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due succhose inchieste della voce della campania di ottobre ....
by ulisse Monday October 27, 2003 at 05:37 PM mail: giuseppe_scano@hotmail.com 

una E' quella di Giorgio Rubolino, uomo chiave nelle prime indagini sull'assassinio di Giancarlo Siani. Ma anche il personaggio tirato in ballo davanti alla Commissione Telekom Serbia. l'altra sul superperito del caso giuliani

LA VERA STORIA DEL SUPERPERITO DI GENOVA
PERIZIE KILLER



L'INCHIESTA 2

Colpo di scena per due fra le più sofferte vicende giudiziarie degli ultimi
anni. Il Csm apre un procedimento disciplinare per il giudice che ha mandato
assolto l'agente di polizia accusato d'aver ucciso il diciassettenne Mario
Castellano. Intanto anche sul perito che si é occupato di Carlo Giuliani
spuntano clamorose novità.
Di Rita Pennarola
La notizia, arrivata negli ultimi giorni della calda estate 2003, circola
per ora solo a mezza bocca, tra pochi intimi: giusto un anno dopo la
clamorosa sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise d'appello di Napoli che
mandò assolto Tommaso Leone, condannato in primo grado a dieci anni di
reclusione per l'assassinio del diciassettenne Mario Castellano, a finire
sotto accusa é oggi il presidente della Corte che decise l'assoluzione. Si
tratta di Pietro Lignola, anziano ed esperto magistrato che ha affrontato
recentemente, fra l'altro, casi scottanti come l'omicidio di don Peppino
Diana e il delitto di Franco Imposimato, fratello del giudice di Cassazione
ed ex parlamentare diessino Ferdinando Imposimato. Lignola dovrà rispondere
davanti al Consiglio Superiore della Magistratura - che sulla vicenda gli ha
notificato l'avvio di un provvedimento disciplinare - per non essersi
astenuto nel processo all'agente di Polizia, pur essendosi ampiamente
soffermato su quel caso di cronaca nella sua veste di opinionista del
quotidiano Roma, vicino ad Alleanza Nazionale.
Una circostanza che, peraltro, non era sfuggita ai difensori della famiglia
Castellano: nel corso del dibattimento d'appello avevano infatti presentato
un'istanza di ricusazione del presidente, adducendo alcuni articoli comparsi
sul quotidiano nei quali traspariva la netta impronta innocentista di
Lignola nei confronti di Leone. La Corte d'Appello aveva respinto quella
richiesta e il giudizio era andato avanti fino al verdetto di assoluzione.
La stessa Corte presieduta da Lignola, peraltro, a ottobre 2001 aveva
rimesso in libertà l'agente, arrestato all'indomani del delitto, decidendo
che non sussistevano più le esigenze cautelati a suo carico.La sera del 20
luglio 2000 il giovane Mario, studente all'istituto Nautico di Bagnoli ed
incensurato, non si era fermato all'alt della Polizia, che lo aveva fermato
perché guidava il motorino senza indossare il casco. Un colpo partito dalla
pistola di Tommaso Leone gli trapassò il polmone, uccidendolo sul colpo.
Durante il processo di primo grado i difensori della famiglia Castellano,
Gaetano Montefusco e Sebastiano Fusco, avevano fatto riaprire il fascicolo
esistente alla Procura di Bari e relativo ad un precedente conflitto a fuoco
che aveva visto sotto accusa per un episodio analogo lo stesso agente Leone.
Una vicenda rapidamente archiviata. Non così l'omicidio di Agnano, per il
quale Leone viene giudicato col rito abbreviato e condannato dal gup Alfonso
Barbarano a dieci anni di reclusione (il pm Michele Del Prete aveva chiesto
la condanna a 16 anni).
Poi il giudizio d'appello davanti alla Corte presieduta da Lignola e
l'assoluzione. La storia, comunque, non é finita. A parte l'apertura
dell'inchiesta al Csm per il presidente Lignola, da registrare infatti altri
colpi di scena. Intanto, le fasi del giudizio civile tuttora aperto al
tribunale di Napoli per conto del gemello di Mario, Lorenzo Castellano, ad
opera del difensore Gaetano Montefusco. E poi la recentissima condanna in
primo grado inflitta dal tribunale di Roma a Giampaolo Pansa e all'Espresso
per un Bestiario in cui il celebre giornalista, all'indomani dell'omicidio
di Agnano, tracciava un quadro assai poco benevolo della personalità di
Mario e del suo contesto familiare.

LA STRANE VERITA' DEI PERITI
La storia, qualche volta, si ripete. E un procedimento analogo a quello
avviato al Csm per il caso Castellano potrebbe aprirsi in margine al
"processo senza processo" per l'assassinio di Carlo Giuliani in piazza
Alimonda, durante il G8 di Genova. Mentre infatti la famiglia del giovane,
dopo aver rinunciato al ricorso in Cassazione contro il provvedimento che ha
scagionato il carabiniere Mario Placanica, intraprende la strada del ricorso
alla corte europea per i diritti dell'uomo, viene alla luce nelle ultime
settimane un editoriale che Paolo Romanini, il perito balistico che firmò la
perizia "assolutoria", aveva scritto un mese dopo i fatti di Genova, a
settembre 2001, sulla rivista Tac Armi, di cui é direttore responsabile.
Spingendosi ben oltre le argomentazioni pubblicate da Lignola sul Roma in
merito alla vicenda Castellano, con perfetta mira Romanini centra il
bersaglio: "Carlo Giuliani é stato ucciso da un suo coetaneo terrorizzato e
ferito, mentre infieriva con inaudita violenza contro un mezzo dei
Carabinieri, cercando con tutto se stesso di arrecare danno e nocumento ai
militari". Cinque mesi dopo riceverà l'incarico dal pm Silvio Franz di
guidare la task force di periti per il caso Giuliani.
Pietro Lignola avrebbe dovuto, secondo l'ipotesi formulata dal Csm,
astenersi. E Romanini? Se anche Franz aveva deciso di fidarsi ciecamente di
lui, non avrebbe dovuto rinunciare a quell'incarico, dopo aver mandato in
stampa una sua versione dei fatti così netta e schierata?
Perito ovunque dei principali casi giudiziari italiani (dal delitto
Calabresi a Marta Russo, passando attraverso Michele Profeta e perfino il
mostro di Firenze), Romanini é in qualche modo l'uomo che fa da trait
d'union fra la vicenda Castellano e l'inchiesta sulla morte di Giuliani. Due
storie speculari, dal momento che a sedere sul banco degli assassini sono,
nel primo caso, la Polizia e, nel secondo, i Carabinieri.
Per Castellano Romanini viene nominato nel giudizio di primo grado. Dopo il
lavoro svolto a Napoli compila un documento che sovverte la tesi della
difesa di Leone: il colpo non sfuggì in maniera accidentale per una caduta,
ma fu sparato volontariamente. La polizia finisce KO. A ribaltare quella
perizia aveva provveduto, nel giudizio d'appello, il perito scelto dalla
Corte di Lignola, l'architetto Pietro Margiotta, titolare nel napoletano di
una piccola società dedita alle ristrutturazioni edilizie.
Nelle indagini per l'omicidio Giuliani Romanini viene chiamato a coordinare
una rosa di periti già passati alla ribalta delle cronache: Nello Balossino,
Pietro Benedetti e Carlo Torre.
Ma chi é davvero Romanini? E quale fondamento hanno le voci di tribunale che
gli attribuiscono "un passato trascorso a farsi le ossa nel Cis di Parma
(oggi Ris, ndr), prima di "mettersi in proprio" ed esercitare la libera
professione"? Nessun documento é stato trovato, ad oggi, che possa
dimostrarlo, anche perché il curriculum dei consulenti é un documento che i
magistrati custodiscono - come é loro dovere - con il più rigoroso riserbo.
