repressioni metropolitane
20 novembre processo di primo grado: resistenza-violenza aggravata a pubblico ufficiale
repressione metropolitana
Le nostre città sono in trasformazione, la "metropoli padana" è in continuo movimento: flussi di migranti, rivendicazione e autogestione di "spazio pubblico", incrociarsi e condivisione di progetti, soggettività, rapporti sociali. E succede anche che chi vive la città in modo diverso dai pub, dalle discoteche, dai divertimentifici più o meno istituzionali, dai concerti dei radiohead, dagli spazi collettivi assegnati a chi ne fa business [do you know "parco di sant'agostino" d'estate?], dai progetti per i "gggiovani" gestiti da manager invischiati con le case discografiche e le agenzie, si prende il momento per dissentire. Per dissentire nella preparazione della più sentita manifestazione degli ultimi anni italiani, qualcosa che entra in pieno diritto nell'immaginario collettivo di 57 milioni di persone. Genova, il G8, estate 2001. Un'estate calda, afosa, nella quale quello che si era sempre definito "il movimento" incrociava i boy scout, il cristianesimo di base, l'associazionismo, il volontariato e tutti quei soggetti con i quali magari in qualche occasione si era trovato a condividere piccole istanze. L'appuntamento era ghiotto, importante e sentito: fermare, bloccare, interferire nella riunione degli 8 Stati più ricchi della Terra, che si trovavano a Genova per decidere, ancora una volta e con maggior arroganza e spavalderia, delle sorti di ormai 6 miliardi di uomini e donne che ogni giorno aprono gli occhi sul Pianeta Terra. Non si parlava d'altro, in Italia, in quei giorni caldi. Ne parlavano in tono più o meno allarmistico i media, in tutti gli ambiti della vita sociale era "quello" l'argomento: Genova. E succedeva che anche a Bergamo, nonostante il clima di tensione creato piano piano dalle manifestazioni di Napoli e Goteborg, qualcuno pensava - e pensa - che un altro mondo fosse necessario, che la globalizzazione neoliberista sia un mostro che mangia vite, persone, risorse, che si può vivere meglio di così ma tutt* insieme. Queste cose venivano scritte su di un muro della via dello struscio bergamasco, la via delle vetrine, dei negozi, del consumo [ma anche dei venditori ambulanti migranti cacciati, per le stesse borse che trovi nei negozi chic, da squadre di vigili robocop], in una sera che precedeva di un paio di giorni il vertice di Genova. Notte fonda, arriva una volante della polizia a sirene spiegate, dalla quale scendevano due agenti con la pistola in pugno. I ragazzi - tre compagni del c.s.a. Pacì Paciana - si fermano, tranquillamente. Uno degli agenti - Alfio Rota Bulò - inizia a vomitare bile contro i tre ragazzi. Minacce, insulti. "a genova vi facciamo il culo... dovete cagarvi addosso quando vedete una divisa". E inizia a picchiare i ragazzi con pugni e calci con una ferocia tale da slogarsi una caviglia. I ragazzi chiedono alla collega dell'agente di intervenire, la collega cerca - senza convinzione - di fermare l'aggressione. Arrivano altre volanti e prima che arrivino l'agente si strappa la camicia per simulare un'aggressione. Nel frattempo uno dei ragazzi chiamava il proprio avvocato, chiamata andata persa nei tabulati della Telecom. Nello stesso momento sopraggiunge un'ambulanza a fari e sirene spente parcheggiata - guarda caso - poco lontano. Le finte ferite dell'agente vengono curate dai medici compiacenti dell'ambulanza, i ragazzi - feriti e gonfi per le botte prese - vengono arrestati. Il giorno dopo si tiene un processo per direttissima nel quale non viene convalidato l'arresto anche perchè le dichiarazioni rese dall'agente Rota Bulò vengono smascherate dal giudice che non può non notare come le ferite presentate dall'agente coinvolgano parti del corpo atte ad offendere: mano destra e caviglia destra. Ora, a due anni di distanza, gli stessi tre ragazzi saranno processati in primo grado per quella serata.
La storia si ripete: dopo le denunce e gli arresti contro altre parti del movimento, --e qui il campo è vasto su diversi livelli: si va dagli eventi internazionali come Salonicco, in cui veri poliziotti depositano vere molotov vicino ad un compagno ferito, a terra, creando falsi "artistici", o come Evian in cui veri poliziotti travestiti da finti manifestanti irrompono a volto coperto nel media center; alle situazioni tipicamente "nostre" dove tempeste di 270/, bis o meno che siano, rinfrescano, o riscaldano il clima con cadenze sicuramente non casuali. Anche a bergamo si tende a criminalizzare chi non ci sta, chi da anni porta avanti un modo nuovo di vedere e di organizzare la città autogestendo uno spazio pubblico, aperto, condiviso e fuori dalle logiche imperanti di mercato, chi pensa che con la precarietà non si stia poi così bene, che reclama diritti per tutt* indipendentemente da permessi di soggiorno e reddito. L'attacco è diretto, forte, in faccia e si inserisce in un trend preciso di controllo dei movimenti e dei territori metropolitani, di criminalizzazione di tutti quegli uomini e tutte quelle donne che si oppongono a questo tipo di società. Un attacco che va a inserirsi nelle storie personali di tre ragazzi, di uno spazio autogestito e di un movimento, un attacco studiato a tavolino [chissà come mai la videocassetta di una banca che aveva ripreso, in quel luglio 2001, tutta l'aggressione risulta "inservibile" e smagnetizzata...] e preparato con cura.
Siamo consapevoli di trovarci difronte solo ad un piccolo tassello di una strategia repressiva di più ampio respiro
che si rende visibile in continui sgomberi e attacchi penali e mediatici. A tutto questo dobbiamo rispondere con forza, con la forza delle reti che siamo riusciti a costruire in questi anni,
con la forza dei contatti, delle relazioni, delle sinergie. Dobbiamo ripensare i territori che viviamo e
attraversiamo quotidianamente per trovare al loro interno le soluzioni e le risorse necessarie per diffondere spazi
e utenze, per arginare una precarizzazione standardizzata che produce solo ricattabilità e profitto[perpochi].
c.s.a. pacìpaciana
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