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[Cronologie di guerra] 22.04.03 trentaquattresimo giorno
by blicero Wednesday April 23, 2003 at 04:48 PM mail:  

[Cronologie di guerra] 22.04.03 trentaquattresimo giorno si ringrazia in particolare il manifesto e tutti le persone che vi collaborano per il prezioso aiuto.


22 aprile 2003 : trentaquattresimo giorno
[fonti : quotidiani del 23 aprile 2003]

"L'Iraq di dio
Oggi l'oceanico raduno islamico nell'Iraq «liberato» dagli angloamericani. Centinaia di migliaia di pellegrini sciiti in marcia verso Kerbala. Si flagellano, pregano, sanguinano e gridano: «No a Saddam, no a Bush» Nella città santa sciita debutta l'unica forza politica organizzata del dopo-Saddam. Mentre gli Usa incassano il sì francese alla revoca delle sanzioni. Denuncia di Blix: da Washington una guerra sporca contro gli ispettori" [MAN]

"Hans Blix: «Le prove erano false»
L'ispettore dell'Onu denuncia i brogli made in Usa sulle armi irachene di distruzione di massa. La Francia, con un colpo di scena, cambia posizione sull'embargo all'Iraq e accetta la posizione americana: «Le sanzioni possono essere revocate»
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Botta a sorpresa, ieri, alla riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: la Francia, che prima dell'attacco americano all'Iraq aveva «guidato la resistenza», ha deciso di cambiare bandiera ed è corsa sotto quella degli Stati Uniti. Le sanzioni economiche contro l'Iraq, ha detto tranquillamente il suo ambasciatore, Jean-Marc de la Sabliere, dovrebbero essere tolte immediatamente e il programma «oil for food», di cui sono responsabili le Nazioni Unite, dovrebbe essere «adeguato» alla nuova realtà. Nel tentativo (vano) di indorare la pillola, de la Sabliere ha precisato che la sospensione delle sanzioni deve essere «provvisoria» e che potrà diventare definitiva solo quando gli ispettori dell'Onu, dopo avere ripreso e concluso il loro in Iraq, presenteranno un rapporto in cui si certifica che le armi di distruzione di massa non ci sono più. In pratica è la posizione degli Stati Uniti, i quali l'idea di avere gli ispettori dell'Onu fra i piedi adesso non la sopportano proprio ma possono benissimo accettare la loro andata in Iraq in un prossimo futuro, per centificare ciò che «loro» avranno nel frattempo accertato, tanto più che fra due mesi il mandato di Hans Blix come capo degli ispettori scadrà e loro avranno un fastidio di meno. Così, quella che fino a pochi minuti prima che iniziasse si prospettava come la riunione della ripresa degli scontri fra Stati Uniti e «resto del mondo», è invece destinata ad essere ricordata come la riunione in cui Parigi giocò il ruolo del voltagabbana. Con la Cina impegnatissima a cercare «perdono» per avere tenuto a lungo il resto del mondo all'oscuro dell'epidemia Sars che si era sviluppata nel suo territorio, a contrastare la voglia degli Stati Uniti di disporre dei proventi del petrolio iracheno per pagare le società che hanno ottenuto gli appalti della ricostruzione è rimasto solo il povero Sergei Lavrov, l'ambasciatore russo che - forse perché spiazzato dalla mossa francese, forse perché Mosca è davvero decisa ad andare fino in fondo, lo diranno le prossime ore - proprio poco prima che il suo collega de la Sabliere annunciasse il voltafacciala era stato più adamantino che mai. «Noi non ci opponiamo alla fine delle sanzioni», aveva detto. «Ciò su insistiamo è che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza vengano applicate. Tutti vogliamo essere sicuri che in Iraq non ci siano più armi di distruzione di massa e il solo modo di verificarlo è quello di mandare gli ispettori in Iraq affinché possano vedere con i loro occhi e riferire al Consiglio di Sicurezza. Non appena loro faranno il loro rapporto le sanzioni potranno essere tolte».