Esistono tuttavia alcune coincidenze che meritano di essere approfondite.
Qualche indizio. Paolo Romanini é fra i pochi italiani membri della Forensic
Science Society, l'organismo britannico che gli ha rilasciato il diploma
internazionale in Firearms Examination (titolo che può essere rinnovato ogni
cinque anni, ma solo in base a nuove esperienze accumulate). A convalidare
il diploma della Forensic Science Society é l'Università della Strathclyde,
l' ateneo scozzese (ha sede a Glasgow) che risulta tra i soci dell'European
Network of Forensis Science Institut. Fondatore italiano dell'Enfsi é il
Racis dei Carabinieri.
Sorto a dicembre del 1955, il Raggruppamento Carabinieri Investigazioni
Scientifiche fino al '99 era denominato CCIS (Centro Carabinieri
Investigazioni Scientifiche), termine ancor oggi usato dagli inquirenti più
anziani. In origine il reparto dipendeva dalla linea addestrativa della
Scuola Ufficiali Carabinieri poi, sempre dal 1999, é passato alle dipendenze
della linea cosiddetta speciale, vale a dire quella della Divisione
Carabinieri Polidoro. Roma, Messina e Parma sono le tre centrali operative
di punta. In particolare, quella della città emiliana é la direzione
competente su tutta l'Italia centro-settentrionale. Proprio per tale
attribuzione il Racis di Parma, detto comunemente Ris e guidato dal
colonnello Luciano Garofano (uno dei massimi esperti italiani di balistica,
come Romanini) indaga sul delitto di Cogne e sui fatti di Genova. Tra gli
Istituti Forensi (come l'Enfsi) ed i reparti del Racis esiste "una costante
osmosi tecnico-scientifica", si legge nei documenti esplicativi
sull'attività del Reparto. Il fine é, naturalmente, quello del reciproco
aggiornamento. E proprio per dar vita ad una più stretta sinergia, il Racis
e gli specialisti Enfsi (tra i quali figura Paolo Romanini) hanno dato vita
da qualche anno ad uno specifico gruppo di lavoro denominato "La scena del
crimine".
io sparo che me la cavo
Quarantanove anni, nato e vissuto a Parma, fin dal 1991 Paolo Romanini aveva
messo a frutto la passione per la carta stampata pubblicando con l'editrice
Olimpia il volume Cartucce per armi corte. Nel 1994 fa il suo ingresso come
consigliere d'amministrazione nella srl Editrice Leone. Prende il posto di
Paolo Tagini, altro esperto di coltelli e pistole, che lascia la compagine
editoriale probabilmente per dedicarsi alla sua attività di responsabile
piemontese della Lega Nord. Tagini, che diventerà poi parlamentare del
partito di Bossi (e in questa veste sarà al centro, nel 1996, di
un'inchiesta aperta dalla Procura di Roma con le accuse di falso ideologico
e sostituzione di persona), é coautore del volume significativamente
intitolato Io sparo che me la cavo (Leonardo Facco Editore), nonché attuale
vicedirettore della rivista specializzata Armi Magazine.
50 mila euro come capitale sociale ed una prestigiosa sede nel cuore di
Milano, in piazza San Babila 5, Editrice Leone vede nel suo oggetto sociale
le destinazioni normalmente previste per qualsiasi azienda editoriale
("Produzione, pubblicazione e distribuzione di libri e riviste, nonché tutte
le attività connesse"). Strano, perciò, che a detenerne il capitale sociale
sia un personaggio noto per tutt'altre attività. Si tratta di Carlo
Rinaldini, proprietario dell'editrice di Tac Armi sia a titolo personale che
attraverso il colosso Iprei, Società Italiana Programmi e Investimenti, con
quasi 7 miliardi e mezzo di vecchie lire in dote. 61 anni, mantovano,
titolare di Iprei insieme alla cinquantanovenne Maria Luisa Leoni (che
insieme a lui controlla anche altre corazzate finanziarie, come la spa
bergamasca Prosimet, quasi 4 miliardi di capitale), Rinaldini figura tra i
vertici della potente Assoconsulenza in qualità di "presidente della Richard
Ginori".
Cosa hanno a che vedere le celebri porcellane da tavola con la rivista su
polveri da sparo ed armi da fuoco diretta dal superperito Romanini? Il
mistero resta, ma qualche dato interessante arriva proprio dalla storia
della Richard Ginori. Fondata a fine del secolo scorso, la società nel 1970
passa sotto il controllo della Finanziaria Sviluppo di Michele Sindona,
pochi anni prima che il delitto di quest'ultimo diventasse uno dei casi
giudiziari più controversi nella storia italiana recente. Nel '73 la
Liquigas, amministrata dal finanziere Raffaele Ursini, acquista da Sindona
la Richard Ginori, nel '77 la cede al gruppo assicurativo Sai, che pochi
anni dopo passa nelle mani di Salvatore Ligresti. Sarà proprio quest'ultimo,
nel 1997, a trasferire la Richard Ginori nelle mani di Carlo Rinaldini, che
la detiene tuttora.
Di questi passaggi si occupa il giornalista milanese Gianni Barbacetto su
Società Civile, ricostruendo la personalità di Ligresti: "il suo primo
maestro é Michelangelo Virgillito, suo compaesano di Paternò, grande corsaro
di Borsa nella Milano del "miracolo economico". Il secondo é Raffaele
Ursini, l'uomo che eredita da Virgillito il gruppo Liquigas e lo porta
rapidamente al fallimento. Da loro Ligresti impara a muoversi nel mondo
degli affari immobiliari e della finanza. Da Michele Sindona rileva la
Richard Ginori, da Ursini rileva il primo pacchetto d'azioni Sai".
Braccio destro di Rinaldini é Giacomo Falcone, 57 anni, che figura nello
staff di vertice tanto in Iprei che nella controllata Cramer srl e nella
Editrice Leone, tutte con sede nella canonica piazza San Babila 5 (Iprei si
é spostata, ma solo da qualche mese, a Vicenza). 61 anni, nativo di Reggio
Calabria, anche Falcone si mostra particolarmente attivo nel settore dei
vasellami e degli articoli per la casa. E' infatti proprietario di quote in
sigle come Vaserie Venete, Decorazioni di Chieti, Arca Arredo Casa e
Tessitura di Cislago, tutte tra Milano, Mantova e Treviso. Nella Editrice
Leone Falcone riveste lo strategico ruolo di presidente del cda fin dal
1993. Quello stesso anno il tribunale di Mondovì dichiarò fallita la sua
Impredit, una srl da 90 milioni dedita all'edilizia di cui era
amministratore unico.
Tre dunque, ad oggi, gli amministratori dell'Editrice Leone: Falcone,
Romanini e Rinaldini, quest'ultimo anche proprietario dell'intero pacchetto.
Appena poche settimane fa, il 28 agosto 2003, é uscito infatti di scena
Pierangelo Coviello, 33 anni, presente nel cda fin dal 1999 ed anche lui,
come Rinaldini e Leoni, superimpegnato nel settore delle stoviglie, come
dimostra la sua presenza nello staff di Casa Italiana e del Gruppo Italiano
Tavola, sede a Treviso.
SILENZIO, PARLA IL PERITO
Mentre porta avanti le consulenze peritali per i casi giudiziari più
clamorosi degli ultimi anni (non disdegnando, però, di accettare consulenze
su vicende marginali, come quella affidatagli lo scorso giugno sulla pistola
di un disoccupato sardo sorpreso dai Carabinieri mentre tentava di sfondare
la saracinesca di un piccolo ufficio postale di Arzana con un piede di
porco), col suo mensile Tac Armi Romanini sponsorizza ogni anno l'Exa,
esposizione internazionale di ordigni organizzata a Brescia, dove ha sede la
Valsella, leader mondiale nella produzione di mine antiuomo ed epicentro
delle manifestazioni di protesta annualmente inscenate ad opera di
associazioni umanitarie in arrivo da ogni continente.
