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[Cronologie di guerra] 21.04.03 trentatreesimo giorno
by blicero Wednesday April 23, 2003 at 04:40 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 21.04.03 trentatreesimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.

21 aprile 2003 : trentatreesimo giorno
[fonti : quotidiani del 22 aprile 2003]

"Il ladro di Baghdad
Jay Garner è arrivato a Baghdad. Il generale in pensione, veterano del Vietnam, amico di Rumsfeld, uomo d'affari e grande cliente del Pentagono, ha l'incarico di gestire l'Iraq per conto degli Stati uniti. «Staremo qui tutto il tempo che ci vorrà». Cortei di protesta al suo arrivo nella capitale irachena Ressa sul dopo-Saddam. Al Zabaidi, del clan Chalabi, si autoproclama governatore. Gli Usa lo sconfessano. Arrestato un leader sciita, al culmine il pellegrinaggio a Kerbala. Spunta un cimitero degli orrori di Saddam, Chalabi fa sapere: «Il rais è in Iraq»" [MAN]

"Schegge amiche nella carne
Viaggio nel nord kurdo. Da Baghdad a Sulimanya, passando per Kirkuk, l'ex roccaforte di Saddam, dove continua la cacciata degli arabi le cui case sono state saccheggiate nei primi giorni della «liberazione». Lungo la strada si incontrano più mine che non americani. Nell'ospedale di Emergency vengono curate le vittime kurde delle cluster bomb statunitensi e i bambini arabi di Kerbala vittime dei bombardamenti
VAURO
BAGHDAD-SULIMANYA
E'a circa 160 chilometri da Baghdad, sulla strada verso nord, che la monotona piattezza del paesaggio si interrompe e si intravedono sulla linea dell'orizzonte le colline brulle e rossicce che annunciano l'ingresso nel Kurdistan irakeno. Mancano 80 chilometri a Kirkuk quando troviamo il primo posto di blocco dei peshmerga. Turbante in testa, kalashnikov alla mano, la vita avvolta da una fascia di stoffa sulle larghe brache pieghettate, caratteristiche dell'abbigliamento kurdo. Sul casotto di guardia la foto di Talabani, il leader del Puk (Unione patriottica kurda) che controlla tutta l'area da Kirkuk a Sulimanya, mentre quella di Mosul e Herbil è sotto l'egemonia di Barzani, capo del Pdk (Partito democratico kurdo). Lungo il percorso che ancora ci separa da Kirkuk incontreremo ancora molti check point kurdi, nessuno americano. Li passiamo senza mai venire fermati. Emergency è presente dal `95 in Kurdistan con i suoi ospedali ed è molto conosciuta. Una volta viste, sulle nostre auto, le insegne dell'organizzazione i peshmerga ci fanno segno di passare, salutando con la mano. Via via che si sale il paesaggio si fa sempre più verde: le case basse di fango secco dei contadini, in lontananza rosseggiano le fiamme dei pozzi petroliferi. Pochi segni di battaglia. Solo all'estrema periferia di Kirkuk, in una caserma sottratta agli irakeni e presidiata dai peshmerga, un deposito di munizioni sta bruciando, fumo denso e improvvise vampate di fuoco e scintille accompagnano il rimbombo delle esplosioni secche che si susseguono in rapida successione.

Kirkuk, con le sue basse costruzioni sulle quali svettano i minareti, appare tranquilla: negozi aperti, ma peshmerga armati ovunque. Solo davanti al grande ospedale della città vediamo un presidio americano, eppure la città è stata teatro fino a pochi giorni fa di saccheggi, violenze verso la popolazione di etnia araba, trapiantata qui dal regime di Saddam nel suo tentativo di arabizzazione del Kurdistan. E' sugli arabi di Kirkuk che pende il minaccioso ultimatum, non ufficializzato ma del quale troviamo diverse conferme, a lasciare entro una settimana la città. Un film già visto troppe volte, non solo in quest'area ma persino nel cuore balcanico dell'Europa.

Nei pressi del villaggio di Chamchamal, a est di Kirkuk, tra colline verdi e pietrose, attraversiamo quella che per anni è stata la linea del fronte tra kurdi e irakeni. Tutta questa zona è infestata dalle mine, le stesse che hanno fatto recentemente strage dei civili kurdi che seguivano dappresso l'avanzata delle truppe peshmerga verso Kirkuk, intenzionati a saccheggiare la parte araba della città. A Sulimanya le case sembrano disegnate da un architetto pazzo che abbia messo in un frullatore tutti gli stili possibili, per farne uscire costruzioni con colonne classiche mischiate a tetti a pagoda e volute rococò. Incredibili monumenti kitsch, come cervi dorati o globi terrestri spaccati da cui spuntano mani, sorgono un po' ovunque agli incroci delle strade principali. La grande M gialla su fondo rosso di McDonald's trionfa sull'insegna di un fast food, ma non si tratta ancora della multinazionale Usa, piuttosto di un suo surrogato locale: «Ma Donal».