Sembra un ragionamento che non fa una grinza, se non fosse che ad opporvisi ce n'è un altro, di ragionamento, che invece è estremamente «grinzoso» ed è quello degli americani. «Noi non vediamo alcun ruolo immediato per il dottor Blix e la sua squadra di ispettori», aveva detto in mattinata Richard Grenell a nome dell'ambasciatore americano all'Onu John Negroponte, le cui parole poi erano state per così dire rafforzate dal crisma della Casa Bianca nella persona del suo portavove ufficiale Ari Fleischer. «La coalizione si è assunta la responsabilità di smantellare le armi di distruzione di massa e i programmi missilistici dell'Iraq - ha spiegato - e queste sono cose perfettamente condivise dalla comunità internazionale». E infatti si è già detto che gli americani stanno mettendo su un'imponente organizzazione di esperti (molti dei quali hanno lavorato anche come ispettori dell'Onu) per trovare quelle maledette armi di distruzione di massa che finora non hanno voluto saperne di venire fuori. E perché non gli ispettori dell'Onu? «Noi guardiamo avanti - è stata la risposta di Fleischer - non dietro». Ma Hans Blix ha altre idee sul perché gli americani quella ricerca la vogliano fare da soli, senza l'Onu fra i piedi. Poco prima di andare a parlare al Consiglio di Sicurezza per spiegare che lui e la sua squadra avrebbero bisogno di non più di due settimane per tornare in Iraq e riprendere il lavoro interrotto dalla guerra, la Bbc aveva trasmesso un'altra sua intervista in cui in pratica spargeva sospetti sul modo di lavorare degli esperti quando sono al servizio di un governo. «Credo che sarebbe saggio da parte loro ottenere una certificazione indipendente perché avrebbe più credibilità», aveva detto, e per spiegare in cosa consistesse la maggiore credibilità degli ispettori dell'Onu aveva riportato il ben noto esempio dei documenti citati da Colin Powell nella sua famosa arringa di fronte allo stesso Consiglio di Sicurezza, secondo i quali l'Iraq aveva tentato di acquistare uranio dal Niger. Quei documenti erano falsi. Blix non è arrivato a dire che coloro che li avevano forniti (cioè i servizi segreti americani e inglesi) li avevano fabbricati, ma poco ci è mancato. «Non è inquietante che quei servizi, con tutti i mezzi tecnici che avevano a disposizione, non si siano accorti che quei documenti erano falsi? Io penso che ciò sia molto, molto inquietante e mi chiedo: chi li aveva falsificati»? Per chi vuol capire, quel ragionamento significa che così come gli Stati Uniti - quando avevano bisogno del «sì» alla guerra, possono aver falsificato quei documenti, allo stesso modo ora che hanno bisogno che le sanzioni vengano tolte potrebbero falsificare il «ritrovamento» delle armi proibite per dire che le hanno distrutte e che quindi non ci sono più. Queste cose Blix le ha ovviamente dette ieri ai quindici membri del Consiglio di Sicurezza, ma loro ormai erano presi dal «nuovo sviluppo» della situazione portato dal voltafaccia francese." [MAN]

"L'incertezza dell'Opec
Il ritorno del petrolio iracheno sui mercati preoccupa i paesi produttori
MA.FO.
I militari britannici hanno rimesso in funzione il più importante impianto di pompaggio di petrolio greggio nell'Iraq meridionale, la stazione di Zubair numero uno. Il greggio ha ripreso così ad affluire alla centrale elettrica di Najabiya, che rifornisce la regione di Bassora. La ripresa d'attività degli impianti petroliferi iracheni è guardata con grande appetito dall'amministrazione ad interim guidata dall'ex generale statunitense Jay Garner. E' guardata invece con incertezza dagli altri membri dell'Opec, il cartello dei paesi esportatori di petrolio, che si riunisce giovedì a Vienna. All'ordine del giorno è una decisione immediata su come abbassare la produzione di greggio, in modo da mantenere il prezzo del barile all'interno dell'oscillazione 22-28 dollari (secondo la politica di stabilità finora imposta con successo dall'Arabia Saudita). Prima della guerra in Iraq i paesi Opec avevano aumentato la produzione, raggiungendo un totale di 26 milioni di barili al giorno (contro i 24,5 milioni della quota ufficiale), per scongiurare un'impennata dei prezzi di fronte alla prevedibile sospensione dell'export iracheno (e al calo di produzione di Venezuela e Nigeria per le rispettive turbolenze interne). Ora i dirigenti dell'Opec sanno che se non abbassano la produzione il prezzo potrebbe crollare, tanto più che si va verso il calo stagionale dei consumi (e al rallentamento dell'economia asiatica per la polmonite atipica). Controverso è se basti tornare alla quota pre-guerra (come sostiene la gran parte dei membri Opec), o se bisogna tagliare ulteriormente le quote attribuite ai singoli paesi: questa ad esempio è l'opinione del ministro iraniano del petrolio, Bijan Zanganeh (le sue dichiarazioni ieri sono bastate a far salire le quotazioni del greggio del 5%). E' necessario, ha detto, per mantenere il prezzo del barile nell'oscillazione 22-28 dollari, e i paesi che più hanno superato le loro quote devono tagliare per primi.

Più a lungo termine, l'Opec dovrà confrontarsi con il ritorno della produzione irachena sul mercato: sotto sanzioni da 12 anni, l'Iraq ha potuto vendere dal `95 in poi solo una quota minima del suo greggio nel programma Oil for Food, Petrolio in cambio di cibo. Prima o poi, l'Opec dovrà redistribuire la sua produzione assegnando una quota all'Iraq. Anche se è presto per dire quando questo potrà riprendere l'export a pieno ritmo: restano grandi le difficoltà tecniche, non è chiaro quando saranno abrogate le sanzioni all'Iraq, né chi abbia il diritto legale di firmare contratti, né quale status abbiano i contratti firmati in passato.