Intanto l'esperto balistico parmense non si risparmia, tenendo lezioni
presso la Scuola di Medicina Legale all'università di Udine, o - più
recentemente - all'ateneo di Bologna, dove insegna alla Scuola di primo
livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale, che
forma gli iscritti all'albo dei difensori d'ufficio. Altra partecipazione di
rilievo é poi quella svolta da Romanini, in qualità di relatore principale,
al congresso inaugurale della Mediterranean Association of Forensic
Sciences, fondata un anno fa a Reggio Calabria da Aldo Barbaro e presieduta
da Said Louhalia dell'università di Casablanca.
Tutte presenze destinate ad accrescere fama, onore e parcelle di un luminare
della balistica forense come Romanini. Ma quanto guadagna in genere un
perito? Le cronache parlano apertamente di due pesi e due misure: quattro
soldi ai consulenti semisconosciuti, mai passati agli onori delle cronache
e, dall'altra parte, consistenti onorari liquidati da tribunali, procure,
imputati e parti civili. Un fatturato, quello per le consulenze peritali,
impennatosi da circa dieci anni, dopo l'entrata in vigore del nuovo rito
nella celebrazione del processo penale, con l'ampliamento dei poteri
d'indagine connessi alla difesa.
"Qualcuno sa - protestava per esempio un perito del tribunale torinese,
Roberto Testi, all'indomani della riapertura delle indagini sul caso Marta
Russo - quanto viene pagato un perito per una consulenza medico legale? A
Torino sono 476 mila lire lorde, che al netto diventano poco più di 200
mila". Questo, però "non é certo il caso - aggiungeva Testi - dei professori
universitari o dei grossi nomi". Per una consulenza come quella del caso
Castellano il tribunale di Napoli liquida in media una parcella che si
aggira sui 10 milioni di vecchie lire. "Ma si tratta di cifre - spiega un
avvocato - destinate a crescere, e di molto, se si tratta di vicende di
grande rilievo nazionale affidate a consulenti di fama". Soprattutto, poi,
se a pagare sono privati cittadini che ne hanno le possibilità economiche.
Come perito della difesa Paolo Romanini scende in campo, ad esempio,
affiancando i legali del serial killer Michele Profeta. La sua consulenza
non basterà a scagionare l'autore degli efferati delitti di Padova. La Corte
d'Assise d'Appello di Venezia lo condanna infatti all'ergastolo ritenendolo
colpevole di due omicidi e di tentata estorsione ai danni dello Stato. Una
sentenza basata anche sulla perizia della pubblica accusa (affidata a
Luciano Cavenago, docente all'università di Genova) e confermata dalla
suprema Corte a febbraio di quest'anno.
Dal commissario Calabresi a Profeta e a Marta Russo, fino a Mario Castellano
e Carlo Giuliani. Una lunga esperienza, quella di Romanini. Sufficiente a
metterlo al riparo dai rischi connessi alla sua professione. In primis
quello descritto nell'Enciclopedia delle armi e riferito ai periti che hanno
prestato la loro opera presso Carabinieri o forze di Polizia: i giudici
dovranno tener presente che essi "possono essere inclini a propendere per le
tesi dell'accusa, non in mala fede, ma per una inconscia e umana
deformazione professionale o perché influenzati da superiori meno
indipendenti di loro". Oppure, aggiungiamo noi, perché già pronunciatosi sui
fatti attraverso la stampa, proprio come é accaduto a Paolo Romanini.
Un'accusa prontamente rigettata da Romanini. Intervistato dal Manifesto, che
aveva portato alla luce l'editoriale di Tac Armi sui fatti di piazza
Alimonda, il professionista si chiama fuori ("quando scrivevo l'articolo ero
in veste di giornalista, quando ricevo un incarico io assumo una veste
tecnica e chiudo la porta a tutto"), senza dimenticare di ribaltare l'accusa
sul collega, il sindonologo Carlo Torre: "Il discorso del sasso (quello che
avrebbe "deviato" il proiettile sparato in aria dal carabiniere Mario
Placanica, uccidendo Giuliani, ndr) é stato Torre a tirarlo fuori, non io, e
Balossino ha poi lavorato sulle immagini".
Vedremo se ora, dopo che il Csm ha aperto il procedimento disciplinare su
Lignola, altri organismi di verifica potranno cominciare a chiedersi come
sia stato possibile per la Procura genovese affidare il coordinamento del
pool di consulenti a Paolo Romanini, autore di quell'articolo e vicino al
Racis di Parma.



DOPO RUBOLINO - LA VERA STORIA DELLE MORTI ECCELLENTI IN VATICANO



L'INCHIESTA 1

MONSIGNOR MISTERO
A venticinque anni dalla scomparsa di Papa Luciani un'altra morte improvvisa
mette in fibrillazione le alte sfere vaticane. E' quella di Giorgio
Rubolino, uomo chiave nelle prime indagini sull'assassinio di Giancarlo
Siani. Ma anche il personaggio tirato in ballo davanti alla Commissione
Telekom Serbia. Un uomo che sapeva troppo? Cerchiamo di capirlo, partendo da
altri misteri vaticani.
di Andrea Cinquegrani
Vaticano in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta
la misteriosa - e mai chiarita - morte di papa Luciani dopo appena 33 giorni
di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di Mixer.
Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità ufficiale
poco, pochissimo credibile. Un'autopsia mai fatta, rapide perizie nel
segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che improvvisamente cede;
l'incredibile storia delle gocce di cardiotonico ingurgitate in eccesso dal
papa, l'altra - invece - a base di una digitalina che non lascia traccia.
Morto in piedi, oppure a letto? Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava
il nuovo organigramma dei vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere
nero su bianco le nuove regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti
a ogni ipotesi di trasparenza, col 'nemico' Marcinkus sempre alacremente
all'opera? E poi il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da
monsignor Balthazar: due ombre si introducono furtive nella camera da letto
di Luciani e nel suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa
pozione. Dall'Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop -
autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella 'morte' -
continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne 'suicidato'.
Così come venne 'suicidato', sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a
Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L'inchiesta è
riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia. "Il
rituale dell'esecuzione - scrive l'avvocato investigativo californiano
Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso edito in Italia da
Nuovi Mondi Media - è tipicamente massonico, con delle grosse pietre nelle
tasche". E la matrice? Levy punta dritto in una direzione: quella dei poteri
forti della Chiesa, rappresentati secondo lui dall'Opus Dei, che - scrive -
"ha desiderato ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si
trovano casualmente a Londra".
La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere
internazionale, viene così sintetizzata: "Mi spiegò che la banca di Calvi
era sull'orlo del collasso a causa della sparizione di centinaia di milioni
di dollari passati attraverso i flussi finanziari dello Ior che erano
collegati al riciclaggio di danaro della mafia. Preso dalla disperazione
Calvi si trasferì a Londra per ottenere un pacchetto finanziario di
salvataggio proveniente da un rappresentante anziano dell'Opus Dei".
L'operazione però, secondo la ricostruzione di Levy, non andò in porto e il
corpo di Calvi fu trovato 'appeso' sotto il ponte dei Blackfriars.
L'altra pista porta direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata
dell'affronto subito da Calvi, il quale non avrebbe restituito un'ingente
somma di danaro da 'ripulire' (utilizzato invece per riossigenere le casse
dell'Ambrosiano). Sul fronte dell'esecuzione, comunque, fa ancora capolino
la pista di camorra: "nei giorni in cui Roberto Calvi era a Londra -
ricordano a Scotland Yard - vennero segnalate diverse presenze interessanti:
quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi, fra cui Vincenzo Casillo".