L'ospedale di Emergency, 150 posti letto, si trova al centro della città, è una struttura luminosa e pulitissima, resa accogliente da giardini interni fioriti. Li cura un anziano giardiniere, vestito alla tipica maniera kurda, Mama Aziz. Regala un fiore di benvenuto a ciascuno di noi. L'igiene, la preparazione del personale, l'ottima attrezzatura sanitaria, ma anche, appunto, la bellezza dei giardini e degli ambienti attenuano la tristezza del succedersi di storie di dolore e di sofferenza umana che trovano una speranza tra queste mura. «Venticinque feriti da mina in soli 15 giorni sono arrivati qui con gli arti amputati o sfracellati», mi dice Mario Ninno infermiere italiano. Ci sono i parenti dei 12 feriti gravi trasferiti qui dall'ospedale di Kerbala, dal convoglio organizzato da Emergency. E' stata organizzata l'ospitalità di un congiunto per ogni bambino ricoverato, sono dieci, per tutto il periodo della degenza. Sul loro volto e nei loro gesti si legge un indescrivibile miscuglio di emozioni: dalla paura - si trovano nel cuore di un territorio nemico, - allo stupore, alla felicità di vedere i loro cari ricoverati in un ambiente efficiente e pulito, come non hanno mai conosciuto, che fa loro crescere la speranza.

Karrar e Sahif Settahr, i due fratellini arabi, di 9 e 11 anni, feriti dalle cluster bomb a Kerbala, ora sono qui nel reparto terapia intensiva, puliti dalle croste di sangue e seguiti con cura dagli infermieri e dai medici kurdi. Invece Jwad, 10 anni, è ricoverato nel reparto bambini ustionati, in una stanza con altri quattro bambini tremendamente sfigurati dalle bruciature. Jwad ha le mani fasciate e il viso senza più pelle, anche lui ferito dall'esplosione di una cluster bomb. «Sembrava una pallina da tennis», dice. Jwad è kurdo, viene da Chamchamal, colpito da «fuoco amico», quindi. Ma è difficile notare la differenza tra il dolore nei suoi occhi e quello negli occhi dei «nemici» arabi, Karrar e Sahif. " [MAN]

"La morte arriva a scoppio ritardato
L'ospedale di Hilla sforna certificati a raffica: per i soldati caduti in guerra, per i bambini caduti sulle mine
Durante il conflitto molte famiglie hanno smesso di avere notizie dei figli soldati. Ora le hanno: sono stati uccisi. E l'ospedale deve rilasciare il documento che spegne le speranze
Dopo il conflitto un vasto territorio è rimasto disseminato di cluster bomb. I bambini ci giocano, i contadini ci inciampano. E l'ospedale, con le corsie piene, deve riempire altri moduli
MARINELLA CORREGGIA
HILLA
Camminano verso Kerbala ai bordi della strada, a migliaia: uomini con bandiere verdi, nere, rosse, bianche, donne in habaya nera con fagotti sulla testa, ragazzini con borracce di acqua. Sono gli sciiti dell'Iraq che per la prima volta dopo moltissimi anni vanno in massa a celebrare l'arbaiun, il quarantesimo giorno dopo la morte di Hussein, figlio di Fatima. A volte li sorpassano camion e carri armati americani, che da Baghdad scendono verso Bassora nel decimo giorno dalla caduta della capitale. Indifferenti gli uni agli altri. Oltre il ciglio, numerosi carri armati iracheni - ma anche auto, camionette e bus - bruciati con il loro contenuto umano. A Hilla ci sono pochi segni di saccheggi e anche di case distrutte: non vuol dire che non ci siano state vittime, anzi l'ospedale chirurgico fin dall'inizio della guerra ha ricevuto fino a 200 pazienti al giorno, di cui molti gravissimi. Ma sono stati soprattutto il risultato di bombe a grappolo, che uccidono o feriscono ma non abbattono edifici. Aider Abbas Al Attar, direttore medico dell'ospedale (ora autogestito e sorvegliato dagli abitanti del quartiere), spiega: «La lista di morti e feriti si allunga ogni giorno, sia perché siamo chiamati a emettere certificati di morte per persone decedute giorni fa i cui parenti non hanno potuto avere notizie prima - sono soprattutto soldati - sia perché sul terreno sono rimasti ordigni inesplosi, un enorme pericolo». Sono state colpite soprattutto le zone periferiche della città e i villaggi circostanti - Nader (dove il 31 marzo ci sono stati 169 fra feriti e morti), Amira, Al Tanik, Al Tajria, Dular. Luoghi dove, dice il medico, si è assistito a un doppio crimine: «L'esercito iracheno si è disperso nelle abitazioni dei civili, e gli americani hanno bombardato senza pietà con le bombe a grappolo». Le corsie sono piene di feriti. Come Karrar Hassan Al Hadraoui, un buco infetto sul fianco sinistro, ma è fortunato, è sopravvissuto a una strage. Il 27 marzo un autobus di marca italiana che trasportava 32 persone verso Najaf, si è avvicinato troppo ai tank americani di un check point dalle parti di Al Chefel City. Quando l'autista si è fermato per fare marcia indietro, il carro armato ha fatto fuoco. Le persone sono letteralmente esplose nel bus, ma stranamente il mezzo è rimasto intatto, salvo un buco nella finestra anteriore e in quella posteriore. Tanto che l'autista, circondato da corpi a pezzi, è riuscito a ripartire e a portare il carico all'ospedale. Che razza di proiettili avranno mai usato, si chiedono i medici?