L'Iraq non sarà rappresentato, domani a Vienna: un'amministrazione ad interim non è ancora formalizzata. L'ex generale Mohammed al Zubaidi, «exilé» che la settimana scorsa si è autoproclamato governatore, ha annunciato che guiderà la delegazione del suo paese all'Opec. Il ministro iraniano Zanganeh ieri ha avvertito che l'Iraq potrà essere rappresentato all'Opec solo da un governo riconosciuto dalle Nazioni unite. E che se Baghdad andrà oltre la sua nuova quota scoppierà una guerra dei prezzi. " [MAN]

"Il nord Iraq tra le profonde ferite di una guerra infinita
Nell'ospedale di Emergency si curano le ultime vittime del conflitto. Attorno a loro i reduci di troppe «battaglie»
Sulimanya L'ospedale di Gino Strada è un gioiello di umanità in mezzo a un territorio devastato: ogni giorno tre persone, perlopiù giovanissime, esplodono sulle mine
Herbil Il Kudistan iracheno è diviso a metà tra Pdk e Upk, che si sono a lungo combattuti e oggi hanno instaurato una particolare tregua: un parlamento, due governi
VAURO
INVIATO A SULIMANYA
Capelli folti e castani, leggermente ondulati, i lineamenti delicati di Banin si stravolgono in grida e pianto, quando una infermiera alza il lenzuolo che copre le sue gambe. Circa un mese fa Banin Abdul, 10 anni, stava fuori dal cancello di casa sua a Kerbala, quando un missile ha colpito una ambulanza che correva nella strada di fronte. L'esplosione le ha scaraventato addosso il veicolo distrutto e le lamiere le hanno quasi scarnificato le gambe. Banin è una dei 12 feriti portati da Emergency da Kerbala nell'ospedale dell'organizzazione a Sulimanya, nel cuore del territorio «nemico» del Kurdistan. Ci sono buone speranze che Banin si salvi qui a Sulimanya da quella che era una morte certa a Kerbala. Una volta guarita dalle ferite verrà trasferita al centro di riabilitazione di Emergency che sorge a pochi metri dall'ospedale. Il centro di riabilitazione è attivo dal 1998. Sono più di duemila i pazienti curati fino ad oggi. Aso Noori, sta lavorando alla modellazione di un piede artificiale, mentre ascolta musica classica, nel laboratorio di protesi, anche lui è un amputato, una mina gli ha portato via la gamba destra sotto il ginocchio. Il centro di riabilitazione di Sulimanya rappresenta giustamente il gioiello tra le strutture di Emergency. Con la sua piscina riscaldata e coperta per la terapia, i suoi modernissimi laboratori di protesi e con le sue scuole interne di formazione professionale per i degenti. «Una volta che escono da qui - mi dice Gino Strada - finanziamo l'avvio di piccole cooperative artigianali di ex pazienti, in modo che non solo possano guadagnarsi da vivere, ma che divengano un sostegno economico per le loro famiglie. Questo contribuisce a far sì che non si sentano e non vengano considerati handicappati». Sono già 58 le cooperative attive nell'area di Sulimanya.

Lasciamo Sulimanya diretti a Herbil, due ore di auto, ma nell'area controllata dal Pdk di Barzani, dove è situato l'altro ospedale di Emergency in Kurdistan. Lo stretto nastro di asfalto scorre tra un paesaggio bellissimo, fatto di valli verdi fiorite, alte montagne frastagliate, abeti mediterranei che gareggiano in eleganza con slanciati cipressi. Sulle sponde del fiume Dokan, vicino al ciglio della strada, al limite di un piccolo campo coltivato, scorgiamo strani papaveri rossi: conficcati a terra con uno stelo di ferro, la corolla è un triangolo rovesciato con su dipinto un teschio. Sono i segnali di campo minato. Le mine fanno di questo splendore un paesaggio avvelenato. Ogni appezzamento di terra coltivata è costato e costa vite, arti umani strappati, questo è quello che rischiano costantemente i pastori ragazzini che vediamo accudire alle greggi nei fondovalle erbosi. L'80% dei campi minati non è segnalato, e nonostante il lavoro di sminamento compiuto prevalentemente da società private inglesi, composte per lo più da ex militari e da peshmerga stipendiati, la media delle vittime quotidiane non accenna minimamente a scendere dalle 3 al giorno, con picchi più alti in periodi di guerra come questo. Mine lasciate dalla guerra Iran-Iraq, mine sganciate dagli elicotteri di Saddam durante le rivolte kurde. Palmara 69, V.S. 50, S.B 33, la stragrande maggioranza di questi ordigni è di fabbricazione italiana, fornite a Saddam quando questi non era considerati dall'Occidente un «sanguinario dittatore» ma un affidabile partner di affari.

Poco dopo il villaggio di Coya attraversiamo l'ultimo check point dei peshmerga dell'Upk, 15 chilometri dopo il primo del Pdk, identico all'altro ad eccezione del fatto che sul casotto di pietra sventola una bandiera gialla anziché azzurra e sul muro c'è una foto di Barzani invece di quella di Talabani. Il peshmerga del Pdk sta accovacciato con il kalashnikov tra le gambe, come fosse un bastone da pastore, nella stessa antica posizione del peshmerga del Upk, qualche chilometro più indietro. I due gruppi si sono combattuti in modo cruento dal `91. Da circa due anni hanno raggiunto una sorta di accordo che ha portato alla formazione di uno strano sistema politico che vede un unico parlamento e due distinti governi uno per ciascuna delle aree in cui è diviso il Kurdistan. Difficile credere che questa possa essere una soluzione duratura, specialmente ora che la guerra rischia di smembrare l'Iraq, per questo popolo a cui non viene data pace e che non è capace di darsi pace. " [MAN]

