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relazione gruppo ambiente forum donne firenze
by mj Wednesday, May. 21, 2003 at 8:56 PM mail:

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GRUPPO DONNE AMBIENTE CITTA’

Siamo partire da lontano, proponendo come nostro riferimento simbolico la Grande Dea mediterranea ed europea, Dea Madre in quanto sentita come sorgente di ogni forma di vita e dei cicli vitali (nascita trasformazione morte rinascita), raffigurata nelle numerosissime statuette preistoriche di donne incinte, che, per qualche millennio prima di Cristo, ha costituito il riferimento religioso di una società che considerava preminente la rigenerazione della vita e che non aveva al suo interno nessun predominio di un genere sull’altro. Ed è utile sottolineare che, mentre una società fondata sulla rigenerazione della vita si riconosce in una Dea Madre, le società occidentali patriarcali e gerarchiche, che privilegiano la ricchezza, la proprietà, il patrimonio, la produzione, si riconoscono in un Dio Padre.

Nel corso dei secoli, comunque, anche in occidente, la natura è sempre stata sentita e pensata come feconda e nutrice per il genere umano e tuttora così la sentono i pochi e le poche rimaste di popolazioni civilissime che vivevano in armonia con il loro ambiente naturale, sterminate fisicamente e annullate culturalmente, durante il secolo XIX, dai bianchi per impossessarsi della loro terra e delle loro risorse ( amerindi del Nord America e aborigeni dell’Australia). La terra fu madre e nutrice fino alla rivoluzione scientifica, iniziata nel XVI secolo in Inghilterra e poi rapidamente estesasi all’intera Europa e, via via, sull’onda del capitalismo, del colonialismo e della globalizzazione neoliberista, pressochè all’intero pianeta. Secondo il pensiero di Francesco Bacone la natura, femmina e imprevedibile, doveva essere controllata, dominata, sottomessa, in base a una razionalità scientifica che mirava a conoscere i fenomeni naturali per poterli poi prevedere, controllare e utilizzare, in sintonia con il capitalismo nascente. Secondo questa concezione, che viene fatta passare per oggettiva, universale e valida per ogni tempo, e che invece è frutto di un pensiero maschile, occidentale, storicamente ed economicamente datato, ed è tuttora funzionale all’estensione del dominio dei grandi gruppi transnazionali dell’agroindustria, la terra è sterile, inerte e improduttiva; e l’agricoltura di sussistenza, che ancora resiste in alcuni luoghi del Sud del mondo, affidata alle donne e ai loro saperi tradizionali, che consente di soddisfare i bisogni vitali in armonia con l’ambiente naturale e quindi preservando le risorse per le generazioni future, deve essere soppiantata per rendere la terra produttiva e per aumentare la quantità di cibo a disposizione dell’umanità. Come se il problema della fame nel mondo fosse frutto di una scarsità oggettiva e non di una distribuzione del cibo profondamente iniqua dettata dalle esigenze di un mercato globalizzato e dominato dai suddetti gruppi transnazionali. E il fatto curioso è che si vuole rendere la terra “produttiva” usando sementi sterili!

Questo è il succo della critica radicale portata dall’ecofemminismo ( Carolyn Merchant, Vandana Shiva) al pensiero scientifico e al produttivismo capitalist dell’occidente. Vi è poi il pensiero di Laura Conti, la scienziata che ha introdotto l’ecologia in Italia, e che ha demistificato due tendenze pericolosissime: quella secondo cui la natura sarà in grado di rigenerarsi e di riassorbire illimitatamente le conseguenze delle attività umane (inquinamento, rifiuti, dissesto idrogeologico, alterazioni climatiche) e quella secondo cui l’uomo sarà sempre capace di modificare la natura con le sue attività senza rendere impossibile la permanenza sul pianeta degli organismi viventi e ciò mediante tecnologie sempre nuove in grado di riparare tutti i guasti ambientali. E’ utile al nostro approccio (aggiungo ora) anche la critica radicale portata da Lidia Menapace all’industrialismo come metodo di produzione standardizzata di massa, che annulla qualità e differenze, e che dall’industria è stato trasferito all’agricoltura e all’organizzazione delle grandi strutture di servizio alla persona ( il versante pubblico del lavoro di cura).