Luogotenente di Raffaele Cutolo, soprannominato 'o nirone, in contatto con i
servizi deviati e in particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo
due anni dopo saltò per aria a Roma in un'auto imbottita di tritolo.
A fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di
riaprire le indagini su quella morte, a Roma l'inchiesta portata avanti dai
pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e Maria
Monteleone (casi Mitrokin e "spectre" all'italiana) si arricchisce di una
verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia, Vincenzo Calcara, per
l'omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti, elementi deviati dello
Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti vaticani.
E sotto il Cupolone ci porta anche un'altra esistenza - e un'altra fine -
avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura
ferragostana, immediata la diagnosi d'infarto che non perdona, niente
autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino alla
decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci più
chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare una
normale autopsia. Ma chi era Rubolino?
UNA VITA VORTICOSA
Il suo nome balza alle cronache nazionali per l'omicidio di Giancarlo Siani,
il giornalista ucciso il 23 settembre 1985 (vedi riquadro). Due anni dopo il
procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca a sé
l'inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di racimolare una
serie di flop. Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli,
un'avvenente bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano
le manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un 'gregario',
Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio
Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di magistrati nel pedigree (il
padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti che
contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene.
Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola, fino a
quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale di
un'inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e, soprattutto,
mandanti), Guglielmo Palmeri - sorrentino d'origine e in ottimi rapporti con
la famiglia Rubolino - lo rimette in libertà (due mesi prima erano stati
rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade il teorema Vessia, non regge
l'ipotesi di un omicidio eseguito dai Giuliano su ordine dei Gionta di Torre
Annunziata. E, soprattutto, sparisce la pista di via Palizzi. La pista che
portava alla casa d'appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra
cui Josephine e la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in
primis, magistrati e politici.
Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta alla
procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto finita in
prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli Castelli. Lo
stesso Miller - viene precisato in un documento al vetriolo elaborato dalla
camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 - ha subìto un procedimento
per "trasferimento d'ufficio" a causa di una serie di fatti, fra cui "l'aver
frequentato una casa di appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla
camorra negli anni 1984-1985 in via Palizzi". Lo stesso Miller seguirà il
caso Siani: collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel
pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza
colpevoli.
DA ROMA A LONDRA
Torniamo a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare
ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione dei
tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il
ricorso, confermando l'impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale, però,
non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai colpevoli. Né
agli esecutori, figurarsi ai mandanti.
Ma come era saltato fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo
dal filone di via Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini
sulle cooperative di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli
stavano aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo
San Giacomo.
Il Comune - allora retto dal socialista Carlo D'Amato - nell'autunno '85
diede disco verde per l'ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti
raggruppati in sei liste ("La carica dei settecento", titolò la Voce in una
cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un putiferio, una
fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle cooperative alla deriva.
"E' in quel contesto che veniva fuori anche il nome di Rubolino - ricordano
a palazzo di giustizia - una storia intricata, tra minacce, camorra, affari
e promesse. Insomma, una vera giungla". Rubolino, riuscì a cavarsela. "Ma
non la smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque
tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili".
Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende. Si
trasferisce a Roma. "Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare
da capo. Ce l'ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di opere di bene,
volontariato, assistenza", racconta un amico. "Non c'è riuscito a rompere
col passato - aggiunge un operatore finanziario capitolino - aveva perso il
pelo ma non il vizio, continuava a frequentare ambienti dai miliardi facili
e spesso inesistenti". Due versioni contrastanti.
Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce
nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100 milioni
di sterline ai danni di una vera e propria istituzione britannica, la
Cattedrale di San Paolo. Il classico 'pacco' organizzato secondo il miglior
copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo venuti qui (i Magi sono
cinque, due italiani, un finlandese, un canadese e un americano) per donarvi
la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica piccola, microscopica
condizione, quella che voi depositiate per dieci giorni, appena dieci
giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto svizzero. Nessuno li
toccherà quei soldi, assicurano.
La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino, viene
messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di Napoli,
che si era accodata con un suo filone investigativo, lo scagiona. E lui
avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per quella ingiusta
detenzione. "Ne aveva raccolti, comunque, di soldi per le denunce fatte
contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato per Siani - ricorda un
amico - soldi che donò in beneficenza".
STANLEY & PROMAN
Un anno fa la svolta sembra dietro l'angolo. Decide di cominciare a far sul
serio l'avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell'ordine di Roma.
Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione: c'è
ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento non ancora
chiuso, millantato credito. "Non è cosa - raccontano ancora nel suo
entourage - non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei suoi problemi, nella
sua tristezza di prima, quando subiva accuse e attacchi". La voglia di
business, comunque, non lo abbandona: per lui è una seconda pelle, una
droga, non può farne a meno. Ed eccolo entrare nei santuari della finanza,
acquisire partecipazioni azionarie, frequentare il mercato ristretto e la
City.
Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A quel
punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta "intestatario
fiduciario". Di chi, di cosa?
Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a
responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione di
lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel settore
elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo mondo. Un'altra
consistente fetta di Stayer - pari al 29 per cento del pacchetto azionario -
fa capo a Efi, ovvero European Financial Investments, a sua volta
controllata da un'altra sigla, Danter.
Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in amministrazione
controllata, per i problemi finanziari che stanno passando i fratelli
Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un pignoramento azionario
effettuato da un creditore, la Euroforex. E' per questo motivo che
l'assemblea straordinaria di Stayer convocata lo scorso 27 agosto per
deliberare l'aumento di capitale a 10 milioni di euro, è saltata. Ma non
solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel giorno, un dispaccio
dell'agenzia Reuter: "Il 26 agosto scorso Stayer ha ricevuto una
comunicazione dall'intermediario presso cui sono depositati i titoli che
informava del decesso di Rubolino e affermava che i diritti sulla
partecipazione spettano ai suoi eredi. Stayer - viene aggiunto nel
comunicato - non sa se e come Proman intende resistere contro questa
posizione dell'intermediario".
Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le
camere di commercio italiane, non v'è traccia di Proman spa. Né si segnala
alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi partecipazione azionaria
di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque, di scorrere la lista dei
soci targati Stayer. A parte due medi azionisti (Gianfranco Fagnani e
Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A parte un'italiana (BSPEG
SGR spa, una società di gestione del risparmio privato, con 140 mila
azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori fanno capo a Electra
Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power Tools International (30
mila azioni). A far la parte del leone c'è Ipef Parters Limited (664 mila
azioni), sigla londinese.
Osserva un operatore finanziario milanese: "Potrebbe esserci la presenza di
Ipef nell'azionariato di Proman. Il mistero comunque è fitto". E resta un
mistero, per ora, la destinazione finale delle azioni Proman: rimarranno
nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o che fine faranno? E cosa c'è
dietro il reticolo di sigle, incroci azionari, spesso e volentieri giocati
oltremanica? Un gioco forse pericoloso?
Il 28 luglio scorso, poi, l'infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo
un'inutile corsa all'Aurelia Hospital, "dove però è giunto privo di vita",
commenta in un dettagliato reportage il Mattino. L'autopsia - scrive il
solerte cronista, Dario Del Porto - "ha chiarito immediatamente la natura
del malore". E a scanso di equivoci aggiunge: "Del caso pertanto non è stata
neppure interessata la procura di Roma". E ancora, ad abundantiam: "sulle
ultime ore dell'uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino è stato colpito
da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante la notte
nell'abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da anni".
Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre - che si è svolta nella
chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, l'unica parrocchia dello Stato
Vaticano - per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini. "Si può,
quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio di avere avuto la
celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa ambita da molti nei
momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma in un luogo, qual è lo
Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza si intreccia con il perdono
come sofferente superamento dei peccati e degli atti illeciti commessi nella
vita".
Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a porsi
qualche interrogativo. Per celebrare in Sant'Anna ci vuole la chiave giusta:
"occorre una particolare autorizzazione - scrive Santini - ciò rivela che
chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha entrature nel mondo vaticano. I
parenti? Gli amici? Non è dato saperlo". Avvolti nel dubbio amletico,
riusciamo però a sapere che fra le personalità presenti alla cerimonia
c'erano "i parenti e gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio
Colombo e altri esponenti della borghesia napoletana".
A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois
Jehle.
Caso Siani a senso unico
Caso Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i
colpevoli dei clan torresi che - secondo la ricostruzione del pm Armando
D'Alterio - decisero ed eseguirono quell'omicidio. Una volta tanto, la
parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo
quali.
Il movente. Debole. Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. "Per punire
lo sgarro", hanno spiegato gli inquirenti. "In quell'articolo Siani faceva
capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per mettere le cose a
posto e recuperare l'onore, la cosa andava lavata col sangue". Credibile?
Possibile che una camorra allora più che mai rampante avesse deciso di
tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze dell'ordine?
Un articolo non (ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto.
Non ci vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso.
Quello che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della
Provincia di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile
dell'Osservatorio sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare,
capire e radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della
Camorra spa. Lamberti fu l'ultima persona a sentire Giancarlo, avevano
appuntamento per la mattina dopo, ma "lontani dal Mattino", come
raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la sera prima
l'abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva freddato a bordo
della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un passo da casa. "Non
era particolarmente preoccupato - ricorda Lamberti - però doveva dirmi una
cosa che gli premeva. Ed era urgente. Stava lavorando ad un'inchiesta per la
rivista dell'Osservatorio sugli intrecci politica-affari-camorra nell'area
torrese. Uno dei grossi affari, allora, era rappresentato da un'area, il
quadrilatero delle carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti,
sia sui referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e camorristi".
A corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di
Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno. La
Voce lo intervistò dieci anni fa. "Avevo incontrato diverse volte Giancarlo
in quegli ultimi mesi - affermava Di Maio - stava lavorando, mi raccontava,
a una grossa inchiesta sugli appalti nell'area stabiese. In particolare,
voleva capire se dietro al paravento di un'impresa ci fosse lo zampino di
qualche politico eccellente e operazioni di riciclaggio della camorra". Il
nome dell'impresa era Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura
della Buontempo Costruzioni Generali), quello del politico Francesco
Patriarca, ras gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina
mercantile. Di Maio cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza
riuscirci. "Mi presentai in procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi
disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di
persona l'indagine. Sono andato due volte in procura, dietro appuntamento,
ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la possibilità di
verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di Siani". Parole dure
come pietre. Mentre decine e decine di testi hanno fatto passerella davanti
alla mezza dozzina e passa di toghe che si sono alternate al capezzale di un
processo quasi impossibile.
Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a rivelare
qualche ombra nell'inchiesta, un 'buco nero' rimane ancora oggi lì a
lasciare spazio ai dubbi. "Giancarlo lascia la redazione di Castellammare -
ricorda - va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di Torre ma si
interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e dei rapporti
camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali, dopo la sua morte,
sono spariti". Una ricostruzione che lega perfettamente con quelle di
Lamberti e Di Maio.
Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. "C'era un'altra pista,
battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente. E' la pista di via
Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti forse inconfessabili. Tanti
anni fa ne parlò esplicitamente Corrado Augias nel suo Telefono GialloS poi
il silenzio più totale".
Chissà se il regista Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a
Napoli per completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a
"L'abusivo", il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura dell'esperto di
misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a vedere oltre i muri di
gomma che ancora circondano quella tragica morte. "Emerge - dice Risi alla
Voce - un delitto tuttora carico di misteri e interrogativi rimasti senza
risposta, nonostante i processi e le sentenze. Questa sarà la chiave del mio
film su Giancarlo".
Guardie e killer
Primavera vaticana '98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera
e una suora - sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto
riserbo - entra nell'alloggio di servizio del neo comandante delle Guardie
Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena raccapricciante:
tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da revolverate. Quello di
Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vice caporale Cedric
Tornay.
Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro
Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d'Italia. "Tra
i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa, Joaquin Navarro
Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell'Opus Dei; monsignor
Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria vaticana; e monsignor Pedro
Lopez Quintana, assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato
vaticana. La scena del delitto non viene sigillata, anzi già alla 21 e 30
sono decine le persone che si aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova
importanti vengono rimossi o spostati. A differenza di altri episodi
avvenuti all'interno del perimetro vaticano, come l'attentato al Papa,
nessuna richiesta di collaborazione viene inoltrata alle autorità italiane.
Delle indagini si occupa il Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora
dell'arrivo del magistrato, il Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva
sul posto un'ora dopo, mani ignote hanno già provveduto a perquisire non
solo l'ufficio, ma anche l'appartamento di Estermann e l'alloggio di Tornay.
Quando i corpi verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile
alle indagini. Anche l'autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all'interno
delle mura vaticane".
Detto fatto, non passano nemmeno tre ore - siamo a mezzanotte - e
l'infaticabile Navarro Valls può sentenziare: "I dati finora emersi
permettono di ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E'
tutto molto chiaro, non c'è spazio per altre ipotesi". Caso dunque chiuso in
180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal magico
cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una lettera
d'addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa Navarro) a un
commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e queste parole: "Se mi
succede qualcosa, consegnala ai miei genitori". Spiega il
portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve a tempi
di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi negli anni: la
missiva - precisa - è stata consegnata al Giudice Marrone, il quale la darà
ai parenti di Tornay in arrivo a Roma. "Spetterà ai familiari del vice
caporale - aggiunge Valls - decidere se rendere noto il contenuto della
lettera oppure no". Commenta Provvisionato: "Nella fretta l'astuto portavoce
della Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico.
Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta almeno
un'ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è cattiva
consiglieraS".
Intanto circola già qualche indiscrezione sull'imminente uscita del nuovo
libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato, del volume
d'inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla scomparsa di
Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che secondo l'ex
magistrato, sarebbe ancora viva.

DOPO RUBOLINO - LE OMBRE SULLA COMMISSIONE TRANTINO
LA TERRA DEL VITO
E' un copione popolato da personaggi campani, quello di Telekom Serbia. Non
solo il pool di consulenti del presidente, ma soprattutto le decine di nomi
tirati in ballo, quasi tutti al centro di inchieste della procura di Napoli.
Ecco, dalla A alla Zeta, i protagonisti di una vicenda tutta da chiarire,
compreso mister Centomila Alfredo Vito.