"A Kerbala la rabbia sciita
«No agli Usa e Israele» Centinaia di migliaia a Kerbala. Le celebrazioni religiose convertite in manifestazioni politiche. Contro i «liberatori» e per uno «Stato islamico»
«Presi 5 di al-Qaeda» Gli americani dicono che volevano compiere attentati contro gli sciiti a Kerbala. Il fantasma di Saddam: tre giorni fa l'hanno «visto» a Baghdad
S.D.K.
Tira una brutta aria per gli americani a Kerbala e anche a Baghdad, dove centinaia di migliaia di sciiti iracheni stanno o celebrando l'annuale pellegrinaggio «religioso» sulla tomba dell'imam Hussein o protestando contro la presenza invasiva dei «liberatori» e i loro progetti per il futuro assetto dell'Iraq. A Kerbala, a metà strada fra Baghdad e Najaf, l'altra città santa sciita, centinaia di migliaia di persone stanno sfilando da lunedì e per oggi, anniversario della battaglia in cui i califfi sunniti assassinarono 1300 anni fa l'imam Hussein, figlio di Alì, si prevede saranno «vari milioni».

Anche le strade che portano a Kerbala sono intasate di pellegrini in arrivo dal sud e dal centro dell'Iraq, dove si concentra la grande maggioranza del 60% di sciiti iracheni. Molti gridano, si flagellano, si tagliano il viso con i coltelli e grondano sangue. Sotto il regime di Saddam, secolare anche se quasi tutto il potere era in mano alla minoranza sunnita, gli sciiti potevano recarsi in pellegrinaggio ai loro luoghi santi ma una celebrazione di questo tipo era impossibile. Perché poteva essere l'occasione per trasformare da religiosa in politica. Come sta accadendo a Kerbala. Dove gli sciiti celebravano insieme i fondatori della Shia, Alì e Hussein, e l'uscita di scena di Saddam.

Ma gli ayatollah e gli imam sciiti non erano rimasti con le mani in mano e i fedeli hanno cominciato presto a scandire slogan del tipo: «No agli Usa, no a Israele, no a Satana», e poi «Morte agli Stati uniti, morte a Israele». Molti slogan inneggiavano a uno Stato islamico.

I militari americani cercavano di farsi vedere il meno possibile ma tenevano tutto sotto controllo con gli elicotteri che sorvolavano in continuazione la città e i posti di blocco a terra. Hanno annunciato di avere arrestato 5 persone «legate ad al-Qaeda» (ci mancava) che volevano far saltare le sacre moschee. E a un posto di blocco hanno «fermato» un ayatollah sciita, Mohammed al-Mudarassi, e il suo gruppo di una sessantina di persone che stavano viaggiando in autobus verso Kerbala. Non si capisce se sia un monito o un autogol dei «liberatori», dal momento che l'ayatollah al-Mudarassi, guida spirituale del Fronte nazionale islamico, sembra uno di quelli «addomesticabili» come starebbe a dimostrare il fatto che il suo esilio lo aveva speso non in Iran ma nel Kuwait.

Anche se in minor misura la stessa atmosfera fra gli sciiti in particolare e gli americani si respira a Baghdad. Dove regna ancora il caos e le proteste degli sciiti si susseguono da venerdì scorso, quando per la prima volta dalla caduta della città, si sono potute svolgere liberamente le preghiere festive alle moschee.

Anche a Baghdad si susseguono i moniti o gli autogol degli occupanti, che lunedì avevano arrestato uno del leader locali della Shia, Sheikh Muhammad al-Fartusi, e altri religiosi. Una folla di sciiti infuriati aveva rumorosamente manifestato davanti all'hotel Palestine. Ieri sembra che al-Fartusi sia stato liberato, anche se gli americani non hanno mai cofermato il suo arresto né i motivi. Ma le manifestazioni di protesta cominciate non a caso con l'arrivo in città del proconsole mandato da Washington, l'ex generale Jay Garner, sono continuate anche ieri. Un po' religiose e un po' contingenti - per la mancanza di acqua, di cibo, di aiuti, di servizi - ma subito sfociate in manifestazioni politiche.

In città sono segnalati caos e sparatorie - una, non specificata, ieri pomeriggio in pieno centro sulla riva occidentale del Tigri. Militari Usa hanno arrestato Sultan al-Gauod, un noto intellettuale che guida il Fronte nazionale degli intellettuali iracheni, di recente formazione, che aveva fissato la sua sede in una vecchia sezione del partito Baath di Saddam Hussein. L'accusa contro di lui è «detenzione di armi», che suona ridicola dal momento che a Baghdad quasi tutti sono armati e ogni gruppo ha le sue milizie. Altro monito o altro autogol?

Gli americani sembrano sempre più preoccupati dalla spinta sciita ad occupare il vuoto lasciato dal collasso di Saddam (che in molti continuano a «vedere» qua e là: secondo fonti del Congresso nazionale iracheno di Chalabi, sarebbe stato visto tre giorni fa a Baghdad addirittura a una riunione del Baath...). Il segretario alla difesa Rumsfeld, lunedì ha manifestato con chiarezza questa preoccupazione affermando che la creazione di un regime islamico in Iraq non sarà accettata da Washington, anche se fosse il risultato delle famose e future prossime elezioni democratiche. Ma un eventuale rifiuto degli sciiti a «cooperare» renderebbero molto ardui i piani Usa per il nuovo Iraq. Intanto non si sa neppure se i rappresentanti degli sciiti si presenteranno al summit convocato da Garner per domani o sabato a Baghdad, dopo aver disertato il primo la settimana scorsa a Nassiriya.

