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MO: critica agli Accordi di Ginevra
by gap Thursday, Dec. 11, 2003 at 9:12 AM mail:

Shiko Behar, direttore del Alternative Information Center (Aic) organizzazione israelo-palestinese con sede a Gerusalemme e Beit Sahour / Michael Warschawski, co-presidente dell’Aic

Testo e contesto israeliano degli Accordi di Ginevra

Shiko Behar e Michael Warschawski*
3 dicembre 2003

Gli accordi di Ginevra, l’ultima cornice non ufficiale per la pace israelo-palestinese, reso pubblico a metà ottobre del 2003, non sono diventati la base per i negoziati ufficiali. Ma l’iniziativa ha già avuto successo su un aspetto: ha suscitato tante voci di speranza quante di protesta tra gli israeliani e i palestinesi anche se il governo israeliano li ha rifiutati e l’autorità palestinese non li ha formalmente sottoscritti. Gli accordi di Ginevra ­ essenzialmente un riproposizione del piano di pace presentato dal presidente Clinton alla fine del 2000, gli accordi di Ginevra fissano diversi principi base sui quali costruire un accordo di pace permanente.

L’iniziativa di Ginevra richiede una seria valutazione critica da parte di coloro che sono interessati in una pace duratura ­ una pace più giusta possibile ­ tra israeliani e palestinesi. I negoziati hanno coinvolto un consistente numero di importanti personaggi guidati da Yossi Beilin, già ministro nel governo laburista israeliano, e Yasser Abed Rabbo, fino a tempi recenti ministro degli affari di gabinetto dell’autorità palestinese e uno dei maggiori rappresentanti nei passati colloqui ufficiali. Fino ad oggi gli accordi di Ginevra rappresentano il documento più avanzato sul quale si è trovato un accordo tra politici palestinesi e israeliani di alto livello. Comunque, in un modo che ricorda le iniziative dell’epoca di Clinton, questo apparentemente coraggioso documento è intrinsecamente debole. Ed è anche presentato in maniera ingannevole - e quindi votata alla sconfitta ­ dai suoi firmatari israeliani.

DOPPIA URGENZA

In base agli accordi Israele è autorizzata a legalizzare e mantenere insediamenti nella Cisgiordania occupata (che ospitano oltre 3000.000 coloni), inclusi tutti gli insediamenti ebraici costruiti dopo il 1967 nella parte orientale araba di Gerusalemme. In cambio i palestinesi ricevono quale compensazione territori equivalenti da Israele. I Palestinesi avranno la garanzia della sovranità sui territori scambiati e sulle restanti parti di Cisgiordania e Gaza, inclusi i sobborghi arabi i Gerusalemme est. Questa entità sovrana palestinese rimarrà smilitarizzata. La sicurezza del Monte del Tempio/Spianata delle Moschee, luoghi sacri di Gerusalemme sarà assicurata da una forza internazionale permanente, mentre gli aspetti non riguardanti la sicurezza saranno sotto controllo palestinese; sarà garantito agli ebrei il pieno accesso al sito.
I palestinesi resi profughi nel 1948 riceveranno risarcimenti, mentre sarà ad unica discrezione israeliana decidere a quanti rifugiati, sul totale di oltre 4,1 milioni registrati dall’Onu, sarà permesso ritornare nelle loro case in Israele.

Questa clausola rappresenta un forte compromesso da parte palestinese rispetto al diritto al ritorno dei rifugiati ­ benché non sia il suo totale abbandono. A questo riguardo l’opposizione agli accordi tra i palestinesi è legittimata non solo da un punto di vista politico e morale ma anche dal punto di vista a loro favorevole della legge umanitaria e internazionale. Per giustificare questa concessione, i palestinesi che hanno partecipato ai negoziati di Ginevra sottolineano una doppia urgenza che attualmente prevale su altre questioni nell’arena politica israelo-palestinese.

La prima urgenza è che sta scadendo il tempo per arrivare ad una soluzione negoziata: nel prossimo futuro potrebbe non esistere più nulla di sostanziale da negoziare, dati i continui insediamenti israeliani nei Territori Occupati e la costruzione del muro all’interno della Cisgiordania, che sta di fatto rafforzando un sistema di apartheid.

