turchia, che teme come la peste la formazione di uno stato autonomo kurdo nel nord Iraq." [MAN]

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