I soli sciiti che non creano problemi per gli americani sembrano essere i Mujaheddin del popolo, il gruppo di opposizione iraniano sostenuto da Saddam e basato in Iraq, che ieri - ha detto il generale Brooks in Qatar - hanno concordato un cessate il fuoco con gli Usa (nonostante fossero fra i gruppi terroristi messi sulla lista nera di Washington). E la notizia non è piaciuta per nulla all'Iran." [MAN]

" KERBALA
Guerra di successione tra gli ayatollah
L'islam sciita irrompe sulla scena irachena con il pellegrinaggio alla tomba dell'imam Hussein
GIULIANA SGRENA
«Con lo spirito e con il sangue, ci sacrificheremo per te Hussein», lo slogan è lo stesso urlato nelle manifestazioni alla vigilia della guerra, ma l'Hussein inneggiato non è più Saddam bensì l'imam Hussein, figlio di Ali, il capostipite dello sciismo. E a urlarlo sono le masse di sciiti che marciano su Kerbala, nella cui moschea si trova il mausoleo del terzo imam, il preferito dai fedeli. Hussein, il cui martirio per i musulmani è paragonabile al sacrificio di Gesù per i cristiani, è una pietra miliare nella storia degli sciiti. Per questo il 10 di muharram (il primo mese del calendario musulmano), giorno dell'Ashura, anniversario della decapitazione dell'imam da parte delle truppe del califfo Yazid, è un giorno di lutto per tutti gli sciiti che giungono a Kerbala da tutto l'Iraq e l'Iran. Quest'anno però l'Ashura (13 marzo) è venuta a coincidere con l'ultimatum della guerra e quindi i pellegrinaggi a Kerbala sono stati ridotti e non solo per le restrizioni imposte da Saddam che tra l'altro aveva vietato l'autoflagellazione, che caratterizza queste celebrazioni. Anche la frontiera iraniana era chiusa a causa della guerra. Ma i pellegrinaggi sono stati solo rinviati all'Arbain, il quarantesimo giorno di lutto, che chiude le celebrazioni per il martirio di Hussein. Che si stanno svolgendo in questi giorni. Sulla cupola d'oro della moschea di Kerbala la bandiera nera del lutto sarà nuovamente sostituita con quella rossa del martirio, che potrebbe diventare anche quella del riscatto degli sciiti dopo la lunga notte del regime di Saddam che aveva escluso la maggioranza sciita (oltre il 60 per cento della popolazione) dalla gestione del potere mantenuto saldamente nelle mani della minoranza sunnita, alla quale apparteneva anche il clan del rais. All'uscita dalla moschea di Kerbala, i fedeli rendono omaggio al ritratto dell'ayatollah Mohammed Sadeq al-Sadr, l'anziano leader sciita fatto assassinare da Saddam il 19 febbraio 1999 e divenuto un altro simbolo del martirio. La sua morte aveva provocato una rivolta sciita, la più importante dopo l'insurrezione scoppiata all'indomani della guerra de Golfo nel 1991. Rivolte entrambe represse nel sangue.



La nuova Sadr city

Ma ora il regime di Saddam è finito e anche l'ayatollah ha avuto il suo riscatto: Sadr city è il nuovo nome di quella che era Saddam city, il più povero quartiere che si estende alla periferia orientale della capitale abitato prevalentemente da sciiti. Un agglomerato dove le contraddizioni diventavano esplosive, la cui rabbia a lungo repressa ha avuto libero sfogo prima ancora che arrivassero gli americani, subito dopo la sparizione degli apparati del regime.

Mohammed Sadeq non è l'unico al-Sadr «martire della fede», era stato preceduto, nel 1980, da Mohammed Baqer, un'altra vittima del regime di Saddam. La loro eredità è stata raccolta da un giovane al-Sadr, Mukhtada, figlio di Mohammed Sadeq, attuale protagonista della radicalizzazione del movimento sciita di Najaf, l'altra città santa sciita irachena, contro le posizioni più «moderate» dell'ayatollah Ali al-Sistani, già confinato da Saddam a residenza sorvegliata. Al-Sistani, 72 anni, fautore di un islam conservatore e «quietista», si è giocato la credibilità con una fatwa, poi smentita ma non in modo convincente, che avrebbe invitato i fedeli a non opporsi all'avanzata degli americani. Un altro fattore gioca contro l'anziano ayatollah: la sua origine iraniana, come iraniano era anche il suo ispiratore, l'ayatollah o marja (fonte di imitazione) Abdul-Qassem Khoï, che a Najaf aveva formato la maggior parte dei leader sciiti a livello mondiale. Nel momento in cui l'opposizione sciita interna ha preso le distanze dal Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciiri), che ha la propria base a Tehran e che ha appoggiato l'intervento anglo-americano, ad essere favorito è senza dubbio il leader emergente di Najaf, Mukhtada al-Sadr, figlio del «martire» Mohammed Sadeq, che peraltro era stato il successore di al-Khoï. Fanatico e spregiudicato, Mukhtada, appoggiato dal più vecchio partito islamista sciita iracheno al-Dawa (fondato nel 1957), è diventato il paladino dei poveri mentre è temuto dai notabili e dagli uomini del bazar. Ai suoi sgherri è attribuita anche la responsabilità dell'assassinio di Abdel Majid al-Khoï, figlio del famoso Abdul-Qassem, pugnalato a morte nel recinto dedicato al mausoleo dell'imam Ali. Il filo-occidentale Abdel Majid era appena rientrato da Londra dove aveva trascorso dodici anni di esilio con il beneplacito degli americani. Ma gli americani non avevano potuto o voluto impedire il suo assassinio, tradendolo una seconda volta, come avevano già fatto nel 1991, durante l'insurrezione sciita, perché considerato filo-iraniano. Pur non essendo di rango elevato (in senso religioso) l' hajatoleslam Mukhtada al-Sadr si candida a diventare il nuovo leader sciita nel momento in cui il movimento religioso sta assumendo sempre di più le caratteristiche di movimento politico. Suoi sono gli ordini che partono da Najaf e si estendono anche alla capitale dove i suoi sceicchi stanno occupando tutti gli spazi lasciati liberi dal vuoto di potere seguito al collasso del regime e prima che fosse instaurato il nuovo protettorato americano guidato da Jay Garner.