Abbiamo discusso delle tecnologie ambientali, utili entro certi limiti e con certe modalità e per certe applicazioni, senza dimenticare che la fiorentissima industria del disinquinamento è spesso ancora più inquinante dell’attività originaria, e che lo smaltimento dei rifiuti ha prodotto anche fenomeni vistosissimi di arricchimento mafioso. La società ecologicamente sostenibile ( uno dei punti di cui si discuterà al prossimo FSE di Parigi) può essere ottenuta solo modificando il modo di produrre e consumare e contemporaneamente le modalità e gli orari di lavoro per tutti e per tutte; con un nuovo sviluppo; con una nuova economia; in sintesi, ribaltando la priorità tra produzione di merci e servizi per il mercato e rigenerazione della vita.

Abbiamo discusso di inquinamento industriale ( le attività industriali sono alla base di tutte le forme di inquinamento e di alterazione del clima; gli operai e le operaie sono spesso costrette a scegliere tra cancro e disoccupazione e, ovviamente, sono costrette a scegliere il cancro e la nascita di figli handicappati e malformati ), concludendo che, come donne, dobbiamo farci carico delle realtà concrete in cui viviamo e possiamo operare ( una fabbrica che sparge intorno inquinamento, malattia, morte e bambini handicappati, e/o un’area dismessa ma contaminata di cui ottenere la bonifica completa prima che sia riusata per altri scopi), ma senza perdere di vista gli aspetti complessivi e globali dei problemi causati dall’inquinamento, secondo il motto del “pensare globalmente agire localmente”.

L’ecofemminismo ci dà un pensiero e delle pratiche; dobbiamo partire da noi ma anche andare oltre, attraverso relazioni sempre più estese, ma anche ponendoci il problema di “come” ci inseriamo, come donne, nel governo del territorio, della città, di un sito industriale, di “come” diamo forma al contesto locale in cui si snoda il nostro progetto di vita. Anche ponendoci il problema del rapporto con le varie forme della politica, anche di quella istituzionale, in cui portare i nostri contenuti e le nostre modalità di azione.

Poiché quasi tutte noi abitiamo in grandi città, il lavoro di gruppo si è concentrato sul come si vive attualmente (male e innaturalmente, espropriate del contatto con la natura ) in città pensate e costruite da uomini in modo funzionale all’attuale modo di produrre. Silvia Macchi ci ha raccontato la sua esperienza in merito al piano regolatore generale (PRG) di Roma e come, lavorando con un gruppo di donne e confrontandosi via via in sedi di donne e miste, è riuscita a far modificare, con un approccio di genere, alcuni aspetti del PRG e far inserire un pezzo di genere nella relazione del piano, adottata dal Consiglio comunale, secondo cui la città è un patrimonio sociale, una risorsa di tutti e di tutte che deve essere usata secondo un progetto di vita sociale che tenga conto dei bisogni, desideri e punti di vista di tutti i soggetti sociali che la abitano, dia spazio a tutte le differenze e valorizzi il lavoro di cura, soddisfi il bisogno della casa (particolarmente grave per le donne) e dei servizi pubblici e favorisca le relazioni sociali.

Il PRG, anche se è rivestito di forme e linguaggi fortemente tecnici, è l’atto più politico di una amministrazione comunale perché determina “come” si vive in una città, dove e come e per chi si fanno le case, i luoghi di lavoro, come ci si sposta, come si respira, se è facile o no incontrare altre persone, se siamo oppresse da un ambiente brutto o rallegrate da uno bello, come facciamo la spesa, se riusciamo a curarci o no, se è facile andare a scuola o no, ecc, ecc. Bisogna riuscire a smontare la corazza tecnica del piano e a farne capire l’importanza. Bisogna riuscire a collegare la lotta per la modifica del piano, la cui attuazione ha tempi molto lunghi e la cui validità può durare anche decenni, con la mobilitazione su obiettivi a tempi brevi ( alcuni programmi attuativi del piano, i bilanci comunali, alcuni servizi pubblici, ecc, ) per trovare risposte ai problemi più gravi e impellenti, come quello della casa per le donne a bassissimo reddito. E’ poi fondamentale che le scelte e le decisioni ratificate nel PRG siano prese in modo partecipato: le donne hanno puntato ad aprire quanti più possibile spazi di partecipazione e alla fine è stato ottenuto il regolamento alla partecipazione; e anzi la partecipazione, come l’allargamento dei tempi e degli spazi dedicati alla cura come antidoto alla globalizzazione, sono stati gli unici punti di contatto tra donne e uomini nella mobilitazione che ha portato alla modifica del piano.