La seconda deriva dalla crescente convinzione tra le opinioni pubbliche palestinesi ed israeliane che non esistono partner dall’altra parte e quindi i negoziatori palestinesi sostengono che presto potrebbe diventare impossibile convincere palestinesi e israeliani che un qualsiasi tipo di soluzione negoziata del conflitto possa essere raggiunta.

I partecipanti israeliani ai negoziati di Ginevra condividono questa sensazione di doppia urgenza; ecco perché giustificano l’importanza della loro iniziativa, valorizzando la sua potenziale capacità di capovolgere la spirale di disperazione (di Israele), o perlomeno di frenarla.

LE LEZIONI DI OSLO

Benché le prospettive degli Accordi di Ginevra siano incerte, un altro ministro palestinese, Ghassan Al Khatib, ha risposto a diversi commentatori che tali accordi “stanno creando utili rumori” in Israele. Arrivando dopo tre anni di assenza di iniziative ufficiali da parte del governo sharon, e tra le critiche provenienti dal capo dello Staff delle forze armate israeliane Moshe Yaalon e da quattro ex dirigenti dei servizi di intelligence, l’iniziativa di Ginevra ha il potenziale di interrompere lo spostamento a destra dell’opinione pubblica ebraica israeliana. Ma le analisi sul possibile impatto degli accordi devono tenere in considerazione l’esperienza degli accordi di Oslo del 1993, che sembravano anch’essi promettere pace, e la loro disintegrazione nella seconda metà degli anni ’90.

Molti di coloro che pensavano che gli accordi di Oslo avrebbero prodotto una pace che fosse la più giusta possibile, limitavano la loro analisi al testo degli accordi stessi, che portava loro a premettere che tali accordi incontravano le aspirazioni minime del popolo palestinese.

Benché gli accordi non soddisfacevano queste aspirazioni minime, avrebbero comunque potuto rappresentare un modesto punto di partenza per una pace israelo-palestinese che soddisfacesse i bisogni basilari di israeliani e palestinesi (solo per quanto riguarda Gaza e Cisgiordania) ­ a condizione che israeliani e palestinesi avessero compreso il testo in maniera simile e provveduto a portare avanti i negoziati in buona fede. Sfortunatamente non è stato così.

Se i negoziatori palestinesi sembravano sinceramente intenzionati a raggiungere quello che definivano “storico compromesso” basato sulla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ­ che significava rinunciare a nulla di meno del 78% della loro rivendicazione storica dell’intero territorio della Palestina mandataria ­ i politici israeliani usarono i documenti di Oslo per consolidare ulteriormente il loro controllo coloniale sulle vite e sulla terra palestinesi. Durante il “processo di pace” le colonie esistenti si sono allargate, ne sono state costruite ulteriori e il numero dei coloni è più che raddoppiato. Questi fatti portano ad una sola conclusione: i primi ministri Yitzhak Rabin e Shimon Peres intendevano sfruttare sin dall’inizio l’equilibrio asimmetrico tra le forze dello stato occupante israeliano e la società palestinese occupata per imporre all’Autorità Palestinese una concezione di pace basata sulla continua dominazione.

Molti osservatori del processo di Ginevra trascurano il fatto che gli anni ‘90 in Israele sono stati principalmente un periodo di governo della sinistra sionista, e non del Likud e della destra ultra- nazionalista: tra l’elezione di Rabin nel 1992 e la vittoria elettorale schiacciante di Sharon sull’ex Primo Ministro Ehud Barak nel febbraio 2001, ci sono stati quasi sei anni di governo del Partito Laburista con l’appoggio a sinistra del Meretz. Contrariamente alle percezioni prevalenti è la sinistra sionista ­ piuttosto che la destra ­ che ha la principale responsabilità del fallimento del “processo di pace” negli anni ’90. dato che gli accordi di Ginevra nascono dalla stessa “scuola” israeliana che ha prodotto gli accordi di Oslo, Beilin e i suoi associati avrebbero potuto aumentare la praticabilità politica del loro nuovo processo di Ginevra se avessero ammesso pubblicamente il loro fallimento degli anni ’90. Essi non lo hanno fatto, ancora una volta rifiutandosi di offrire all’opinione pubblica una spiegazione alternativa per la nascita dell’intifada rispetto al luogo comune dei palestinesi che avrebbero “scelto la violenza”.