Hassan Farhan, 16 anni, studente del villaggio di Nader, il 9 aprile ha visto gli americani attaccare dal cielo e ha cercato di ripararsi in un buco nel giardino, ma è stato colpito da una scheggia, insieme a suo fratello. Adesso ha uno scavo al fondo della schiena, gran parte dell'osso e del muscolo sono stati rimossi, ha una gamba paralizzata e le medicazioni sono dolorosissime. Alla famiglia di Suad Abbas Al Kafaya, dell'area di Mahauil, villaggio Al Tajria, il 3 aprile è successa una catastrofe. Erano nello spiazzo vicino a casa quando sono stati colpiti dalle bombe. Gli iracheni erano a un chilometro di distanza. Suad, incinta all'ottavo mese, è stata sottoposta a taglio cesareo; il bambino, Hajar, sta bene, ma suo fratello di dodici anni è morto come altri tre parenti e la madre ha avuto il piede sinistro amputato, così come due ragazzini, allineati nella stessa stanza. L'Iraq minaccia di diventare un altro Afghanistan, popolato da migliaia di amputati di guerra. «Chi ha fatto questo dovrebbe riparare almeno un po' i danni no? E anche pulire le aree contaminate dagli ordigni» aggiunge Hayder.

L'ospedale non ha ancora carenze di medicinali e materiale, ma ad esempio si trova a operare con macchinari «stanchi»: «Bisogna dire che il precedente governo non destinava grande attenzione ai nostri ospedali, tutto era per Baghdad... Qui ci sono quartieri poverissimi, con case fatiscenti. E siamo ricchi. In Iran, quando allacciano il gas, cominciano dai quartieri più poveri» (il medico è sciita, come la maggior parte degli altri medici e degli abitanti del governatorato). In compenso i medici non sembrano preoccupati per i pochi casi di colera e l'ospedale, a differenza di molti a Baghdad in questi giorni, ha l'acqua: gli impianti di trattamento operano con il generatore e i lavoratori sono sul posto, anche se non più pagati. Medici e infermieri hanno ricevuto lo stipendio il mese scorso. In banca (se mai riaprirà) ce n'è abbastanza per coprire quello in corso, poi si vedrà. Si vedrà anche rispetto all'occupazione, conclude il direttore amministrativo, Adel Isam: «Siamo stati molto pazienti con il regime di Saddam, pazienti come l'asino, che noi chiamiamo Abu Saber, papà della pazienza. Bush ha promesso che se ne andrà presto, possiamo aspettare un po'». " [MAN]