Dobbiamo reinventare il concetto di cura, da ruolo rigido e ghettizzante imposto alle donne da una società patriarcale, a nuovo approccio che non comprende solo la manutenzione o la conservazione, ma anche l’abbellimento e la modifica, che non coinvolge solo la razionalità ma anche i desideri, le emozioni e i sentimenti; curare uno spazio amorfo e insignificante significa dargli caratterizzazione e identità, attribuirgli dei segni e dei significati, trasformarlo in luogo, renderlo vivibile e vissuto, far si che ci si vada e ci si stia volentieri, far sì che sia vissuto da molte persone, che aumenti nelle persone la capacità di relazionarsi con le altre.

Dobbiamo estendere questo concetto di cura dalla casa individuale e familiare alla città come casa collettiva, al territorio, all’ambiente, all’intero pianeta come casa comune della specie umana e delle altre specie viventi. Abbiamo pensato a slogan che significassero tutto ciò in modo incisivo e il più gettonato è stato “PRENDIAMOCI CURA DEL MONDO”.

Marta Rossi e Luisa Clerici, che abitano in paesi, hanno parlato della sponda di un piccolo fiume e di una spiaggia lacustre sottratti all’uso libero delle persone da scelte speculative e della necessità di riappropriarsene. I discorsi fatti a proposito della città in generale o di un quartiere urbano sono applicabili a qualunque contesto ambientale: si tratta sempre di scegliere tra uso per la produzione e uso per la vita.

Abbiamo discusso di forme di lotta, concludendo che vanno tutte bene, quelle tradizionali come manifestazioni e occupazioni di case ed edifici, e quelle nuove inventate dalle donne, come ad es. quella di “segnare” fisicamente e visivamente, secondo i nostri desideri, il contesto ambientale di cui vogliamo prenderci cura, ovvero, di dargli “forma” e bellezza secondo i nostri desideri. Le forme di lotta delle donne, più fantasiose e colorate, hanno anche il pregio di attirare i media e questo è utile in qualsiasi lotta.

Come percorso da qui a Parigi ci proponiamo:

- di preparare un documento su Donne Ambiente Città da distribuire a Parigi come contributo del movimento delle donne italiano su cui confrontarci con le altre donne europee; di preparare questo documento in una prima fase come gruppo di lavoro e poi di discuterlo tutte sulla lista parigi_diverse; di preparare questo documento sia con una parte teorico-politica e sia raccogliendo quante più pratiche di donne ci sarà possibile (MANDATECELE!!!);

- di proporre un workshop per il 12 novembre su Donne Ambiente Città; su questo dobbiamo essere d’accordo tutte, prima di pensare agli aspetti organizzativi, comprese le compagne che tratteranno i programmi complessivi nelle sedi comunitarie.



Bibliografia essenziale:

- poiché il libro di Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea Longanesi 1990, è esaurito, consiglio Vicki Noble Il risveglio della dea TEA 1998

- Carolyn Merchant La morte della natura Garzanti 1988 (presentazione di Elisabetta Donini). È esaurito; forse ne ha ancora una copia la Libreria delle donne di Via dei Fienaroli a Roma (06/5817724); altrimenti bisogna prenderlo in prestito dalle biblioteche comunali.

- Vandana Shiva Sopravvivere allo sviluppo. E’ stato ristampato recentemente con un altro titolo e con “sopravvivere allo sviluppo” divenuto sottotitolo.

- Laura Conti Questo pianeta Editori Riuniti 1982. Esaurito. Vedere biblioteche.

- Lidia Menapace Economia politica delle differenza sessuale Cooperativa Libera Stampa Roma 1992

- Annalisa Marinelli Etica della cura e progetto Liguori Napoli 2002.



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