Nel 1993, invece che cercare di convincere gli israeliani che stava per iniziare una nuova era basata sull’eguaglianza e sulla coesistenza pacifica, i leader della coalizione Labour-Meretz hanno bastato la loro strategia di marketing unicamente sulla sicurezza, sulla separazione dai palestinesi e la continuità della supremazia coloniale israeliana. Tale leadership non ha voluto riconoscere alcuna responsabilità israeliana o sionista per gli oltre 100 anni di conflitto; al contrario, consciamente questa leadership ha legato il conflitto, politicamente e retoricamente, al “terrorismo” e allo storico rifiuto permanente palestinesi.

Ascoltando attentamente le personalità israeliane legate al processo di Ginevra ­ soprattutto quando parlano ebraico ­ è subito evidente che non hanno dimenticato, o imparato da, il loro stesso fallimento di Oslo. Infatti si rivolgono all’opinione pubblica israeliana, per sostenere l’iniziativa di Ginevra, con lo stesso comportamento e le stesse strategie di marketing.

“REALISMO” E “GENEROSITÀ”

Il testo degli accordi di Ginevra ha scarso significato al di fuori del contesto politico e giornalistico nel quale è stato “venduto” all’opinione pubblica israeliana. In pratica, la reale sostanza degli accordi è fissata nella “esegesi” verbale e scritta che circonda il testo degli accordi. Questo contesto di spiegazioni già preannuncia il fiasco politico a cui sembra destinato il testo nel prossimo futuro.

Un articolo pubblicato su “The Guardian” da uno dei più importanti partecipanti israeliani agli accordi di Ginevra, il famoso scrittore Amos Oz, illustra queste posizioni. L’articolo di Oz, intitolato “We have done the gruntwork of peace”, era basato su un articolo pubblicato precedentemente in ebraico in Israele.. Oz spiega che i colloqui di Ginevra erano differenti dai passati rapporti israelo- palestinesi: per esempio, non vi è più discussione sul “diritto al ritorno dei profughi” ma piuttosto “una soluzione al problema dei profughi”; non c’è più discussione sul “ritorno ai confini del 1967” ma “una mappa logica che tenga anche conto della realtà presente e non solo della storia”.

Lettori innocenti potrebbero concludere che la logica è una caratteristica mentale della sola sinistra sionista e che gli israeliani, al contrario dei palestinesi, non hanno mai basato alcuna loro rivendicazione nazionale sulla storia. Il messaggio principale di Oz è il seguente: negli accordi di Ginevra i palestinesi hanno finalmente scelto di essere “realistici” e di rinunciare non solo al diritto al ritorno ma anche alla richiesta di un completo ritiro nei confini del 1967.

Oz, che è uno dei principali “guru” del movimento israeliano “Peace Now”, fa uno sforzo ulteriore per ribadire che è stata l’ostinazione palestinese che ha portato al fallimento di Oslo e del vertice di Camp David del luglio 2000; Oz sostiene che i pacifisti israeliani alla fine hanno avuto successo convincendo gli irrazionali palestinesi che devono accettare i “paletti” stabiliti dalla sinistra israeliana. Questi “paletti”, secondo un collega di Oz, rappresentano un grande sacrificio da parte loro perché egli “è pronto a rinunciare a niente di meno che ad una parte della propria fede religiosa, poiché sono pronto, con il cuore a pezzi, ad accettare la sovranità palestinese sul Monte del Tempio”. E ancora, Oz ricorre ad un simile simbolismo propagandistico dichiarando che “noi cediamo la sovranità di una parte della Terra di Israele, dove rimangono i nostri cuori”. Quali sono, allora i principali problemi, per Oz e per la scuola israeliana di Ginevra che egli ben rappresenta, per quanto concerne l’opinione pubblica israeliana?