"Il «governatore» di Baghdad
Jay Garner, l'ex generale prescelto dagli Stati uniti per governare l'Iraq, è arrivato ieri nella capitale del paese: «Dobbiamo creare un nuovo sistema, sarà un lavoro duro che richiederà tempo», ha detto. Ma il suo primo problema si chiama Mohammed Mohsen al Zubaidi, un ex esule sciita autoproclamatosi «governatore di Baghdad» e ansioso di partecipare al prossimo vertice Opec
F. PAN.
Jay Garner, il viceré di Washington, è arrivato ieri a Baghdad pieno di francescana felicità perché «nella vita di un uomo non può esserci momento migliore di quello in cui può aiutare qualcun altro, aiutare un intero popolo, e questo è esatamente ciò che noi faremo». I suoi primi obiettivi, ha detto, saranno quelli di ripristinare la corrente elettrica e il flusso dell'acqua, ma non è stato in grado di dire quanto tempo ci vorrà. Le tv americane, avendo sperimentato che la guerra ha cominciato a «vendere» molto meno di prima, non hanno dato una grande copertura all'arrivo a Baghdad di questo generale in pensione e si sono buttate su un marito incriminato per la morte della giovane moglie che, incinta di otto mesi, era scomparsa proprio alla vigilia di Natale, un fatto che allora aveva fatto molta impressione, e sulla guerra hanno preferito dedicarsi all'arrivo degli ex prigionieri che fornivano le scene commoventi dei loro abbracci con mogli e figli di fronte alle telecamere. Garner, ignaro della scarsa presenza sugli schermi di casa, non si è scomposto e come un signore in visita ai suoi nuovi possedimenti ha intrapreso un giro di Baghdad.

Prima tappa, un ospedale dove lo aspettavano un paio di migliaia di persone non precisamente felici di vederlo. Gridavano «No al colonialismo» e esigevano la liberazione di un loro leader arrestato. Il suo nome, Muhammad al-Fartusi, era però sconosciuto agli ufficiali dell'esercito che accompagnavano Garner e che anche loro hanno appena preso possesso della capitale irachena subentrando ai marines, sicché tutto quello che lui e gli ufficiali hanno potuto fare era promettere di controllare. «Dobbiamo creare un nuovo sistema. Sarà un lavoro duro che richiederà tempo. Vi aiuteremo finché voi lo vorrete», ha detto Garner ai medici dell'ospedale, disperati perché mancano di tutto visto che quel poco che avevano è stato portato via dai saccheggiatori. «Mi viene da piangere», diceva uno di loro. «Queste sono solo parole. Saddam Hussein era un capo ingiusto ma magari un giorno saremmo riusciti a liberarci di lui, senza questi stranieri venuti nel nostro Paese».

La prima gatta che Garner si troverà a dover pelare si chiama Mohammed Mohsen al-Zubaidi, un signore che si è proclamato «governatore di Baghdad» e che vuole mandare un suo rappresentante alla riunione d'emergenza dell'Opec, l'organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, convocata per mercoledì a Vienna. «Non sappiamo chi sia», dice candidamente Barbara Bodine, nominata coordinatrice dell'amministrazione civile che gli Stati uniti intendono costruire in Iraq. Ma secondo quello che lo stesso al-Zubaidi dice lei dovrebbe conoscerlo benissimo perché lui è un collaboratore di Ahmad Chalabi, il ricco esiliato negli Stati uniti che nonostante le condanne per frode subite è stato «scelto» da Donald Rumsfeld per il ruolo di uomo di Washington» nel nuovo Iraq, e questo sembra dirla molto lunga sul grado di «preparazione» con cui gli americani sono arrivati a Baghdad.

Neanche al-Zubaidi, comunque, si scompone molto e dice che il suo vice incaricato di rappresentarlo a Vienna sarà Jawdat al-Obeidi, anch'esso sconosciuto all'ineffabile signora Bodine, che però non se la sente, proprio nel giorno dell'arrivo del suo capo Garner, di rischiare una gaffe. Così se la cava con un «Noi non gi impediremo di provarci, ma non credo che l'Opec gli permetterà di partecipare alla sua riunione».

In effetti, l'Opec non sembra avere dubbi su chi debba rappresentare l'Iraq. E' Amir Muhammed Rasheed, cioè il ministro del petrolio nel governo di Saddam Hussein, al quale l'organizzazione ha mandato l'invito ufficiale «attraverso l'ambasciata irachena a Vienna», come è prassi.

La penultima volta che Rasheed è stato visto è stato il 25 marzo alla raffineria di Doura, con molti dei suoi pozzi in fiamme e nello sfondo le bombe che cadevano su Baghdad; l'ultima volta invece è stato nelle carte da gioco che gli americani hanno prodotto con tutti i nomi e le facce degli uomini di Saddam Hussein che stanno cercando. Rasheed è il sei di spade.