Gli ordini di Mukhtada

Agli ordini di Mukhtada era lo sceicco Walid al-Zawi, che abbiamo incontrato nel quartiere al Mansour di Baghdad, mentre organizzava una sorta di «polizia religiosa» che dava la caccia ai saccheggiatori e intercettava la refurtiva che veniva poi portata nelle moschee e redistribuita. Nelle moschee venivano portati i ladri catturati a saccheggiare gli ospedali.

Dalla madrasa di Najaf viene anche lo sceicco Abbas - originario dell'ex Saddam city - che insieme allo sceicco sunnita Munir al Obeida gestisce l'ospedale al Kindy, uno dei più grandi della capitale. Soprattutto i religiosi stanno supplendo alle carenze di assistenza sociale provocate dal crollo del regime: distribuiscono medicine nelle moschee, dove forniscono ogni tipo di aiuti. Anche sulle ex case dei funzionari del regime occupate «abusivamente» sventola la bandiera verde dell'islam. Si sta costituendo una sorta di potere parallelo a uno stato che non c'è o non c'è ancora e che metterà gli Stati uniti di fronte al fatto compiuto.

Del resto gli islamisti con il pragmatismo che li contraddistingue non hanno voluto subito lo scontro con gli occupanti. Si sono opposti solo quando di sono avvicinati troppo ai luoghi santi di Najaf e Kerbala e hanno così ottenuto il controllo delle due città sante mentre le truppe di invasione sono rimaste ai margini.

I pellegrinaggi a Kerbala sono la prima prova di forza degli sciiti, rispetto all'opposizione dell'esterno e anche rispetto agli americani. Quali saranno i passi futuri? Partirà da Najaf la rivoluzione islamica irachena? Proprio da Najaf Khomeini aveva preparato la sua rivoluzione iraniana e aveva teorizzato il «wilayat al fiqh» che istituzionalizzava il potere religioso, arruolando tra i suoi discepoli anche Mohammed Baqer al-Sadr. In quegli anni cominciavano le prime rivendicazioni di potere degli sciiti iracheni. Il regime rispondeva giustiziando alcuni ulema, erano solo i primi di una lunga serie.

Saddam Hussein nonostante la repressione degli sciiti aveva comunque aperto loro la strada eliminando fisicamente tutta l'opposizione laica, in particolare i comunisti che avevano una forte base proprio nella comunità sciita. L'unica rappresentanza dell'opposizione sciita finiva quindi nelle mani dei religiosi che potevano usufruire dello spazio offerto dalle moschee, e che in questo momento sembrano gli unici in grado di rappresentare la profonda e diffusa ostilità contro l'occupazione straniera.

Anche la «conversione» di Saddam e soprattutto la campagna di islamizzazione che avrebbe dovuto servire a tenere sotto controllo le spinte religiose ha finito per favorire gli ayatollah contro l'opposizione laica. Così come l'embargo, distruggendo i ceti medi che avrebbero potuto essere i protagonisti di rivendicazioni democratiche, ha finito per favorire l'islamismo radicale. " [MAN]

"Garner dai kurdi, prova di forza Usa
Mentre il governatore torna nel Kurdistan iracheno, dove era stato nel 1991, e trova accoglienza festosa, l'esercito Usa rioccupa Mosul per cacciare le milizie kurde. Upk e il Pdk: «Autonomia e controllo di Kirkuk»
S. D. Q.
Primo bagno di folla non ostile ieri in Iraq per Jay Garner, governatore designato da Bush per gestire il dopoguerra. Al suo arrivo nel Kurdistan iracheno l'ex generale ha avuto finalmente quell'accoglienza trionfale che gli era mancata nelle precedenti uscite pubbliche: al suo arrivo a Sulaymaniyah una folla giubilante lo ha salutato lanciandogli mazzi di fiori e gridando slogan in suo onore. Ma esattamente nelle stesse ore, non lontano, nella città araba di Mosul occupata in questi giorni dai kurdi, c'è stata la prima prova di forza dell'esercito Usa contro i kurdi. Con una operazione lampo, 50 elicotteri hanno portato cinquemila uomini fino all'aeroporto della città e da lì gli uomini della 101ma divisione aviotrasportata hanno raggiunto il centro a bordo di una colonna corazzata. Attraverso i quartieri sventrati dalle bombe si sono fatti strada anche i carri armati della Quarta divisione di fanteria dell'esercito Usa, l'ultima arrivata in Iraq, mentre gli Apache sorvegliavano il cielo. Da Mosul, dopo l'uccisione di 12 manifestanti nei giorni scorsi (uccisi dai marines) il Comando centrale Usa ha deciso il ritiro del corpo dei marine, e l'ingresso «teatrale» dell'esercito con il compito di cacciare dalla città i kurdi che hanno portato avanti la pulizia etnica contro gli arabi e disarmare le milizie tribali. Così era assai «strana» l'accoglienza calorosa dei kurdi a Sulaymanyah per il governatore Jay Garner: l'altroieri il suo giro a Baghdad è stato accolto con grande indifferenza dalla popolazione locale, mentre una settimana fa la sua comparsa alla conferenza delle opposizioni irachene di Nassiriya - rivelatasi un flop gigantesco per l'assenza dei maggiori oppositori - è stata rumorosamente contestata da 20mila sciiti nella vicina città di Nassiriya.