Mancando della capacità di autocritica, Oz rinforza l’autostima di Israele e sottrae ai palestinesi la posizione di vittime, rappresentando sé stesso e Israele come le vere vittime; egli non fa alcun tentativo per comprendere gli enormi sacrifici fatti dalla sua controparte palestinese. La sua prosa rispecchia gli assunti che sottostavano alle “generose” offerte di Barak ad Arafat a Camp David nel luglio 2002.

Per convincere l’opinione pubblica israeliana, gli israeliani che hanno sottoscritto gli accordi di Ginevra devono mostrare ­ o così almeno credono ­ che gli israeliani “hanno vinto” e che i palestinesi “hanno rinunciato”. Il più grande difetto degli accordi di Ginevra è che la basilare nozione dei diritti umani e politici inalienabili del popolo palestinese è totalmente ignorata da Oz e dai suoi soci, come fu il caso degli accordi di Oslo. Seguendo Barak, Oz sostituisce il concetto di diritti con quello di carità ­ “se avessimo offerto loro nel 1967 quello che offriamo oggi…”. Quando non è riconosciuto alcun posto ai diritti, e l’equilibrio delle forze favorisce in maniera così evidente l’occupante illegale, il racconto corrente israeliano si legge in questo modo: i palestinesi hanno rinunciato ai loro obiettivi distruttivi (perché per Oz e la scuola di Ginevra “‘ritorno’ è una parola in codice per significare la distruzione di Israele”) perciò noi, campo pacifista israeliano, abbiamo deciso di essere estremamente generosi.

SISTEMATICAMENTE CONTROPRODUCENTE

A parte la sua valenza morale, gli argomenti di “marketing” del contesto dei partecipanti israeliani a Ginevra sono controproducenti politicamente rispetto all’obiettivo di generare un cambiamento dell’opinione pubblica israeliana. Se i diritti politici ed umani non esistono e il conflitto deriva dall’irrazionale determinazione palestinese di cacciare gli ebrei, come possono gli israeliani credere che i palestinesi possano cambiare? E se i palestinesi cambiano solamente perché il campo pacifista israeliano è stato abbastanza duro nel trattare con loro, allora perché non essere ancora più duri e costringerli ad accettare la dominazione israeliana senza alcuna concessione di nessun tipo?

Anche gli alchimisti politici del calibro della scuola di Ginevra non possono costruire fiducia basandola sulla menzogna: per convincere l’opinione pubblica israeliana alcuni dei partecipanti di Ginevra sostengono che, questa volta i palestinesi hanno rinunciato al loro diritto al ritorno.

Una semplice lettura dell’articolo 7 degli accordi rivela che i palestinesi che hanno partecipato ai colloqui di Ginevra sono davvero pronti a fare notevoli compromessi rispetto ai diritti dei profughi palestinesi; in ogni caso essi non sono andati così lontano da rinunciare al “diritto al ritorno”, come stabilito dalla risoluzione 194 dell’Onu approvata nel 1948, dato che una tale mossa cancellerebbe immediatamente e totalmente la loro legittimità agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.

Coloro che sono interessati ad una pace duratura ­ la più giusta possibile ­ tra israeliani e palestinesi devono pertanto porsi una domanda: perché la scuola di Ginevra cerca di comprarsi l’opinione pubblica israeliana sostenendo esattamente il contrario di quello che la controparte palestinese dice alla propria opinione pubblica, in modo da ottenere il suo supporto all’iniziativa congiunta?
Il risultato finale del processo di Ginevra consisterà così in un aumento delle differenze tra le letture di israeliani e palestinesi, preparando in questo modo ancora una volta il campo per l’accusa israeliana, spesso rilanciata dai decani della stessa scuola di Ginevra, che i palestinesi sono bugiardi.

Alcuni dei più cinici partecipanti israeliani al processo di Ginevra sanno perfettamente che esiste una contraddizione esplosiva tra la lettura palestinese degli accordi e il modo in cui vengono venduti all’opinione pubblica israeliana. Questi israeliani sembrano credere che un’esposizione falsata della posizione palestinese possa aiutarli a indurre gli israeliani a riportare il Partito Laburista al potere, dove troverà il modo per imporre gli “accordi”.