Di Andrea Cinquegrani
Una storia germogliata e sbocciata tutta all'ombra del Vesuvio? Possibile
che protagonisti, interpreti e comprimari del copione di Telekom Serbia
siano quasi tutti napoletani o comunque che le loro multiformi acrobazie
(finanziarie, societarie, massoniche etc.) si siano intrecciate dalle nostre
parti? Del resto la Campania - negli ultimi anni - è stata teatro di
misteriose operazioni arcimiliardarie (o presunte tali), fra intrighi
internazionali, cupole più o meno nascoste, servizi deviati, spioni, 007,
faccendieri, alti prelati, finanzieri, camorristi, piduisti e chi più ne ha
più ne metta. "A cominciare dall'operazione Adelphi - commentano in
Procura - è stato un susseguirsi di inchieste che spesso si sono allargate a
dismisura. Forse troppo". Molte, infatti, sono abortite, finite in flop,
passate ad altra procura, stralciate oppure archiviate. Insomma, una bella
fauna giudiziaria
Sulle tracce degli affari e dei riciclaggi arcimiliardari targati munnezza
si era mossa, una decina d'anni fa, Adelphi, che partendo da Napoli, via
mediatori politici e brasseur, passava nel casertano, tra i feudi di
Sandokan, Cicciotto e' mezzanotte & C., per approdare fino a villa Wanda,
nell'aretino, magione di Licio Gelli. Lo stesso Venerabile, anni dopo, è
stato convocato dai magistrati di Torre Annunziata Paolo Fortuna e Giancarlo
Novelli a proposito di un altro intrigo internazionale, l'inchiesta Cheque
to cheque, che si diramava fino nella profonda Russia del dopo Gorbaciov,
tra cappucci, grembiulini e traffici d'uranio. Simile il copione, del resto,
nella parallela indagine Phoney Money, condotta dal procuratore capo di
Aosta Anna Maria Bonaudo: uno dei nomi di quel 'copione', Gianmario
Ferramonti, leghista della prima ora, fa capolino in quelle carte e si
ritrova, oggi, nei faldoni di Telekom Serbia.
E ancora, sempre dalla procura di Torre Annunziata (contrassegnata nel
frattempo dal maxi scandalo che ha coinvolto l'ex numero uno Alfredo Ormanni
e il capo dei cancellieri, abile costruttore di fascicoli e processi
fasulli) è partita un'altra indagine-fiume i cui rivoli si sono diramati per
tutta Italia, fin nel Trentino: al centro, questa volta, traffici di
potentissime armi nucleari, uranio, perfine truppe mercenarie con il
coinvolgimento di ambasciatori, industriali, finanzieri; rimbalza anche il
nome di Giulio Andreotti (ora tornato prepotentemente alla ribalta con le
nuove rivelazioni sul caso Calvi e, prima ancora, con la ormai storica
condanna a metà: mafioso fino all'80, poi fiero oppositore delle cosche),
immortalato in una foto diplomatica con l'ambasciatore-intrallazzatore.
Fino alla spy story che ha catalizzato l'interesse dei media per una decina
di giorni a metà 2001: la Spectre di casa nostra, quella sorta di
intelligence parallela messa su da faccendieri, ex colonnelli, camorristi &
fauna varia per creare dossier falsi a carico di questo o quel nemico di
turno. In un vorticare di storie, riciclaggi & miliardi che portano fino
alla tigre serba Arkan, ai traffici internazionali di prodotti farmaceutici
e anabolizzanti, a commerci di droghe e sigarette lungo l'asse
Montenegro-Italia. Per aver divulgato alcuni particolari inediti di
quell'inchiesta - peraltro non coperti da alcun segreto istruttorio - la
redazione della Voce venne perquisita alle 6 di mattina da uomini dei
servizi, che sequestrarono anche tutto il materiale rinvenuto (per 40
giorni), più memorie di computer, floppy disk etc. Anche quell'inchiesta,
però, si è persa fra le solite nebbie.
Ma passiamo in rapida carrellata, nome per nome, protagonisti & interpreti
del copione di Telekom Serbia, sui quali la Voce ha indagato e scritto più
volte nell'ultimo decennio.

BOBBIO Luigi - Tra i fedelissimi di Agostino Cordova ai tempi del lavoro
come pm a Napoli, prima dello sbarco a palazzo Madama tra le fila di An. Per
anni ha fatto parte del pool antidroga in compagnia di Paola Ambrosio (anche
lei per un paio d'anni 'prestata' alla politica, forzitaliota, presidente
del consiglio regionale sotto la giunta Rastrelli). Fiero oppositore dello
sciopero in magistratura, è per la figura della giudice-macchina, mero
esecutore di leggi: insomma, la toga-computer. Come senatore, fa parte della
commissione su Telekom Serbia.
BOCCHINO Italo - Per un anno circa commissario di An a Napoli, rampante fra
i duri del partito di Fini. Al timone editoriale del quotidiano di destra il
Roma - l'ex foglio laurino - supportato dall'afragolese Antonio Pezzella,
pezzo grosso nei business targati Poste Italiane. E' genero di Eugenio
Buontempo, il costruttore-faccendiere della sinistra ferroviaria (per anni
compagno di Paola Ambrosio), socio d'affari di Francesco Pacini Battaglia,
protagonista della Tangentopoli partenopea con la chicca della flotta Lauro
acquistata per un pugno di soldi. Il nome di Bocchino fa capolino fra le
carte della maxi inchiesta su Alta Velocità & dintorni portata avanti dalla
procura di Roma e che già vide, a maggio '99, finire in galera - o ai
domiciliari - parecchi uomini di An (Antonio Rastrelli, Marcello
Taglialatela, Domenico Zuccarone). Fra i soci dell'editrice del Roma figura
anche la moglie di Massimo Buonanno, al timone con Agostino Di Falco (anche
lui in galera per l'inchiesta romana sulla Tav) dell'Icla, l'acchiappatutto
del dopo terremoto cara a Paolo Cirino Pomicino e a Vincenzo Maria Greco. Fa
parte della commissione Telekom Serbia.
D'ANDRIA Renato - I magistrati napoletani e romani (l'inchiesta sulla
Spectre è passata da una procura all'altra) lo accusano di essere il
co-regista (insieme a Sica) della creazione di un'intelligence parallela,
finalizzata all'attività di dossieraggio. Il suo nome rimbalza sulle
cronache locali e nazionali per un ventennio. Rampante imprenditore a inizio
anni ottanta, presidente della Confapi Campania, investe a 360 gradi:
dall'editoria (rileva da Leonardo Di Donna, un tempo dominus craxiano
all'Eni, il quotidiano il Globo; poi, sempre dal garofano, il Giornale di
Napoli), alle acque minerali (acquista l'Appia), alle lane (Borgosesia),
alle finanziarie (la Tecfinance diventa il suo scrigno). Poi, la buccia di
banana sarda, un fallimento (quello del gruppo alimentare Casar, vedi
riquadro) che lo porta agli arresti. Controlla l'emittente campana Canale
10. Suo avvocato di fiducia, fino al 2000, Carlo Taormina.
DEIANA Pio Maria - Ha fatto affari con lo smaltimento dei rifiuti tossici,
lavorando in subappalto anche per il parastato (gruppo Ansaldo in
particolare). Ex socio di Antonio Volpe (vedi) nella Janua Dei (oggi la
sigla è controllata da Pio Maria e dal figlio Roberto, mentre con la moglie
Francesca Genise è in sella alla Società Progetto Cina, sempre dedita alle
problematiche 'ambientali'), ha intessuto rapporti anche con Francesco
Pazienza (vedi), che poi lo scarica. Ed é lo stesso faccendiere a
'costruire' la storia dei rapporti fra Prodi e Deiana, proprio per una
affare in Cina.