Il Kurdistan dunque - per ora - accoglie Garner a braccia aperte, memore del ruolo che l'attuale governatore ha avuto nel 1991 nell'operazione umanitaria «Provide Comfort», nel corso del quale il generale (non ancora in pensione) aveva gestito l'assistenza ai profughi kurdi allestendo un imponente programma di aiuti umanitari.

Appena arrivato all'aeroporto di Sulaymaniyah, Garner è stato abbracciato dal leader dell'Unione patriottica del Kurdistan (Upk) Jalal Talabani. Dopo i saluti di rito («venga a vivere qui da noi quando decide di ritirarsi definitivamente»), Garner ha partecipato a un giro di visite: la prima all'università, in cui ha avuto modo di elogiare il governo dell'enclave autonoma kurda; la seconda in una scuola, dove folle di bimbi festanti lo hanno coperto di mazzi di fiori (salvo poi confessare ai giornalisti che ignoravano chi fosse). Dopo queste visite-vetrina, Garner si è recato con Talabani a Dukan, dove i due hanno pranzato con Massud Barzani, il leader del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), l'altra grande formazione kurda che amministra l'enclave del Nord Iraq.

Nei colloqui che sono seguiti, i due dirigenti kurdi si sono dichiarati a favore della proposta di Garner («un Iraq federale con ampie autonomie»), e hanno anzi ribadito di non voler in alcun modo ottenere una forma di indipendenza. «Anche se crediamo che il popolo kurdo, come altri popoli del mondo, abbia diritto all'auto-determinazione, in questo momento vogliamo muoverci nell'ambito di un Iraq federale», ha detto Talabani.

D'altra parte, però, i due leader - informati forse della prova di forza in corso a Mosul - hanno anche avanzato alcune precise rivendicazioni: uno status identico a quello di cui gode la zona kurda dal 1991 (ossia una autonomia di fatto); la possibilità per i kurdi di far ritorno nelle case espropriate loro da Saddam nell'ambito del suo programma di«arabizzazione» (in particolare a Mosul); il controllo dell'importante centro petrolifero di Kirkuk, finora amministrato da Baghdad ma da sempre oggetto delle bramosie kurde.

Tutte queste richieste, se venissero soddisfatte, renderanno difficile la gestione dell'Iraq e contribuiranno a gettare ulteriore scompiglio nella regione - non foss'altro perché indispettirebbero la Turchia, che vede come il fumo negli occhi tanto l'autonomia che il controllo kurdo di Kirkuk.

C'è poi un altro aspetto che provvede a complicare ulteriormente il quadro. Nonostante la concordia ostentata e le pacche sulle spalle, i due partiti kurdi sono in realtà nuovamente ai ferri corti: la decisione dei peshmerga dell'Upk di entrare a Kirkuk senza il permesso degli Stati uniti, alcuni giorni fa, ha fatto infuriare il Pdk e non è quindi escluso che in futuro possano riscoppiare quelle rivalità intra-etniche che hanno insanguinato il Kurdistan iracheno e portato negli anni scorsi a una divisione di fatto dell'area (la parte occidentale amministrata dal Pdk, quella orientale dall'Upk).

Per il generale Jay Garner dunque sono cominciate le difficoltà anche a Nord." [MAN]