Ma i laburisti non riusciranno a tornare al potere perché le loro politiche sono una pallida replica delle convinzioni dei partiti di destra.
Le dimissioni dell’ultimo candidato laburista a primo ministro, Amram Mitzna, da presidente del partito, insieme alla rinuncia degli esponenti di sinistra del partito come Beilin e Yael Dayan a formare un nuovo partito socialdemocratico ­ testimonia l’impossibilità di una seria riforma del partito. In campo socio- economico il Partito Laburista sostiene posizioni neoliberiste simili a quelle di Binyamin Nethanyahu del Likud.

In merito al conflitto arabo-israeliano parlamentari laburisti come il gen. Binyamin Ben Eliezer, Efraim Sneh e Dany Yatom sono probabilmente peggiori di alcuni parlamentari del Likud. La questione per l’elettore medio rimane la stessa: perché votare per una copia (laburista) quando si può votare per l’originale (Likud)?

CHE FARE?

Se sono davvero interessati ad una pace per la loro popolazione sostenibile e praticabile, i politici israeliani avranno in definitiva bisogno di presentare un piano di pace che abbia il sostegno della base palestinese. A questo scopo l’opinione pubblica israeliana dovrà sviluppare una più seria comprensione delle dinamiche sottostanti il conflitto arabo-israeliano.

Piuttosto che insistere su questa o quella clausola del testo degli accordi di Ginevra, gli israeliani interessati a raggiungere una pace giusta e duratura devono immediatamente concentrarsi sulle sincere spiegazioni scritte e verbali necessarie a contestualizzare in maniera produttiva questi accordi.

In primo luogo, gli israeliani critici devono dire all’opinione pubblica israeliana che il conflitto non è la conseguenza del terrorismo o del fanatismo palestinesi, ma piuttosto il risultato dell’espropriazione e occupazione israeliane; la responsabilità israeliana del conflitto deve essere smascherata dagli israeliani stessi. I diritti umani e politici fondamentali dei palestinesi negati dalle politiche israeliane di occupazione e colonizzazione devono essere riconosciuti in ogni accordo che intende raggiungere una pace giusta. Deve essere reso chiaro all’opinione pubblica israeliana che le sole “generose offerte” tra Israele e Palestina è la volontà da parte di alcuni palestinesi di rinunciare al 78% delle rivendicazioni sulla loro patria storica.

Il diritto al ritorno è un diritto umano fondamentale. La volontà di alcuni palestinesi di considerarlo oggetto di negoziato, tenendo in considerazione le preoccupazioni demografiche di Israele, deve essere percepito come ulteriore generosa offerta palestinese. Gli israeliani critici devono chiedere ai loro concittadini israeliani ­ inclusa la scuola di Ginevra ­ come possono chiedere ai palestinesi di rinunciare al loro diritto la ritorno prima ancora che gli israeliani riconoscano la sua stessa esistenza?

Quello che è richiesto inoltre agli israeliani critici ­ e in definitiva ai politici israeliani ­ è di promuovere seriamente una concezione positiva di pace basata sulla coesistenza e l’eguaglianza. Deve essere decisamente rigettata ­ non solo per la sua corruzione morale ma perché non ha possibilità di funzionare - la concezione della pace di Oz e i suoi soci di Ginevra, che intendono la “pace” come mezzo per tenere i palestinesi fuori dalla loro vista ­ al di là del muro ­ e considera i palestinesi un pericolo esistenziale.

Come nel caso degli accordi di Oslo del 1993, negli accordi di Ginevra il contesto è molto più importante del testo, tanto più per quanto concerne l’opinione pubblica israeliana.

Note:
(traduzione da “Middle East report” http://www.merip.org)

* Shiko Behar è direttore del Alternative Information Center (Aic) organizzazione israelo-palestinese con sede a Gerusalemme e Beit Sahour; Michael Warschawski è co-presidente dell’Aic)

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