DINACCI Filippo - Fa parte del pool di avvocati del premier Berlusconi. Una
carriera folgorante, la sua. Una dozzina d'anni fa era un avvocaticchio
senza né arte né parte in quel di Santa Maria Capua Vetere, dove per
sbarcare il lunario patrocinava cause perse: come una a suo stesso favore,
per un cacciavite volato da un balcone sul tetto della sua Opel,
graffiandola. Prende carta, bolli & penna, Dinacci junior, e cita in
giudizio presso il tribunale civile di Napoli il lanciatore: vuole due
milioni di vecchie lire, l'assicurazione della controparte offre solo
450mila lireS Come sarà poi andata a finire? Male, sicuramente male, qualche
anno dopo la sua corsa verso il Parlamento, sotto le insegne dc, gavianeo
doc. Nel '94 si presenta per la destra. Suo padre, Ugo, è salito alla
ribalta delle cronache, nel '96, come capo degli ispettori ministeriali al
tempo di Alfredo Biondi ministro di grazia e giustizia (nella formazione
odierna milita oggi Arcibaldo Miller, ex pm a Napoli e poi a Santa Maria
Capua Vetere). Un ispettore un po' troppo zelante, Dinacci senior, tanto da
essere messo sotto inchiesta dai magistrati bresciani con l'accusa di aver
esercitato pressioni su Antonio Di Pietro, a tal punto da costringerlo ad
abbandonare la toga. Il successivo guardasigilli, Vincenzo Caianiello, lo
rimosse dal suo incarico di capo degli 007 di via Arenula (rinnovando il
team al completo). Da quelle accuse uscì scagionato; ma dei reali motivi che
condussero Di Pietro a lasciare la magistratura non è mai stato accertato
nulla. Un altro dei misteri italiciS
LONGO Guido - Ex capo centro della Direzione investigativa antimafia a
Napoli. In passato, ha condotto indagini su Antonio Volpe (vedi) ed ha
lavorato su parecchi casi per conto della procura di Napoli: in particolare,
le inchieste sugli affari della massoneria deviata (Spinello & C., vedi), e
sulla Spectre partenopea (Sica & C., vedi). Oggi si rimbocca le maniche per
il ministero degli Interni e svolge un'azione di coordinamento tra il
Dipartimento di pubblica sicurezza che fa capo al Viminale e la stessa
commissione parlamentare che indaga sull'affare Telekom Serbia.
MARINI Igor - Il numero uno, il superpentito, la gola profonda della
commissione Trantino. Fresco di nozze, un anno fa, con una misteriosa donna
napoletana. La felice sposa viene ritratta, come nei migliori copioni stile
Dinasty, svolazzante in piazza del Plebiscito, sullo sfondo la basilica di
San Paolo. Sono lontani i giorni - pure da poco trascorsi - del facchinaggio
al mercato ortofrutticolo di Brescia.
PASCUCCI Vittore - Avvocato, brasseur d'affari, originario di San Bartolomeo
in Galdo, terzo contribuente a Roma nell'85, Pascucci fa capolino in
un'infinità di operazioni finanziarie, a livello nazionale e internazionale:
sempre in compagnia di personaggi poco raccomandabili. Sulla stampa
economica, il suo nome compare per la prima volta, a inizio anni novanta, a
proposito di un misterioso istituto di credito estero, Eurotrust Bank, con
sede ad Anguilla, nelle Antille olandesi. Suo socio era l'ex playboy romano
Pierluigi Torri, titolare del celebre Number One, arrestato nel 1977 a
Londra per una storia di droga, fuggito dalle galere britanniche, tornato in
Italia e uscito indenne dai vari iter giudiziari. Una "instant bank",
Eurotrust - secondo la colorita descrizione degli analisti finanziari -
capace di compiere le più incredibili operazioni di lavaggio di danaro,
titoli, azioni e quant'altro in un battibaleno: per la serie, dal
riciclatore al consumatore (evidentemente gabbato). Il pallino di Pascucci,
però, sono le assicurazioni: il suo gioiello è Pan.Ass., che proprio sulla
piazza napoletana fa la sua fortuna a metà anni ottanta. Un portafoglio -
ricordano ancora oggi i broker partenopei - pieno di patate bollenti e di
affari poco chiari. La compagnia viene commissariata, il Tar del Lazio,
però, gli dà ragione. La compagnia, comunque, passa sotto il controllo di
MultiAss, collegata alla finanziaria di salvataggio Sofigea. Risalgono a
quegli anni i rapporti d'affari con Paolo Viscione, altro acrobata nel campo
delle polizze, allora a sua volta in ottimi rapporti col re delle
assicurazioni a go go, Ninì Grappone, anni più tardi - invece - vicino al
gruppo Themis dell'avvocato Lucio Varriale. Nel pedigree di amicizie,
comunque, spiccano nomi di ben altro rango. Come Pasquale Galasso, il boss
di Poggiomarino, e il suo riciclatore doc Giuseppe Cillari, protagonista
della scalata al famoso Kursaal di Montecatini. E poi, Giuseppe Jaquinta,
l'ennesimo avvocato-faccendiere, lo "sceicco di Baronissi", fermato dieci
anni fa a Chiasso con la 'valigia del tesoro': miliardi in titoli falsi,
danari da riciclare, progetti per faraonici progetti in Medio Oriente e chi
più ne ha più ne metta. Jacquinta, a sua volta, era legato a doppio filo con
Marco Cordasco, altro riciclatore in guanti bianchi del clan Galasso, inizi
di carriera alla Imec di Torre Annunziata del gruppo Apreda.
PAZIENZA Francesco - Un nome, una storia. Sinonimo di servi deviati, P2,
spioni e depistatori; di riciclaggi & affari. Di sangue e misteri
eccellenti, da Sindona a Calvi. Uno dei suoi capolavori per i Servizi è la
gestione del rapimento Cirillo, dove riesce ad ottenere la legittimazione
per la Camorra spa, allora rappresentata dalla Nco di Cutolo ma già pronta a
cambiare pelle nella Nuova Famiglia imprenditrice. E' il 'regista' occulto
dell'affare-prefabbricati nell'Irpinia nel dopo terremoto. Nella trattativa
per la liberazione di Cirillo, ad esempio, Pazienza individuò nel
costruttore irpino Sergio Marinelli il terminale per una sfilza di
subappalti. "Quando venne sequestrato Cirillo - dichiarò agli inquirenti il
'pentito' Giovanni Auriemma - i servizi segreti sembrarono impazzire, poi
Pazienza e i suoi uomini ci contattarono a più riprese. Volevano che ci
adoperassimo per la sua liberazione. Ci proposero, oltre a una somma del
riscatto, favori processuali e la strada spianata per gli appalti della
ricostruzione". In più, Pazienza promise ai capi della Nco - la trattativa
fu con Vincenzo Casillo, 'o nirone - il 5 per cento sull'importo dei lavori
che le aziende del Nord avrebbero ricevuto per il post terremoto. "Lui ci
fece i nomi di grosse ditte che ci avrebbero garantito i subappalti -
verbalizzò ancora Auriemma - noi gli demmo i nominativi di alcune società di
nostra fiducia. Venivamo informati in anticipo degli stanziamenti per i più
importanti appalti della regione. Il ricavato degli affari doveva poi essere
diviso tra noi della camorra e l'ala dei servizi legata a Pazienza". Fra i
grandi 'amici' di Pazienza il superlatitante della Nco il cui destino è
ancora avvolto nel più fitto dei misteri, Pasquale Scotti. "Lui e gli altri
capi della Nco - erano le parole di Auriemma - s'incontravano con Pazienza
in continuazione a Roma, ma anche a Napoli, Avellino, Acerra. Una volta
andarono insieme sullo yacht con Alvaro Giardili, il socio di Pazienza, e
alcune bellissime ragazze. E quella volta Scotti mi disse che il generale
Santovito cominciava a dare fastidio". E Santovito, dopo qualche mese, passò
a miglior vita.