"GIORNALISMO TARGET
Dalla tv di Belgrado all'Hotel Palestine. Quel «vicino» 23 aprile
DOMENICO GALLO
Ksenija Bankovic aveva 28 anni il 23 aprile del 1999 ed era molto contenta del suo lavoro di assistente al montaggio, anche Jelika Munitlak aveva 28 anni ed era contenta del suo lavoro di truccatrice.Oggi, dopo quattro anni, Ksenija e Jelika hanno ancora 28 anni. Infatti sono state spogliate della vita alle ore 2,06 del 23 aprile 1999, assieme ad altre quattordici persone, come loro addette al lavoro presso gli studi della Rts (Radio Televisione Serba) di Belgrado. Un missile «intelligente» della NATO aveva deciso di impadronirsi della loro vita e c'è riuscito, centrando, con precisione millimetrica, l'ala centrale dell'edificio della televisione, dove ferveva il lavoro dell'equipe tecnica. I vertici dell'Alleanza sono così riuscite a spegnere per sempre il sorriso di Ksenija e di Jelika che, chissà per quale oscura ragione, dava loro tanto fastidio.Quattro anni fa l'opinione pubblica non era ancora abituata a considerare le equipe televisive ed i giornalisti addetti al loro lavoro come obiettivi militari, come bocche e come occhi da chiudere per sempre, con l'argomento irresistibile del tritolo. Per questo, all'epoca si levò un fremito di indignazione che raggiunse, addirittura, i vertici politici coinvolti in quella sciagurata impresa. Il ministro italiano degli Esteri dell'epoca, l'on. Dini, da Washington, dove si era riunito il Summit dell'Alleanza per celebrare i 50 anni della Nato, dichiarò ai giornalisti italiani «è terribile, disapprovo, non credo che fosse neppure nei piani». Ma fu immediatamente sconfessato dal suo Presidente del Consiglio, l'on. Massimo D'Alema, che dichiarò: «Non si può commentare ogni giorno dov'è caduta una bomba», precisando che la sua reazione alla notizia risultava «attenuata dal fatto che in Jugoslavia non esiste una stampa libera» (Corriere della Sera, 24 aprile 1999). Così il 23 aprile del 1999, nel processo della modernizzazione che incombe sul nostro tempo, è entrato una preziosa acquisizione giuridica: il diritto alla vita dei giornalisti (e di tutti coloro che lavorano nel mondo dei media) è un diritto affievolito, dipende dal grado di libertà di stampa esistente in un determinato contesto. Quando la televisione costituisce uno strumento di propaganda di un regime politico autoritario, allora può essere silenziata con la giusta dose di tritolo. D'altronde è proprio quello che sostenevano i portavoce della Nato, nel briefing quotidiano con la stampa. Il colonnello Konrad Freytag, sempre nella fatidica giornata del 23 aprile, dichiarava che la Nato aveva continuato gli attacchi volti a indebolire gli apparati di propaganda della Jugoslavia e per questo aveva colpito gli studi radiotelevisivi della Tv di Belgrado: «la più grande istituzione dei mass media in Yugoslavia, che orchestra la maggior parte dei programmi di propaganda del regime».

Anche in Iraq, come tutti sanno, non esisteva una stampa libera, per questo le forze dell'Alleanza del bene, il giorno prima della capitolazione di Baghdad hanno distrutto il terrazzo da cui trasmetteva la Tv Al Jazeera, uccidendone l'inviato, ed hanno bombardato l'Hotel Palestine, uccidendo altri due giornalisti, che non avevano capito bene che il regime di Saddam non garantisce la libertà di stampa. L'esempio della Rts ha fatto scuola. Sono passati solo quattro anni da quell'evento, ma sembra che sia trascorso un secolo. In Jugoslavia del regime di Milosevic non è rimasta più traccia alcuna: i dignitari del regime o sono morti per faide interne o sono finiti in prigione all'Aja. La stessa Jugoslavia non esiste più, ha cambiato nome: adesso si chiama Serbia e Montenegro. Apparentemente ci sono tutte le ragioni per aprire una casella negli scaffali della storia dove archiviare definitivamente la guerra Nato di Jugoslavia e passare ad altro. Ma i conti non tornano, questa stagione non riesce a concludersi, perché sino ad oggi nessuno ci ha dato conto della atroce morte di Ksenija e dei suoi compagni. Nessuno ha pronunziato una parola di giustizia che consentisse ai morti di riposare in pace. Di fronte a questo evento sta il silenzio assordante delle Corti e dei sistemi giudiziari di cui l'Occidente mena gran vanto.

In primo luogo il silenzio di quell'organo che l'Onu aveva creato per proteggere gli abitanti della ex Jugoslavia dalla barbarie della guerra. Il Tribunale penale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia non ha detto una parola. Non ha potuto, in quanto il suo Procuratore, Carla Del Ponte, ha deciso di non chiedere ai suoi giudici di giudicare ed ha dichiarato, il 5 giugno del 2000 al Consiglio di Sicurezza dell'ONU di essere «molto soddisfatta» per aver archiviato le denunzie relative ai crimini commessi dai vincitori - accuse depositate da Amnesty International e Human Right Watch. In secondo luogo il silenzio di quella Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha deciso, il 12 dicembre 2001, pronunziandosi sul ricorso presentato dal papà di Ksenija Bankovic, di non giudicare, decretando che i diritti dell'uomo non sono poi tanto universali. In terzo luogo il silenzio della Cassazione, le cui Sezioni unite civili hanno imposto, nel giugno del 2002, ai giudici italiani di tacere, di non raccogliere il grido di dolore delle vittime, per non disturbare la libertà di bombardamento del sovrano. Com'è noto, al di sopra delle Sezioni Unite, c'è solo il Tribunale di Dio. Quindi i sommi giudici credevano di mettere la parola fine a questa vicenda, ma hanno commesso uno sbaglio. I morti non sono d'accordo. Lo spettro delle sedici vittime innocenti (che tornano in questi giorni d'attualità) continua ad aggirarsi nelle Cancellerie e nelle Corti di Giustizia. I leaders politici, responsabili della morte fisica, ed i magistrati, responsabili della morte giudiziaria, non se ne potranno liberare e trasaliranno, vedendoseli comparire dinanzi, come Macbeth quando vedeva riaffiorare lo spettro di Banquo." [MAN]

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