Gli Stati uniti un'idea ce l'hanno già di chi debba essere il nuovo ministro del petrolio: si chiama Fadhil Othman ed ha guidato la Somo, la compagnia petrolifera statale irachena, fino al 1994. Ma siccome ancora nessuna decisione è stata presa, il dipartimento di Stato dice che alla riunione dell'Opec di mercoledì l'Iraq «potrebbe non essere rappresentato»." [MAN]

"Jay Garner, l'uomo che volle farsi re
Adoratore di Bush «Con lui presidente, avremmo vinto anche in Vietnam». Parole del nuovo governatore dell'Iraq, pupillo dei neo-conservatori
Il mercante d'armi Congedato dall'esercito nel 1997, Garner ha lavorato per un'importante azienda d'armamenti, facendole aggiudicare contratti milionari grazie alle sue conoscenze al Pentagono
STEFANO LIBERTI
Lo scenario era suggestivo: una grande tenda all'ombra della monumentale zigurrat di Ur, la città biblica che ha dato i natali ad Abramo. La data, anche, simbolica: il 15 aprile 2003, giorno del suo 65esimo compleanno. Seduto al centro della tavola degli oratori, con un'espressione beata sul volto, il generale in pensione Jay Garner sottolineava con la dovuta enfasi la sacralità della sua missione: «Quale compleanno migliore che essere non solo dove è nata la civiltà, ma dove oggi comincia un nuovo Iraq democratico?». Dopo un'attesa snervante di lunghe giornate piene di nulla all'Hilton di Kuwait City, Garner poteva infine prendere direttamente contatto con il paese che il presidente George W. Bush gli aveva promesso in gestione. L'ultima volta che era stato in Iraq, inviato nel nord per assistere i kurdi dopo la prima guerra del Golfo, il generale era stato accolto come un salvatore. L'operazione umanitaria «Provide comfort», promossa da Stati uniti, Gran Bretagna, Francia e Turchia e da lui guidata sotto mandato Onu, era stata un successo: migliaia di pasti distribuiti, centinaia di tende messe in piedi per intere famiglie di rifugiati. Al momento di partire, una folla giubilante l'aveva accompagnato fino al confine acclamandolo come si fa di solito solo con i campioni sportivi. Tornato a Washington era stato promosso da Bush padre allo stato maggiore inter-armi.

Dodici anni dopo, il ritorno è meno trionfale. La conferenza delle opposizioni irachene, che doveva sancire la sua nomina a governatore, è un guscio vuoto: assente lo Sciri, il principale gruppo sciita, assente persino Ahmed Chalabi, il leader di quell'Iraqi national congress creato e foraggiato dal Pentagono. Presenti e furenti invece 20mila manifestanti, che al grido di «No Saddam, no America» danno il benvenuto nella vicina città di Nassiriya al nuovo governatore in pectore. Lui, l'ex generale tutto d'un pezzo, si limita a una constatazione dai toni marziali: «La missione che ci attende non sarà facile da adempiere».

Ritiratosi dalla vita militare attiva nel 1997 - con tre stellette sulla sua scintillante uniforme - Garner si ritrova oggi nuovamente sul campo di battaglia, chiamato da Bush ad amministrare l'Iraq liberato dall'alto del suo Ufficio per la ricostruzione e l'assistenza umanitaria (Ohra). E d'altronde i campi di battaglia non gli sono mai stati completamente estranei: una volta congedato dall'esercito, Garner non ha nemmeno fatto in tempo a riporre la divisa nell'armadio che ha ricevuto una chiamata da un'importante industria nazionale. La SY Technology, impresa specializzata nella costruzione dei missili anti-missile Patriot, gli offriva l'illustre carica di amministratore delegato. Data un'occhiata all'assegno proposto, l'ex generale accettava di buon grado.

Quello tra Garner e i Patriot non è un incontro occasionale, ma un idillio di lunga data: già all'epoca della prima guerra del Golfo il generale era stato incaricato di dispiegare i missili che dovevano proteggere Israele dagli Scud lanciati da Baghdad. Il sistema anti-missile non funzionò come dovuto (solo uno dei razzi lanciati da Saddam fu intercettato), ma lui non si perse d'animo e l'anno successivo fu visto tessere lodi sperticate di questi razzi spuntati di fronte a un Congresso allibito. Fu proprio questa fedeltà assoluta ai Patriot, dicono i suoi detrattori, a spingere la SY Technology ad offrirgli l'ambita poltrona di presidente. Da allora, l'azienda ha cambiato nome (si chiama oggi SY Coleman), le apparecchiature sono state migliorate e i sistemi notevolmente affinati. Ma le malelingue sostengono che sono stati soprattutto gli agganci di Garner al Pentagono a far aggiudicare alla Coleman negli ultimi anni contratti da 100 milioni di dollari.