PINTUS Curio - Finanziere d'assalto di origine sarda. Per la prima volta il
suo nome compare tra i fascicoli di un'inchiesta aperta dalla Direzione
Distrettuale Antimafia di Firenze a fine anni novanta. Un maxi giro di
titoli e danaro - per una valore stimato in circa 1200 miliardi di vecchie
lire, secondo alcuni invece solo virtuale - transitati per istituti e
sportelli bancari di mezza Europa, soprattutto tramite libretti al portatore
(fu la stessa tecnica, per fare un solo esempio, utilizzata dal
commercialista faccendiere Vincenzo Pinzarrone per dare la scalata al Napoli
Calcio nel '97). Uno dei transiti più frequentati delle acrobatiche
operazioni architettate da Pintus e C. (tra cui svariati campani, come
Giuseppe Di Cristofaro, Ernesto Ludando, Martino Passananti e Carmelo Russo)
è proprio una piccola banca salernitana, la Cassa di Serre, a quel tempo
diretta da Passananti. Nei vorticosi giri - descriveva la Voce nel giugno
1999 - si cimentano parecchi partners, "mafia russa e siciliana, Cia,
servizi segreti, massoneria, uomini del Vaticano, faccendieri che lungo
l'asse La Spezia-San Marino-Napoli-Salerno fino agli Usa falsificano,
importano, esportano capitali, libretti di deposito, valuta interna ed
estera. La stessa gang - veniva precisato - che ha cercato di dare la
scalata alla Banca di Sarajevo". Titolare di Soliman Finance, un vero e
proprio forziere di partecipazioni societarie, Pintus fa poi capolino nel
Gruppo Zeta, capace di spaziare fra Italia, Olanda, Germania e
Centroamerica, impegnato soprattutto nell'import-export di prodotti tessili.
Proprietaria di Zeta è un'altra misteriosa sigla, Sidema, che fa capo a
Donatella Zingone, consorte dell'ex ministro degli Esteri Lamberto Dini, e
ad uno spezzino, Oreste Lauretti, socio d'affari di Pintus (il quale, a sua
volta, ha tentato addirittura la scalata alla Roma calcio in compagnia
dell'ex leone ruggente da Perugia Giancarlo Parretti, sfortunato acquirente
del colosso Metro Goldwin Mayer). Altri giri, altri affari. Eccoci a Città
di Castello, dove Pintus & C., a bordo di Soliman, sbarcano per comprare
tutto: dal complesso settecentesco della Montesca, alle squadre di calcio e
pallavolo. Per approdare in Calabria e al feeling col capo della 'ndrangheta
di Africo Leo Talia, una poltrona nella commissione di Cosa nostra: un
affiatato tandem per riciclare a tutto spiano in Italia e all'estero, meta
prediletta l'Argentina.
ROBELO Alvaro - Ex ambasciatore del Nicaragua in Vaticano. Nel suo paese si
candida addirittura per le presidenziali, senza successo, con la liste
"Arriba Nicaragua" (Forza Nicaragua). Massone, il suo nome compare -
storpiato in Ropledo - fra i velenosi dossier della commissione Trantino. Un
nome che aveva fanno capolino anche nell'inchiesta Phoney Money, in combutta
con il brasseur leghista Ferramonti.
RUBOLINO Giorgio - Il suo nome rimbalza nei dossier nella commissione
Telekom Serbia. E' uno dei vari nomi che Trantino sottopone al vaglio
dell'avvocato d'affari romano Fabrizio Paoletti, con la domandina di rito:
"Conosceva tizio?". Chi ha suggerito il suo nome? E' uno degli interrogativi
più inquietanti (vedi l'inchiesta di apertura della Voce).
SICA Pietro - Ex colonnello dei carabinieri (come il fratello Raffaele, che
aveva per obiettivo una poltrona ai vertici alla Dia di Napoli), accusato,
nell'inchiesta sulla Spectre partenopea, di essere molto abile nel tirar
fuori dal suo cilindro dossier fasulli a carico di 'nemici' dei suoi
committenti, fra cui Renato D'Andria (vedi). Un uomo, Sica, dal "micidiale
grado di attività criminale", viene descritto dai pm. Nel suo pedigree,
comunque, figurano svariati capi d'imputazione: dal concorso nel reato di
416 bis finalizzato al contrabbando; al traffico di valori per un'ottantina
di miliardi; fino alla bancarotta fraudolenta e al falso in bilancio. Come
contorno, truffe alle assicurazioni, all'amministrazione militare, all'Aima;
e ancora, carte d'identità false, traffici di sostanze anabolizzanti. Per
finire con la chicca: l'aver agevolato il clan Alfieri attraverso "illecite
rivelazioni sulle verbalizzazioni dei pentiti". Fra i suoi amici del cuore,
Melchiorre Romano, quarantacinquenne originario di Torre Annunziata e
trapiantato in via Capo Le Case, nel cuore della Roma bene, a un passo da
piazza di Spagna: secondo gli inquirenti, Romano rappresenta il trait
d'union con le cosce del Montenegro, e in particolare con la gang della
tigre Arkan. Non è finita: perché l'ex colonnello Sica ha frequentato anche
ambienti ministeriali eccellenti, in particolare quelli del Tesoro: qui,
infatti, faceva frequenti visite all'eminenza grigia di quel dicastero,
Vincenzo Chianese, napoletano, presidente del collegio sindacale della TAV
spa fino al suo arresto, avvenuto nel 1999, per ordine della procura di Roma
che indaga sul maxi business dell'Alta velocità e di altri mega appalti
arcimiliardari.
SPINELLO Nicola - Figlio di Salvatore (vedi). E' coinvolto nella stessa
inchiesta su affari, mafia & massoneria.
SPINELLO Salvatore - Siciliano d'origine, napoletano d'adozione. Uno che di
mafie & massonerie se ne intende, Spinello, indagato dalla procura di Napoli
(il fascicolo è stato trasmesso anche al pm capitolino Luca Tescaroli) per
una serie di inquietanti episodi: a curare quell'inchiesta, i pm napoletani
Antonio D'Amato (oggi fra i consulenti togati del presidente della
commissione Telekom Serbia Trantino) e Arcibaldo Miller, nel pool degli
ispettori ministeriali nominati dal guardasigilli Castelli. Agli atti,
numerose conversazioni fra Spinello e Angelo Siino, il 'ministro dei lavori
pubblici' di Totò Riina. Parlano un po' di tutto, i due. Di salotti romani,
di incontri ministeriali, di uomini in grembiulino e cappuccio. Perfino di
Giovanni Falcone, e dei suoi incarichi prima di essere ucciso. Ma
soprattutto, i due, parlano di affari. Nei paesi d'oltrecortina (soprattutto
traffici di uranio coi paesi dell'est) e anche a casa nostra; e uno dei temi
preferiti è la Tav, l'Alta velocità, alla quale sono interessate parecchie
imprese 'amiche' (di cui si fanno anche i nomi). Saranno quelle contenute
nell'informativa elaborata dai Ros a fine 1990 e finita sul tavolo di
Falcone qualche mese prima saltare in aria a Capaci con moglie e scorta? Uno
che sembra conoscere a memoria segreti & intrighi dei palazzi, le vie
d'accesso agli appalti miliardari, i giusti mediatori e gli apripista ad
hoc. Un nome fino a quel momento - siamo a inizio 2000 - in pratica
sconosciuto, piomba fra le cronache giudiziarie. Per poi tornare subito
nell'ombra. Ora, rieccolo con l'affare Telekom. Ma che fine avrà mai fatto
quell'inchiesta massonica? Un'altra sparizione annunciata nei porti delle
nebbie?
TAORMINA Carlo - Il burattinaio? L'amico del burattinaio? O che? Lui - alla
Rivaldo - proclama le dimissioni dal parlamento. Per fare mezza marcia
indietro il giorno dopo. E' il legale di Giovanni Fimiani (vedi riquadro) e
di Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne. Il delitto senza colpevole, senza
motivo, senza pietà. Senza soluzione. Un tunnel senza fine. Poche certezze.
Una su tutte. La famiglia Franzoni dopo alcuni mesi, improvvisamente, senza
un plausibile motivo, cambia di 180 gradi strategia difensiva. E,
soprattutto, il difensore. Si passa da un cattedratico doc, un principe del
foro come Federico Grosso, padre di codic

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