Da gennaio, comunque, il nostro ex generale ha lasciato la sua carica, per non incorrere in sgradevoli accuse di conflitto di interesse. I suoi trascorsi da mercante d'armi hanno sollevato qualche critica ma di questi tempi, si sa, il richiamo all'interesse nazionale è negli Stati uniti un argomento più che efficace per mettere il bavaglio a qualsiasi opposizione. E d'altronde, come hanno fatto notare alcuni: cosa altro poteva fare un generale in pensione, se non lavorare nell'industria della difesa?

Soldato per 38 anni, veterano delVietnam, Garner è un buon patriota, animato da quegli stessi sogni di grandezza che guidano l'attuale inquilino della Casa bianca. Il quale peraltro, secondo le parole dell'ex generale, «se fosse stato presidente negli anni Sessanta avremmo vinto la guerra del Vietnam». Ma più che a Bush, Garner appare particolarmente legato al gruppo di falchi neo-conservatori che oggi imperversano al Pentagono e nei suoi immediati dintorni: insieme al segretario alla difesa Donald Rumsfeld, al suo vice Paul Wolfowitz e al vice-presidente Richard Cheney è un promotore dell'unilaterismo più sfrenato. I suoi fan raccontano con una punta d'orgoglio che è stato lui a convincere il presidente - che lo aveva consultato nella sua qualità di esperto - a stracciare il trattato Abm, l'accordo anti-missili balistici siglato con Mosca nel 1972. E non è un segreto che il nuovo governatore dell'Iraq sia un convinto assertore della necessità di non coinvolgere le Nazioni unite nell'amministrazione del dopoguerra. Per quanto riguarda poi la visione generale del Medioriente, Garner si mostra completamente in linea con le idee dei suoi amici neo-conservatori, gli unici al mondo a collocarsi a destra del Likud.

E tanto organicamente appare l'ex generale legato a questi ambienti, che nel 2000 lo si è visto tra i partecipanti entusiasti di un viaggio-studio di 10 giorni in Israele organizzato dallo Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa), centro studi di Washington che si propone di «sostenere l'importante ruolo che può avere lo stato ebraico nel promuovere interessi democratici in Medioriente». Poco dopo firmava con altri ufficiali in pensione una dichiarazione di condanna della seconda Intifada ed elogiava le «importanti misure» prese dall'esercito dello stato ebraico nei confronti della rivolta palestinese.

Responsabile riconosciuto delle distruzioni inflitte all'Iraq con le armi smerciate dalla sua azienda, Garner avrà una qualche difficoltà a districarsi nel labirinto delle fazioni e dei clan iracheni. E possiamo supporre che non alzerà il suo già scarso livello di gradimento quando renderà nota quella che probabilmente sarà la prima decisione del suo nuovo governo: il riconoscimento da parte dell'Iraq dello stato d'Israele. " [MAN]

"Il rompicapo sciita
Proteste anti Usa, domani attesi in migliaia a Karbala. Turbolenze a Najaf. Saddam in Iraq?
M.M.
Per gli americani - «la potenza occupante, come l'ha di nuovo definita, ostentatamente, il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan - gli sciiti del sud, e di Baghdad, si annunciano un grosso rompicapo (e in minor misura anche i kurdi al nord). Specie dopo che l'uomo su cui contavano, Abdul Majid al-Khoei (per la verità più vicino agli alleati inglesi ma la sostanza non cambia), è stato assassinato all'inizio del mese, appena rientrato a Najaf dal suo esilio londinese. Sia a Baghdad sia nel sud, dove si concentra la maggioranza degli sciiti iracheni - valutatati intorno al 60% della popolazione totale del paese -, si susseguono le manifestazioni religiose e politiche contro «gli occupanti» americani (che venerdì scorso un influente imam sunnita della capitale, al-Kubaisi, ha paragonato tout court «alle orde mongole» che distrussero la Mesopotamia nell' ottavo secolo) e per la conquista dell'egemonia (quindi del potere) all'interno della comunità sciita, molto divisa. Ieri, proprio mentre il nuovo proconsole Usa in Iraq, il generale (della riserva) e l'affarista (in servizio) Jay Garner, era appena arrivato a Baghdad e aveva incominciato a ispezionare i luoghi da «ricostruire» e «assistere» - il suo grado è capo dell' Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance, Orha -, qualche migliaio di sciiti si sono radunati davanti all'Hotel Palestine, divenuto una sorta di quartiere generale Usa nella capitale, gridando «No to colonialism» e reclamando la liberazione immediata di un loro leader, Muhammad al-Fartousi, che sarebbe stato arrestato dagli americani (che però negano di saperne niente). A Kirkuk, nel nord iracheno dove gli americani lasciano sfogare i kurdi - da decenni angariati e massacrati da Saddam -, centinaia di famiglie arabe si sono radunate davanti agli edifici del centro dove si è insediata la nuova amministrazione per protestare contro la «caccia all'arabo che sembra si sia scatenata contro di loro, le loro case e le loro proprietà. Ma nel nord, per il momento almeno, la situazione appare più controllabile dagli americani perché, una volta messi al sicuro i preziosi pozzi petroliferi, sanno che non possono permettere ai kurdi di tirare troppo la corda se non vogliono provocare l'intervento turco. Al sud l'aria è diversa e assai più rovente. A Najaf per esempio, che è una delle città sante degli sciiti, dove ayatollah e imam «rivoluzionari» e «pragmatici», alcuni dei quali rientrati dall'esilio e quasi tutti con rispettive milizie armate, si contendono il controllo delle masse dei fedeli. Sotto Saddam per gli sciiti - anch'essi angariati e massacrati - le manifestazioni non solo politiche ma anche religiose erano proibite. Adesso che sono stati «liberati» possono manifestare e dimostrano di non tollerare i tappi che gli americani cercano di mettere in attesa di mettere in piedi uno straccio di amministrazione che non puzzi troppo di coloniale. Domani centinaia di migliaia di sciiti convergeranno su Karbala, altra città santa sciita, da Najaf e da tutto l'Iraq, per il loro pellegrinaggio annuale. Sarà interessante vedere cosa succede. La settimana scorsa a Baghdad, la prima preghiera del venerdì dopo la conquista della città si è trasformata in una rumorosa manifestazione contro gli americani: «No Bush, no Saddam, yes, yes for Islam». A mettere le cose in ordine ci stanno provano il proconsole Usa Garner e l'indigeno Ahmed Chalabi, entrambi uomini di Rumsfeld. Con qualche contrattempo inevitabile. Questo tale Mohammed Mohsen al Zubaidi, ad esempio, che si è proclamato governatore di Baghdad, e il suo vice Jawdat al-Obeidi, che ha annunciato la sua presenza al vertice Opec di giovedì a Vienna quale rappresentante del Nuovo Iraq. La signora Barbara Bodine, ex ambasciatrice di Washington nello Yemen e nominata coordinatrice dell'amministrazione civile Usa nell'Iraq centrale, dice che lei quei due non li ha nominati e nemmeno li conosce.

Continua intanto la caccia a Saddam e alle armi di sterminio. Sempre Chalabi, in una intervista alla Bbc, ha detto di avere informazioni precise che indicano che Saddam e almeno uno dei suoi figli sono vivi e non sono fuggiti in Siria come si mormora ma sono ancora in Iraq (Qusay sarebbe stato visto addirittura a Baghdad, nel quartiere di Aadhamyyia), dove cercano di sfuggire alla cattura muovendosi continuamente da un luogo all'altro. In attesa delle prede più grosse, alcuni della lista dei 55 «most wanted» della nomenclatura cadono in trappola o si consegnano. Finora sono 7, ieri è stata la volta del n. 40: Jamal Mustafa Sultan al-Tikriti, segretario e genero di Saddam. Il 19 aprile era toccato al n.54: Abdul-Khaleq Abdul-Ghafur, ministro dell'educazione superiore e della ricerca scientifica.

Come Saddam neanche le armi proibite - che erano poi il pretesto ufficiale della guerra - si trovano. Per ora. Ma sembra che gli americani siano sulla buona strada. Ieri ci ha provato il New York Times ad aprire la strada presentando un'avventurosa storia di un misterioso iracheno che avrebbe riferito di un imprecisato scienzato che avrebbe detto di avere lavorato per delle armi chimiche-biologiche che sarebbero state distrutte subito prima dell'inizio dell'attacco Usa, le cui tracce sarebbero state sepolte sotto la sabbia in un luogo non specificato che alla giornalista del Nyt nonsarebbe stato consentito di vedere da parte degli ispettori mandati dagli americani. Che essendo mille di certo troveranno presto tutte le armi possibile e immaginabili, che gli ispettori di Blix e El Baradei non erano stati capaci di trovare. Basta dargli tempo.

Più facili da trovare sono le tombe «segrete» delle vittime di Saddam. Ieri ne è stata trovata una nel cimitero di al-Qarah, a 30 km da Baghdad, che potrebbe contenere i resti di un migliaio di detenuti politici. Ieri sono stati trovati anche i corpi dei due soldati inglesi che erano stati catturati dagli iracheni e mostrati in Tv. Ciò che porta il bilancio dei caduti britannici a 31 morti (quelli americani sono 128). Degli iracheni non si sa e non importa. La libertà ha i suoi prezzi." [MAN]

"Il riarmo made in Italy
LUCIANO BERTOZZI
Centinaia di vecchie mine attive della famigerata Valsella, del tipo Valmara 69, immagazzinate ultimamente dalle forze armate di Saddam Hussein in una moschea a Kadir Karam nell'Iraq settentrionale sono state distrutte. Le ha neutralizzate, nei giorni scorsi, l' inglese Mine Action Group. La denuncia è stata fatta nell'ambito di un recente convegno della Campagna italiana contro le mine. Non è una novità sia al nord sia al confine con l'Iran ci sono molti milioni di mine, anche di fabbricazione italiana e lasceranno il segno in termini di tributo di sangue e di mancato sviluppo ancora per molto tempo. Allo stesso tempo mine navali «made in Italy», le Manta fabbricate dalla Misar, hanno ostacolato gli angloamericani nella riapertura al traffico marittimo del porto di Umm Qasr. Si tratta, secondo Raids, una rivista specializzata in argomenti militari, di ordigni forniti venti anni fa in base a regolari licenze di esportazione. Proprio per eliminare il pericolo costituito da questi ed analoghi ordigni prodotti da altri Paesi il Governo Berlusconi manderà due cacciamine della Marina Militare, con il compito di ripulire il tratto di mare dell'Iraq meridionale. Si ripete la medesima operazione avviata nel marzo 1991, dopo la prima guerra del Golfo. Anche allora l'Italia inviò delle navi cacciamine con il compito di bonificare le coste del Kuwait e garantire il traffico marittimo delle petroliere. «Le nostre navi - si leggeva nel Corriere della Sera del 12 marzo 1991 - avranno di fronte anche mine "made in Italy": l'ammiraglio Martinotti ha detto che almeno due degli ordigni recuperati finora potevano essere del modello Manta di fabbricazione italiana.» E' evidente quanto sia assurdo vendere armi e poi mandare i soldati per eliminare i rischi connessi a tali vendite.

Anche le pistole dell'esercito iracheno sono «made in Italy», a metà degli anni `70 la Beretta ha venduto la licenza di fabbricazione per le pistole calibro 7,65 e 9, costruendo un apposito stabilimento in Iraq.

Ad ogni modo per non essere considerata di parte, l'Italia ha venduto anche le pistole in dotazione ai marines ed ai reparti speciali della Delta Forces.

Le armi italiane vendute a tutto spiano e senza problemi quando Saddam Hussein era un baluardo dell'Occidente contro il fondamentalismo islamico iraniano potrebbero aver causato perdite alle armate di Bush e Blair.. Ciò potrebbe costituire un qualche imbarazzo per Berlusconi, tanto lodato dai due leader anglosassoni.

C'è stato un tempo in cui, alla fine degli anni `70 ed `80 il «made in Italy» si ritagliò una fetta importante della torta dei commerci bellici. Ricordiamo che l'Occidente e le Nazioni unite fecero finta di niente quando l'Iraq uccise con i gas migliaia di curdi nel 1988. Addirittura l'Italia, si legge nel libro Armi di Amnesty International, ebbe un ruolo non solo nella vendita di armi convenzionali, ma anche quelle chimiche. «Secondo l'ambasciata iraniana - si legge nel volume Armi - durante la guerra Iran-Iraq la Montedison è stata una delle fornitrici di prodotti per la fabbricazione di armi chimiche. La società Ausidet del citato colosso chimico è stata processata nel 1987, per aver esportato 60 tonnellate di materia base per la fabbricazione del gas nervino all'Iraq. Questo, nonostante la normativa della Cee preveda che tali prodotti chimici non possano uscire dalla Comunità Europea».

L'Italia ha avuto un ruolo anche nelle vendite illegali, con la produzione di parti del supercannone, in grado di sparare proiettili nucleari o chimici a mille chilometri di distanza, prodotte a Terni e mai giunte in Iraq. E ora avremo anche appalti berlusconiani. " [MAN]

"ECCO LE VITTIME
Sono 3.173 tutte le vittime nei 30 mesi dell'Intifada, di cui 2.390 palestinesi e 725 israeliane. L'Anp ha reso noto ieri che sono 7.254 i palestinesi in carceri o campi di detenzione israeliane e che almeno il 25% della popolazione di Gaza e della Cisgiordania ha passato almeno un mese dietro le sbarre. Tra i detenuti vi sono 322 minorenni e 63 donne. Prima che iniziasse la nuova rivolta, nel settembre del 2000, nelle prigioni israeliane vi erano 1.300 detenuti. " [MAN]

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